Colpevoli di viaggio

Colpevoli di viaggio

detenzione amministrativa

Colpevoli di viaggio

Breve cronistoria di un fallimento
lungo vent’anni

Corallina Lopez Curzi

Oggi si fa di nuovo un gran parlare dei “nuovi” centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) come uno degli elementi fondamentali della ricetta del governo per la gestione del fenomeno dell’immigrazione irregolare. La “stretta” in materia, annunciata già a fine 2016 da una circolare del capo della Polizia Franco Gabrielli recante disposizioni straordinarie in materia di “immigrazione illegale”, è stata infatti confermata dal decreto legge Minniti recentemente convertito - tra forti polemiche - in legge ordinaria dal Parlamento, uno dei cui punti fondamentali è appunto l’estensione del sistema di privazione della libertà degli stranieri sprovvisti di regolare titolo di ingresso o soggiorno nel territorio nazionale, attraverso una quadruplicazione della capienza dei centri di detenzione (dai nemmeno 400 posti attuali ai 1600 da garantire in futuro) ed una loro presenza più capillare sul territorio nazionale (uno per regione).

la detenzione degli “irregolari” è una storia lunga già più di vent’anni, e tutta sbagliata

Ma quella della detenzione degli “irregolari” e dei centri di identificazione ad essa dedicati è una storia già lunga più di vent’anni, e tutta sbagliata. Nel momento della massima espansione del sistema di detenzione amministrativa infatti si contavano 15 centri, con una capienza totale di oltre 2000 posti.

Essendo sorti in una logica “emergenziale” i singoli centri erano (e sono) peraltro estremamente difformi tra loro quanto a strutture e gestione. In ogni caso, un tratto comune c’è: come riassume la campagna LasciateCIEntrare, “i CIE oggi funzionanti sono per la maggior parte dislocati in aree periferiche rispetto alle città, opprimente la presenza di sbarre e di strumenti di controllo, critica la situazione socio sanitaria, frequenti le denunce di abusi e di violenze subite. Gabbie enormi circondate da cemento”.

I CIE sono stati poi progressivamente dismessi, a causa di problemi legali e umanitari1, ed attualmente ve ne sono solo 4 - a Brindisi, Caltanissetta, Roma, Torino - nei quali sono ristretti circa 300 migranti.

La storia per tappe. Gli anni chiave

Andiamo per ordine, e ripercorriamo anno dopo anno l’evoluzione della normativa (e delle pratiche) della detenzione degli stranieri in Italia.

1995 La detenzione amministrativa degli “immigrati irregolari” è un istituto relativamente recente nel nostro ordinamento: è stata infatti introdotta per la prima volta, come misura eccezionale di natura temporanea, solo nell’inverno del 1995, quando il cosiddetto decreto Dini ha sdoganato per la prima volta la possibilità di una privazione di libertà su base amministrativa di durata massima di 30 giorni all’interno di strutture indicate dal Ministero dell’Interno per gli stranieri destinatari di un provvedimento di espulsione. Il decreto Dini non fu poi (fortunatamente) mai convertito in legge, ma gettò comunque le basi per la successiva normalizzazione della pratica.

Intanto quello stesso anno la cosiddetta legge Puglia creava quello che è stato definito “il primo embrione degli attuali Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara)”, decretando l’apertura di strutture ricettive lungo la costa pugliese - che era, in quel periodo e sino al 2001, la regione italiana più interessata dagli sbarchi. Occorreva dunque garantire la prima accoglienza, in un’ottica prioritariamente di contrasto alla cosiddetta “immigrazione clandestina”, e dunque queste strutture erano concepite come realtà chiuse dalle quali lo straniero non sarebbe potuto uscire liberamente.

1998 È l’anno del vero e proprio ingresso della detenzione amministrativa (e dei centri ad essa destinati) nell’ordinamento giuridico italiano con la legge Turco-Napolitano. Tale normativa “normalizza” infatti la pratica della privazione della libertà sulla base di un provvedimento amministrativo, stabilendo che laddove non sia possibile - per la necessità di soccorrere o identificare lo straniero giunto sul suolo italiano o rintracciato in stato di irregolarità - eseguire immediatamente il provvedimento di respingimento alla frontiera o l’espulsione tramite accompagnamento coatto, il Questore possa disporre il “trattenimento” del soggetto per un periodo massimo di 30 giorni in uno di quelli che la legge battezzava come “Centri di permanenza temporanea” (Cpt).

2000-2002 A disciplinare più dettagliatamente il funzionamento di tali luoghi - dai quali è imposto divieto assoluto di allontanamento per quanti vi sono “ospitati” (rectius, ristretti) - è intervenuto innanzitutto il regolamento attuativo della Turco-Napolitano e poi, rispettivamente nel 2000 e nel 2002, due circolari del Ministero dell’Interno: la prima ha fissato linee guida nazionali per la gestione dei centri e concesso alle Prefetture la facoltà di appalto della gestione ad enti esterni; la seconda ha provato ad omologare la gestione dei centri sul territorio nazionale, introducendo un modello di “convenzione tipo” elencante le prestazioni standard da erogare da parte degli enti gestori.

2002 Tra una circolare e l’altra, però, è avvenuto un cambio epocale: l’approvazione, nel luglio 2002, della legge Bossi-Fini. La normativa ha infatti sostituito e modificato il precedente testo unico ridefinendo le politiche sull’immigrazione italiana e prevedendo, tra le altre cose, la criminalizzazione della condizione di clandestinità e l’espulsione immediata in via amministrativa degli “immigrati irregolari”- e cioè privi di permesso di soggiorno e/o documenti d’identità - eseguita con l’accompagnamento alla frontiera da parte della forza pubblica.

La legge ha dunque previsto che gli immigrati irregolari fossero portati nei Cpt istituiti dalla legge Turco-Napolitano e ivi detenuti - per un periodo massimo non più di 30 bensì di 60 giorni - al fine di essere prima identificati e poi respinti.

È inoltre introdotto anche il “trattenimento” dei richiedenti asilo nei neo-istituiti Centri di Identificazione (Cdi): trattenimento che è obbligatorio quando lo straniero ha presentato domanda d’asilo dopo essere stato intercettato nel tentativo di eludere i controlli di frontiera o comunque in situazione irregolare sul territorio nazionale, e facoltativo in tutti gli altri casi in cui è comunque necessario verificare o determinare l’identità del richiedente asilo, o gli elementi su cui si basa la sua domanda di asilo.

2003-2005 Intervengono a quel punto anche le prime, fondamentali direttive comunitarie in materia, a partire dalla cosiddetta Reception Conditions Directive - che consente agli stati di adottare misure restrittive nei confronti dei richiedenti asilo, disciplinando la possibilità di imporre un “obbligo di residenza” oppure di un “confinamento” in un luogo specifico. A questa ha fatto poi seguito la cosiddetta Asylum Procedure Directive, che, tra le altre cose, ha posto dei confini alla detenzione dei richiedenti asilo, chiarendo che gli stati non possono detenere lo straniero per il solo fatto di aver inoltrato una richiesta d’asilo e imponendo inoltre l’obbligo di prevedere, in caso di detenzione, una qualche forma di tutela giurisdizionale.

2008 Nel 2008 succedono due cose importanti: in Italia, il decreto legislativo di recepimento della Asylum Procedure Directive trasforma i Cdi creati dalla “Bossi-Fini” negli attuali “Centri di accoglienza per richiedenti asilo” (Cara) - cercando di evidenziare la vocazione umanitaria di tali strutture d’accoglienza - mentre un decreto legge recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica ribattezza i CPT creati dalla “Turco-Napolitano” negli attuali “Centri di Identificazione e Espulsione” (Cie).

In Europa, nel frattempo, viene adottata la cosiddetta Return Directive (e cioè l’importantissima “direttiva rimpatri”), contenente una serie di norme fondamentali relative alla detenzione degli stranieri sottoposti a provvedimenti di espulsione: si stabilisce che i paesi membri possono fare ricorso al provvedimento detentivo solo al fine di preparare ed eseguire l’espulsione e si sancisce il fondamentale principio della preferenza per i mezzi non detentivi di controllo, evidenziando come il ricorso alla detenzione debba avvenire solo in extrema ratio, qualora giustificato dalle circostanze del caso, tra le quali, in particolare, il rischio di fuga o i tentativi da parte dello straniero di ostacolare o impedire la sua espulsione. Inoltre, si prevede la misura alternativa del Ritorno Volontario Assistito (Rva) e cioè la possibilità per i cittadini dei paesi terzi presenti nei paesi UE di ricevere aiuto per ritornare in modo volontario e consapevole nel proprio paese di origine in condizioni di sicurezza e con un’assistenza adeguata.

Allo stesso tempo, però, il termine massimo di detenzione è innalzato dalla direttiva europea sino a 18 mesi.

2009-2011 La direttiva rimpatri ha quindi l’effetto di aprire le porte ad un allungamento dei tempi di trattenimento nei Cie, possibilità subito colta dall’Italia: con il “pacchetto sicurezza” del governo Berlusconi si alza così il termine massimo di detenzione da 60 a 180 giorni e si prevede inoltre - con l’introduzione dell’art. 10 bis del testo unico immigrazione - l’inserimento del reato di immigrazione “clandestina”, da giudicarsi con rito direttissimo di fronte al giudice di pace. Due anni dopo, con il Decreto Legge n. 89/2011 il termine massimo di trattenimento nei Cie viene poi esteso a 18 mesi. E così il limite massimo previsto dalla direttiva europea sui rimpatri solo e soltanto per casi eccezionali in Italia finisce per diventare la regola.

Con tale riforma la finalità sanzionatoria dell’istituto ha impropriamente preso il sopravvento su quello che invece, secondo il disposto della direttiva rimpatri, dovrebbe essere il solo scopo del trattenimento, e cioè il superamento degli ostacoli che non permettono il ritorno in patria. Inoltre, attraverso la direttiva 1305 del 1 aprile 2011, il governo Berlusconi ha per la prima volta ristretto l’accesso ai Cie solo ad alcune realtà umanitarie, escludendo invece in toto la stampa. I centri iniziano così a diventare luoghi sempre più opachi, e la società civile inizia la propria battaglia per chiedere maggiore trasparenza e controllo costituendosi nella campagna LasciateCIEntrare.

2014 A distanza di qualche anno, interviene finalmente un cambiamento positivo: nell’ottobre 2014 è infatti approvata la Legge europea 2013 bis con cui, per la prima volta da quando nel 1998 la Turco-Napolitano introdusse l’istituto della detenzione amministrativa per gli stranieri, il legislatore è intervenuto non per aumentare i limiti massimi della detenzione nei CIE ma bensì per ridurli significativamente. Si è dunque passati dal termine massimo di 18 mesi introdotto nel 2011 al termine improrogabile di 3 mesi, ridotto a soli 30 giorni quando lo straniero sottoposto al procedimento di espulsione abbia già trascorso almeno un trimestre in carcere.

2015 Solo un anno dopo, però, con il decreto legislativo 142, il legislatore italiano si è avvalso delle facoltà di prevedere il trattenimento del richiedente asilo consentito dalle direttive UE, seppur ribadendo il principio che il richiedente non può essere trattenuto al solo fine dell’esame della domanda di protezione. Si è così disciplinato il trattenimento (facoltativo) dei richiedenti asilo che: abbiano commesso alcuni specifici reati particolarmente gravi, che siano un pericolo per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato, che siano considerati “a rischio di fuga” nelle more della decisione sulle proprie domande oppure che al momento della presentazione della domanda erano già trattenuti in un centro di identificazione ed espulsione se si hanno fondati motivi per ritenere che le domande siano stata presentate al solo fine di impedire l’esecuzione del provvedimento di espulsione.

12 i mesi della durata massima di trattenimento

In questi casi, la durata massima del trattenimento ai fini dell’esame della domanda di protezione è fissata in un periodo massimo complessivo di 12 mesi.

2017 Poi è arrivato il cosiddetto “decreto Minniti”. La priorità del governo è evidentemente rimandare a casa quanti più “illegali” possibile e, nell’attesa di riuscire ad accelerare i ritorni forzati tramite appositi (e discutibilissimi) accordi in materia con i paesi di origine e transito dei migranti, questo richiede un maggior uso dello strumento della detenzione amministrativa Con una quadruplicazione della capienza - dai 400 scarsi di ora ai 1400 richiesti - tramite l’apertura di nuovi centri, che, nella visione del Ministro, con gli attuali Cie non dovrebbero avere proprio niente a che fare.

Si prevedono infatti nomi nuovi - da Cie a Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) - e strutture nuove, che dovrebbero essere “di piccole dimensioni, con governance trasparente e poteri di accesso illimitato per il Garante dei detenuti” - senza che però cambi la sostanza.

meno della metà delle persone raggiunte da
un decreto di espulsione vengono poi rimpatriate

E cioè il ricorso a un sistema dalla comprovata disumanità e inutilità2: meno della metà delle persone raggiunte da un decreto di espulsione e transitate nei CIE vengono infatti poi effettivamente rimpatriate - per la precisione, stando ai dati raccolti dalla Commissione diritti umani del Senato, i rimpatriati erano il 55% nel 2014, il 52% nel 2015 e sono ulteriormente diminuiti al 44% nel 2016.

DatiPresenze nei CIE e numero di rimpatri, 2013-2016

Persone transitate nei Cie

di cui rimpatriati

2013

2014

2015

2016

6.016

4.986

5.242

1.968

52%

55%

52%

44%

Persone transitate nei Cie

di cui rimpatriati

2013

2014

2015

2016

6.016

4.986

5.242

1.968

52%

55%

52%

44%

Persone transitate nei Cie

di cui rimpatriati

2013

2014

6.016

4.986

52%

55%

52%

44%

2015

2016

6.016

4.986

Fonte: Commissione diritti umani del Senato
Scarica i dati

Insomma, un sistema che ci costa dunque tantissimo in termini di violazione dei diritti fondamentali, e che per di più è anche fallimentare in termini di rendimento.

Fino a quando ancora continueremo a sbagliare?

  1. Soprattutto a causa della comprovata disumanità dei CIE, documentata da numerosi rapporti istituzionali - come quello risalente al 2007 della Commissione De Mistura e quelli della Commissione diritti umani del Senato tra il 2014 e il 2017 - e non, come il rapporto Arcipelago CIE, redatto nel 2013 da Medici per i diritti umani (MEDU).
  2. Medici Senza Frontiere, Rapporto sui Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza (2004); Asgi, Giuristi Democratici, Per una riforma della normativa in materia di immigrazione (2005); Medici Senza Frontiere, Al di là del muro. Viaggio nei centri per immigrati in Italia (2010); Medici per i Diritti Umani, L’iniquo ingranaggio dei Cie. Analisi dei dati nazionali completi del 2011 sui centri di identificazione ed espulsione (2012); Medici per i Diritti Umani, Le sbarre più alte. Rapporto sul centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria a Roma (2012); Asgi, Programma di riforme in materia di immigrazione, diritto degli stranieri, asilo e cittadinanza per la legislatura 2013-2018 (2013); Lunaria, Costi disumani. La spesa pubblica per il “contrasto dell’immigrazione irregolare” (2013); Medici per i diritti umani, Arcipelago CIE (2013).