La grande paura

La grande paura

Carcere e radicalizzazione

La grande paura

Numeri e costruzione del fenomeno.
Il vocabolario per comprenderlo

Alvise Sbraccia

Nel corso di una pausa caffè al bar della casa circondariale di Vicenza, durante la visita all’istituto come osservatore di Antigone Triveneto, il 7 luglio 2005 appresi dalla tv posta sopra il bancone degli attentati di Londra. Giornalisti ed esperti, ancora in assenza di riscontri investigativi, ipotizzavano che la “matrice islamista” si fosse manifestata in quegli atti terroristici, sviluppando un'analogia scontata con gli eventi che avevano sconvolto Madrid più di un anno prima (marzo 2004) e, naturalmente, con quanto avvenuto a New York l'11 settembre 2001. Una voce fuori dal coro -non ricordo di chi si trattasse- mise in discussione l’efficacia di quel discorso analogico, sostenendo che l’Inghilterra era diversa per via del radicamento storico della sua comunità islamica. Questo mezzo-busto ricordava ai telespettatori il precedente del fallito attentato ad opera di Richard Colvin Reid che, nel dicembre 2001, era stato fermato con dell'esplosivo nelle suole mentre si imbarcava sul volo Parigi-Miami. Reid era ai tempi un radicalizzato ventottenne dal passato problematico, di madre inglese (bianca) e padre di origini jamaicane ed aveva speso periodi della sua vita in Pakistan a Afghanistan. Da lì a poco il tema della frustrazione strutturale dei discendenti (seconde, ma anche terze e quarte generazioni) dei migranti in Europa, ovvero di settori consistenti delle cosiddette minoranze etniche, si sarebbe sviluppato ampiamente, evidenziando ad esempio una certa continuità discorsiva tra le rivolte nelle banlieu francesi dell'autunno 2005, i riots inglesi del 2011 e la più recente ondata di attacchi terroristici (2014-2016).

Tornando all’episodio vicentino, trovo appuntato il seguente scambio tra agenti di polizia penitenziaria che commentavano le notizie provenienti dallo schermo: “E noi questi ce li stiamo tranquillamente portando in Italia” – “Già, ma soprattutto ce li abbiamo già qui dentro”. Ma anche i miei interlocutori (coordinatore di area pedagogica e direttore) avevano colto l’occasione per un’interessante riflessione. Dai miei appunti dell’epoca recupero allora precise prese di posizione sulla presenza in istituto di mediatori culturali di lingua araba “fondamentali per rendere meno opprimente la condizione del detenuto che fatica a comprendere la lingua e i contenuti della comunicazione all’interno” ma anche “indispensabili per farci capire le problematiche che da questi detenuti emergono”. Il discorso si era sviluppato intorno al destino “multiculturale” degli istituti di pena e l’educatore aveva fatto un preciso riferimento alla necessità (già peraltro riconosciuta a livello ministeriale) di adottare un piano per far entrare nelle prigioni imam “accreditati e affidabili, così come lo sono i nostri cappellani”.

Ritardo cronico?

Dodici anni dopo, sarebbe facile riprodurre per l’ennesima volta la retorica dell’amministrazione penitenziaria come comparto burocratico lento e inerziale, incapace -strutturalmente e culturalmente- di reagire con tempestività alle sfide contemporanee. Il pericolo della radicalizzazione in carcere assume infatti centralità politica e mediatica solo in tempi recenti1 e, in questo periodo storico segnato dall’eterna attualità, emergono con ritardo inaccettabile opzioni strategiche come quelle che spingono per una convenzione quadro con l’Unione delle comunità islamiche d’Italia2 (U.C.O.I.I.). In realtà, questi indirizzi preventivi sono individuati chiaramente da più di un decennio. Non esiste alcun ritardo cronico dal punto di vista cognitivo. Le attività di intelligence relative alla dinamica di radicalizzazione islamista negli istituti di pena italiani sono strutturate da anni, così come specifici indirizzi formativi dedicati agli operatori di polizia. Da anni il personale dirigente (direttori, figure apicali della polizia penitenziaria) riflette sulle ragioni della mancata implementazione dell’accesso alle strutture di Imam provenienti dall’esterno. Ad esempio, riporto di seguito quanto mi ha riferito un comandante di polizia penitenziaria nel corso di una visita ad un istituto dell’Emilia-Romagna (2011): “Noi ci abbiamo provato a chiamare un Imam da fuori. Persona squisita e molto motivata. Ma i detenuti musulmani non ne volevano sapere, alcuni dicevano che era una spia, si rifiutavano di pregare con lui. Preferivano fare da soli e scegliersi l’Imam tra i compagni. Abbiamo dovuto rinunciare all’accordo, anche perché non potevamo certo imporlo rispetto al modo in cui la gente prega. È una cosa delicata, mica puoi provocare una rivolta in carcere per questo”. Infatti, a fronte di una procedura disponibile da più di un decennio, secondo il ministero di Giustizia3 sono 224 gli imam “accreditati presso il ministero dell’Interno” che operano negli istituti penitenziari della nazione (dei quali 69 prevedono locali adibiti, almeno il venerdì, alla preghiera per detenuti musulmani, mentre negli altri casi la preghiera avviene in luoghi informali come le stanze detentive o le salette destinate alla socialità).

Certo, il sistema penitenziario italiano presenta inadeguatezze significative e soprattutto interpretazioni assai differenziate di eventuali indirizzi strategici di prevenzione. Rappresentarlo tuttavia come afflitto da generica ignoranza e incapacità di adattamento non solo è scorretto, ma propriamente fuorviante per chi intenda investirlo di una valutazione critica. Segnaliamo a questo proposito la convenzione tra il ministero di Giustizia e la Conferenza dei rettori delle università italiane (C.R.U.I.) relativa al coinvolgimento di studiosi di Arabistica e Scienze Islamiche nella gestione del penitenziario e un documento (0042766U) inviato alla stessa C.R.U.I. e a diversi enti di ricerca col quale il Gabinetto del ministro di Giustizia invitava a partecipare (nell’ambito dei finanziamenti Horizon 2020) a un progetto specifico sulla prevenzione della radicalizzazione.

Come vedremo nel prossimo paragrafo è estrema l’articolazione tipologica dei soggetti radicalizzati (e radicalizzabili), ma ancor più differenziati, e talvolta riconducibili solo alla dimensione soggettiva, sono i significati che ruotano intorno alle esperienze e alle pratiche religiose dentro le prigioni (J. Beckford et al, 2006 ; K. Rhazzali e V. Schiavinato, 2016). La loro declinazione in termini conflittuali è solo una possibilità. Al di là delle vulgate del momento, il sapere esperto che si sviluppa in ambito penitenziario deve tener conto di questa complessità e ne tiene conto. Non è quindi affatto scontato che al suo interno prevalga una concezione dell’Islam incentrata sui rischi di radicalizzazione. La pratica religiosa è correttamente letta in chiave multidimensionale e multifunzionale e inserita all’interno di una dialettica gestionale. I detenuti che vi si accostano potrebbero sviluppare o recuperare riferimenti identitari più solidi, aggregarsi in chiave rivendicativa, produrre conflitto organizzato, uscire di senno ma anche rasserenarsi, sviluppare strategie di mediazione coi referenti istituzionali, ridimensionare il ricorso all’autolesionismo, vivere meglio -nei limiti del possibile- la condizione detentiva. Questa ambivalenza è di fatto irriducibile e, a parere di chi scrive, riconosciuta da chi amministra le strutture penitenziarie.

Sarebbe d’altra parte davvero poco credibile la tesi per la quale proselitismo e reclutamento in ambito carcerario colgano di sorpresa uno staff e un comparto dirigente che si è storicamente confrontato con i rischi di radicalizzazione. Non vi è qui lo spazio per un approfondimento storico della questione, basti dire che è vecchia come il carcere l’idea che reclusi più politicizzati, organizzati ed istruiti possano indirizzare in senso conflittuale la rabbia e la frustrazione tipiche del detenuto comune, ovvero del soggetto marginale che nell’adattamento delinquenziale ha cercato risposte a fronte del suo stato di subordinazione sociale. In Italia, è appena il caso di ricordarlo (cfr. R. Ferrigno, 2008; E. Quadrelli, 2013), la detenzione degli esponenti dell’eversione politica organizzata ha avuto grande impatto e prodotto riassestamenti consistenti nel settore penitenziario e nelle sue modalità di gestione.

Morfologia del nemico

In fondo, quindi, il rischio è sempre lo stesso: la canaglia rinchiusa può trovare in carcere l’occasione e il tempo per incontrare una narrativa che traduca in forme di conflitto collettivo i suoi impulsi acquisitivi o puramente distruttivi. La novità sarebbe allora legata alla matrice islamista di questo processo di radicalizzazione. In effetti, altre retoriche hanno definito questa traduzione nel contesto italiano. Tuttavia è vasta e storicamente acquisita la produzione di riscontri che illustrano come il processo di islamizzazione nelle prigioni statunitensi abbia costituito il presupposto per forme di radicalizzazione poi sfociate in esperienze di militanza e lotta politica anche d’altri segni (M. X e A. Haley, 2004). Già considerevolmente sviluppate sono inoltre inchieste, investigazioni e elaborazioni sociologiche che affrontano questo tema in altri paesi dell’Europa e dell’Occidente contemporanei (I.C.S.R., 2010).

A partire in particolare da queste ricerche, è possibile osservare una galassia della radicalizzazione jihadista davvero multiforme, differenziata a tal punto da rendere estremamente difficoltoso il tentativo di isolare le caratteristiche di un fenomeno. Quali sono i percorsi individuati di costituzione di un’identità radicalizzata? Mentre si afferma una precaria linea argomentativa che vede nel web (massimo livello di apertura e circolazione) e nel carcere (minimo livello di apertura e circolazione) i luoghi privilegiati di questa pericolosa socializzazione, una gamma di soggettività si affaccia nel nostro ordine discorsivo. Proviamo a sintetizzare con un minimo di ordine.

Foreign fighter: è un soggetto che si è allontanato per periodi più o meno consistenti dal suo luogo di origine o residenza per fare ingresso nelle milizie jihadiste che in vari contesti (Libia, Iraq, Siria) hanno intrapreso azioni di guerra, guerriglia e controllo politico-militare del territorio. Non si tratta evidentemente di un’innovazione strategica ascrivibile allo Stato Islamico, bensì di una dinamica di internazionalizzazione del conflitto storicamente affermata, come dimostrano ad esempio i conflitti più risalenti in Bosnia, Afghanistan e Cecenia. Questa mobilità transnazionale dei jihadisti è stata analizzata nel caso di Al Qaeda e con particolare riferimento allo spostamento di soggetti tra paesi a prevalenza religiosa islamica. L’attuale declinazione, pesantemente etnocentrica, vede il foreign fighter come soggetto che invece si è mosso dalle periferie dell’Occidente per contribuire alla causa jihadista. Il ritratto è quello del discendente di immigrati sollecitato da un immaginario di lotta. La sua radicalizzazione si presenterebbe come compiuta nella misura in cui, quando sopravvissuto, potrebbe far ritorno in patria dotato di competenze belliche e effettivamente socializzato alla violenza. Nel caso italiano è opportuno precisare che gli individui che, secondo stime accreditate5, avrebbero fatto una simile esperienza sono tra gli 80 e i 100 (numero incomparabile con l’omologo di nazioni quali Francia, 1200; U.K., 600; Belgio, 400; Germania 600), con una ventina di soggetti rientrati.

Infiltrato nei flussi: in questo caso, per la definizione della tipologia, non sono rilevanti le prime fasi del processo di radicalizzazione. Questo radicalizzato si nasconderebbe tra le masse di migranti e profughi che giungono in Occidente per perseguire nel contesto di approdo strategie terroristiche o realizzare attentati. Siamo evidentemente di fronte a una figura in grado di rinforzare ulteriormente l’ideologia che associa le migrazioni ad ogni sorta di minaccia.
Convertito: un vecchio adagio attribuisce attitudini particolarmente radicali a chi operi su se stesso una conversione religiosa. Attualizzato anche nel caso di alcuni foreign fighters, questo modello identifica come disposto ad assumere identità fortemente conflittuali l’occidentale convertito all’Islam.

Discendente: questo profilo rimanda a quadri analitici socio-criminologici più tradizionali (S. Walklate e G. Mythen, 2016). Membro di gruppi di minoranza, tale soggetto avrebbe esperito la frustrazione connessa a una mobilità ascendente interdetta, a forme di discriminazione e razzismo, a una collocazione residenziale e sociale marginale o fortemente subordinata. Questi elementi anomici lo avrebbero condotto ad adattamenti delinquenziali tipici (criminalità di strada), spesso accompagnati da derive esistenziali (tossicodipendenza, abuso di alcol). L’esperienza della detenzione si configura in questo caso come probabile e talvolta verificata. Proprio in carcere (e in tempi relativamente rapidi) un simile individuo potrebbe trovare nel radicalismo una risorsa identitaria ed esistenziale accessibile e potenzialmente conflittuale.

Disgregato: simile all’idealtipo precedente, traduce però la sua frustrazione in isolamento. Meno connotato dal punto di vista dell’appartenenza di classe, questo soggetto svilupperebbe tendenze sociopatiche e una spiccata identità virtuale. Proprio in rete potrebbe quindi trovare stimoli e suggestioni per realizzare (magari in piena solitudine) gesti eclatanti che donino un senso alla sua vita, al limite intesi (spesso ex post) come espressioni di una patologia psichica conclamata.
I percorsi e le traiettorie biografiche appena ricostruiti in estrema sintesi convergerebbero quindi nell’ampio contenitore della radicalizzazione (cfr. F. Khosrokhavar, 2016). Ampio e indefinito anche in considerazione delle modalità di socializzazione che lo caratterizzano, in un continuum descrittivo che va dalla classica forma del gruppo ristretto con legami sociali cortissimi e stringenti ai processi di apprendimento tipici del fruitore solitario dei siti web che veicolano contenuti jihadisti (cfr. D. Tosini, 2008), passando da forme di indottrinamento riconducibili alla costituzione di uno Stato nascente (Isis), piuttosto che da contenuti condivisi all’interno di un gruppo di pari o di una (più o meno ristretta) piattaforma di social network.
Percorsi e processi invero assai labili a fronte di una anche minima istanza definitoria6 che convergerebbero poi anche nel campo che ci interessa, negli istituti di pena, sollecitando risposte operative e organizzative di cruciale importanza.

Gestione del penitenziario e prevenzione

Le tipologie di radicalizzato e di soggetto a rischio di radicalizzazione trovano corrispondenza in alcuni elementi distintivi prodotti dall’amministrazione penitenziaria. Come vedremo nel focus seguente (realizzato da Andrea Oleandri e Daniele Pulino) ai soggetti identificati come radicalizzati, soprattutto in virtù della tipologia di reato per la quale scontano la loro condanna, sono dedicate specifiche sezioni di alta sicurezza. L’istanza esplicitata è quella di contenere la loro capacità di proselitismo, di interdire la loro eventuale strategia di reclutamento. Il rischio legato a questo potenziale di socializzazione in ambiente carcerario è quindi esplicitamente riconosciuto dall’amministrazione. Il bacino dei potenziali interessati è in prima battuta coincidente con i reclusi di fede islamica (11.029 secondo il ministero di Giustizia)7, attributo che si desume con abbondante margine d’errore dalla loro provenienza geografica, o, nella migliore delle ipotesi, dalla loro identificazione come “praticanti” (il numero ufficialmente censito sarebbe di 6.138, tra i quali 148 imam, 81 promotori e 20 convertiti nel corso della detenzione).

La scomposizione per fasi del processo di radicalizzazione (pre-radicalizzazione, identificazione, indottrinamento, manifestazione: cfr. A. Zaccariello, 2016) contribuisce poi a definire le sottocategorie dei soggetti a rischio e ci introduce quindi al campo delle attività di prevenzione specifiche, ovvero alle tecniche attraverso le quali il personale penitenziario dovrebbe riconoscere i sintomi del processo, per intervenire poi attraverso una combinazione (invero indefinita) di azioni contenitive e propositive (de-radicalizzazione).

Le stime recenti derivate da questi criteri diagnostico-conoscitivi evidenziano un numero preciso di soggetti particolarmente esposti a tale rischio. Come si legge sulla Relazione del Ministero sull’amministrazione della giustizia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017 (sezione D.5): “I soggetti attualmente sottoposti a specifico ‘monitoraggio’ sono complessivamente 165, a cui si aggiungono 76 detenuti ‘attenzionati’ e 124 ‘segnalati’, per un totale di 365 individui. Attualmente i detenuti ristretti per il reato di terrorismo internazionale, che rientrano nel novero dei monitorati, sono 44”.

DatiPersone detenute “a rischio radicalizzazione”


124

76

165

Segnalati

Attenzionati

Monitorati*

* 44 detenuti sono stati “accusati o condannati per terrorismo internazionale”

124

76

165

Segnalati

Attenzionati

Monitorati*

* 44 detenuti sono stati “accusati o condannati per terrorismo internazionale”

124

Segnalati

76

Attenzionati

165

Monitorati*

* 44 detenuti sono stati

“accusati o condannati

per terrorismo internazionale”

Fonte: Ministero della Giustizia
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Questi tre livelli definitori sono utilizzati dal Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria (N.I.C.) in accordo con il Comitato di analisi strategica antiterrorismo (C.A.S.A.) e raggruppano tra i monitorati soggetti con evidenti propensioni al radicalismo (condanne e proselitismo), tra gli attenzionati coloro che “hanno posto in essere più atteggiamenti che fanno presupporre la loro vicinanza alle ideologie jihadista” e tra i segnalati coloro i quali “meritano approfondimento” per la loro relazione con soggetti di cui ai primi due livelli. Vale la pena di approfondire quali siano questi indicatori di pericolosità secondo Zaccariello, che attualmente dirige il N.I.C. ed ha quindi competenze cruciali sul fenomeno in questione: atteggiamenti sfidanti nei confronti dell’autorità, rifiuto di condividere gli spazi con detenuti di altre confessioni, segni di giubilo a fronte di catastrofi naturali o attentati in Occidente, esposizione di simboli e vessilli correlati al Jihad. Una serie di manifestazioni esteriori che potrebbero essere correlate alla “presenza di un indottrinatore” (Zaccariello, 2016, 47) ma anche alla “percezione di essere discriminati dal personale” o “ad un evento internazionale percepito come negativo” (Ivi). Queste forme di espressione possono naturalmente attirare l’attenzione delle agenzie preposte al controllo e perfino innescare procedimenti di espulsione (oltre che di categorizzazione e trasferimento). Assumendo l’obiettivo del contrasto al fenomeno, tuttavia, sono le forme di “radicalizzazione nascosta” (Ivi), quelle compatibili con una strategia eversiva effettivamente insidiosa, a destare maggiore preoccupazione. I sintomi di quest’ultimo processo sono più difficili da riconoscere e insistono propriamente sulla visione ambivalente della pratica religiosa tipica del mondo penitenziario. L’interpretazione dei significati si gioca nella partita equilibrata tra oppio dei popoli e benzina sul fuoco.

  1. Citiamo a titolo esemplificativo due dichiarazioni di esponenti governativi. Per ciascuna delle affermazioni di chiusura, la domanda “perché?” non trova risposta. Gentiloni (primo ministro): “I percorsi di radicalizzazione si sviluppano soprattutto in alcuni luoghi, nelle carceri e nel web, più che in altri luoghi che abbiamo magari molto seguito negli scorsi anni o decenni. Non c’è un idealtipo uguale per ciascuno dei soggetti che si radicalizzano. Sono situazioni molto diverse. Ma bisogna lavorare sulle carceri e sul web per la prevenzione”. Orlando (ministro di Giustizia, ai tempi del governo Renzi): “Le carceri sono dei luoghi in cui si può strutturare una visione estremista dell’Islam, con capacità di proselitismo”. Orlando (ministro di Giustizia, ai tempi del governo Gentiloni): “Seguiamo con preoccupazione il fenomeno della radicalizzazione, la quale ha come focolaio gli istituti penitenziari”.
  2. Ministero della Giustizia
  3. Relazione del Ministero sull’amministrazione della Giustizia, anno 2016 (Inaugurazione dell’anno giudiziario 2017), Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (sezione D.5)
  4. Secondo altre fonti non governative, sarebbero invece soltanto 14
  5. Il riferimento è alle ricerche prodotte dal International Center for the Study of Radicalisation and Political Violence. Si veda in particolare il seguente report
  6. Come quella, invano perseguita, dalla Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista
  7. Relazione del Ministero sull’amministrazione della Giustizia, anno 2016 (Inaugurazione dell’anno giudiziario 2017), Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (sezione D.5)

Bibliografia

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WALKLATE S. e MYTHEN G. (2016), Fractured Lives, Splintered Knowledge: Making Criminological Sense of the January, 2015 Terrorist Attacks in Paris, in Critical Criminology, 24, 2016, pp. 333-346

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ZACCARIELLO A. (2016), Il fenomeno della radicalizzazione violenta e del proselitismo in carcere, in Diritto Penitenziario, III, 2016, pp. 46-47