Dall’esperienza del Difensore civico

Dall’esperienza del Difensore civico

Diritto alla salute

Dall’esperienza del Difensore civico: riflessioni sui rapporti tra medico e detenuto

Tre storie di malasanità nelle carceri italiane

Simona Filippi e Susanna Zecca

Tra le attività dell’associazione Antigone c’è quella del Difensore civico e dello Sportello per i diritti, un gruppo di avvocati ed esperti che offrono consulenze legali gratuite ai detenuti di tutte le carceri italiane. Ogni giorno arrivano al Difensore lettere, email, telefonate con richieste riguardanti i temi più disparati: trasferimenti ritenuti ingiusti, accesso negato alle cure mediche, sostegno per avere una misura alternativa, assenza di spazio vitale, denuncia di violenze1. Ogni singola segnalazione viene approfondita per decidere come procedere. Negli ultimi mesi sono in netta crescita le segnalazione riguardanti le condizioni di salute delle persone detenute. Tale aumento porta ad interrogarsi sul ruolo del medico di fiducia in carcere e sul rapporto tra medico e persona ristretta. Secondo la legge penitenziaria, in ottemperanza ai principi costituzionali, la tutela della salute della persona detenuta deve trovare piena garanzia: “L’assistenza sanitaria è prestata, nel corso della permanenza nell’istituto con periodici e frequenti riscontri, indipendentemente dalle richieste degli interessati.”

Ancora maggiore attenzione deve essere prestata se la persona detenuta non si sente bene: “Il sanitario deve visitare ogni giorno gli ammalati e coloro che ne facciano richiesta; deve segnalare immediatamente la presenza di malattie che richiedono particolari indagini e cure specialistiche […].” (Art.11 L.354/1975)

Il medico di reparto dovrebbe essere per
il detenuto l’equivalente il medico di famiglia

Questi principi si sono rinforzati con il passaggio delle competenze sanitarie dal Ministero della Giustizia al Ministero della Salute tra il 2008 e il 2010, con cui anche la persona detenuta è stata finalmente restituita al suo normale interlocutore per la tutela della salute: il Servizio Sanitario Nazionale.

Il medico di reparto dovrebbe essere per la persona ristretta l’equivalente del medico di famiglia che, secondo gli standard internazionali, “è il medico di fiducia del singolo individuo, principalmente responsabile dell’erogazione di cure integrate e continuative ad ogni singola persona che necessita di cure mediche indipendentemente dal sesso, dall’età e dal tipo di patologia. Il medico quando negozia con i pazienti la gestione delle cure integra i fattori fisici, psicologici, sociali, culturali ed esistenziali, servendosi della conoscenza e della fiducia maturata nel corso di contatti ripetuti.”

Forti perplessità sulla effettiva esistenza di un rapporto di fiducia tra medico e detenuto derivano dai numeri del personale medico e infermieristico costantemente sottostimati rispetto alla popolazione detenuta e da problematiche di “burn out” derivanti da un lavoro difficoltoso e usurante.

Oltre a queste circostanze, un focus di riflessione deve essere fatto sul rapporto di interlocuzione tra il medico di reparto ed il Tribunale di sorveglianza. Si può infatti dire che il medico gioca un ruolo fondamentale per la libertà del detenuto in quanto la decisione in caso di incompatibilità da parte della Magistratura per motivi di salute è incentrata prevalentemente sulla relazione che viene redatta dal medico di reparto. Questo ruolo condiziona inevitabilmente la sua valutazione clinica che tende a perdere di oggettività. Il rischio è infatti che il medico davanti ad un detenuto che lamenta una patologia grave o molto grave sia portato a pensare che la persona stia esagerando la propria sintomatologia ai fini di ottenere un beneficio. Si può determinare quindi tra il detenuto e il medico una condizione di opposizione e di tensione che mette in crisi il fondamentale rapporto fiduciario.

Spesso in questi anni, abbiamo sentito i detenuti raccontarci di stare male e di non essere stati ascoltati o di non essere stati creduti. Come è evidente, le conseguenze di questo mancato ascolto (o, in altre parole, di questa mancata fiducia) possono essere gravi o addirittura irrimediabili.

La storia di Alfredo

La storia di Alfredo Liotta ne è un caso emblematico2.

Nel corso di quasi un mese in cui Alfredo lamentava uno stato psicofisico grave, i medici che si sono alternati non hanno mai valutato in modo obiettivo e tecnico le sue condizioni che valutavano “simulatorie”.

Così il Tribunale rigettava la richiesta di incompatibilità con le condizioni detentive per motivi di salute avanzata da Alfredo sulla base della valutazione medica che aveva definito “moderato” il suo deperimento.

Trascorsi quasi cinque anni dalla sua morte, inizia davanti al Tribunale di Siracusa il processo per omicidio colposo contro nove medici.

Antigone, già dichiarata quale persona offesa nella richiesta di rinvio a giudizio, avanzerà richiesta per la costituzione di parte civile.

Secondo la pubblica accusa, otto medici del carcere e il medico nominato dal Tribunale hanno colposamente ucciso Alfredo in quanto non hanno “posto in essere un’adeguata gestione intramuraria dello stesso. Più precisamente i sanitari, descrivendo in maniera generica e atecnica i disturbi del Liotta come “disturbi del comportamento” ovvero “disturbi della personalità” e ancora genericamente il rifiuto del cibo come “sindrome anoressica”, omettevano di rappresentare che lo stesso fosse in effetti uno dei sintomi più evidenti di tale disturbo, rispetto al quale lo stesso non era in grado di determinarsi in maniera lucida ed intenzionale.”

Il processo dunque dovrà fare chiarezza sulle responsabilità dei sanitari che già molte settimane prima della terribile morte, nonostante l’evidente peggioramento delle condizioni fisiche di Alfredo, non hanno posto in essere neanche le azioni più elementari di valutazione.

Così, viene ricostruito nel capo di imputazione: “omettevano di – trattare il Liotta in maniera consona, disponendo o facendo disporre un ricovero d’urgenza presso idonea struttura ospedaliera; - di disporre o far disporre il TSO di cui all’art. 34 L833/1978; - di effettuare adeguate misure di controllo e di monitoraggio dei parametri vitali del Liotta, ivi compreso la costante misurazione del peso corporeo, l’effettuazione di esami ematologici, nonostante il grave e progressivo decadimento fisico dello stesso; - di avviare l’iter per l’alimentazione forzata dal momento in cui il Liotta risultava incapace di autodeterminarsi”3.

Insomma, la morte di Alfredo Liotta si sarebbe potuta evitare se i sanitari che lo avevano in carico presso la Casa Circondariale di Siracusa avessero prestato la giusta attenzione alle sue richieste di aiuto.

Ad analoga conclusione sono giunti i consulenti del Pubblico Ministero che così hanno concluso il loro elaborato: “Il Liotta versava in uno stato cachettico che determinava squilibri metabolici e anatomici tali da precludergli ogni libera autodeterminazione, caratterizzato da incapacità a mantenere la stazione eretta, grave sottopeso, disorientamento spazio-temporale, con alterazioni cognitive gravi al punto da determinare incontinenza. In questa situazione sarebbe stato necessario istituire un trattamento sanitario obbligatorio per il grave pericolo per la salute e perché il detenuto non era capace, a quel punto, di comprendere il significato delle sue scelte. Tale intervento, mirato alla somministrazione di sostanze nutritive farmacologiche, avrebbe certamente ritardato, se non impedito, il decesso del detenuto.”

E ancora, affermano i consulenti: “L’evidenza dell’ipotensione rilevata dopo l’episodio di rettorragia avrebbe dovuto essere, per i sanitari, un importante segnale d’allarme per la messa in opera delle procedure di valutazione dello stato del Liotta e delle decisioni conseguenti finalizzate all’adeguata gestione clinica del paziente. L’osservanza di tali misure avrebbe certamente ritardato, se non impedito, il decesso del detenuto.”

La storia di Stefano

Un altro caso che ci ha fatto interrogare sulla necessità di ripartire dalla instaurazione del rapporto di fiducia tra medico e detenuto è quello di Stefano Borriello, morto nella Casa circondariale di Pordenone, a ventinove anni per una polmonite batterica.

Anche in questo caso il medico di reparto, davanti ad evidenti sintomi di infezione, non ha proceduto ad alcun accertamento limitandosi a somministrare una terapia, tra l’altro non adeguata.

Come riportato nel diario clinico di Stefano, in data 6 agosto 2015: “Notevole componente dispnoica, si somministra Diclofenac e Tavor 2,5 mg”.

Sempre nel corso della stessa giornata, Stefano presenta anche un episodio di febbre elevata (con temperatura corporea di 39°).

La condizione di malessere prosegue il giorno successivo quando le sue condizioni peggiorano ulteriormente: alle ore 13.00 del giorno 7 agosto 2015, Stefano presenta il seguente stato: “Riferisce la difficoltà a respirare e presenta dolori a spazi intercostali.”; alle ore 16.15 “Persistono dolori intercostali e cervicali”. Nonostante i sintomi presentati, il medico non visiterà più Stefano se non quando, alle 20.15, le sue condizioni precipitano: il personale intervenuto del 118 lo troverà in arresto cardiocircolatorio.

Secondo il consulente di parte nominato dalla madre, Stefano è stato colpito da una infezione polmonare che è stata “misconosciuta” dal personale medico.

La richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura della Repubblica di Pordenone non è stata accolta dal Giudice il quale, il 28 settembre 2016, ha disposto ulteriori indagini definendo “generica e non esaustivamente argomentata” la consulenza disposta dal Pubblico ministero.

Secondo il Giudice, le indagini espletate non hanno approfondito profili in ordine alla “manifestazione della patologia ed alla rilevazione, tempestività ed adeguatezza del trattamento sanitario praticato al paziente”.

La storia di A.

Infine merita la nostra attenzione il caso di A. che, all’età di 39 anni, mentre si trovava ristretto presso la Casa circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso, è stato colpito da un ictus che ne ha determinato lo stato vegetativo di minima coscienza in cui attualmente si trova.

Dalla ricostruzione della vicenda riportata nell’atto di denuncia dei familiari emerge in modo chiaro che nei giorni precedenti il ricovero A. aveva manifestato sintomi di allarme neurologico come difficoltà nella deambulazione e nell’eloquio ed episodi ripetuti di vomito.

I compagni di cella, molto allarmati per le condizioni di A., avevano più volte sollecitato un intervento medico e anche A. aveva insistentemente lamentato un grave malessere.

Così come riportato nell’atto di denuncia dei familiari, A. si è sentito male nella notte mentre si trovava ristretto nella cella nel reparto “G12” presso la Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso. Durante la notte, il detenuto si svegliava bruscamente dicendo che si sentiva molto male, che gli girava la testa e che non vedeva più.

In particolare, il detenuto chiedeva al compagno di cella di portarlo in bagno in quanto sentiva l’esigenza di “dare di stomaco” e non riusciva a stare in piedi. I compagni di cella, tutti, si allarmavano e chiamavano gli agenti di polizia penitenziaria per chiedere l’intervento di un medico. Gli agenti autorizzavano il detenuto ad accompagnare A. in infermeria. Qui viene visitato soltanto da un’infermiera, la quale provvedeva a misurargli la pressione e la glicemia per poi invitare i due detenuti a ritornare nella loro cella. Al rientro in cella, le condizioni fisiche di A. peggiorano ulteriormente in quanto lo stesso non riusciva più ad articolare correttamente le parole tanto che non si riusciva a capire quello che diceva e si toccava continuamente una parte della testa (probabilmente la parte sinistra). In seguito, intorno alle ore quattro del mattino, il detenuto accompagna nuovamente A. presso l’infermeria del reparto, sempre su una sedia a rotelle. In infermeria, il detenuto viene visitato soltanto da un’infermiera che gli misura la pressione e la glicemia. A questo punto, le condizioni di A. peggiorano ulteriormente tanto che lo stesso iniziava leggermente a storcere la bocca. Nel corso della giornata, A. continua a non reggersi in piedi e non si riesce a capire quello che diceva, non ha appetito e non beve. Durante la sera, intorno alle ore 20.00, il compagno di cella accompagna A., con la sedia a rotelle, presso l’infermeria, dove un’infermiera provvede a misurargli nuovamente la pressione e la glicemia. Intorno alle 21.30, il detenuto accompagna nuovamente A. con la sedia rotelle presso l’infermeria, dove finalmente viene visitato da una dottoressa, la quale gli chiedeva come si sente e perché non mangia, lui risponde a fatica con poche parole dicendo che non ci riusciva. Davanti alla dottoressa, A. dice che vuole vomitare, allora il detenuto lo alza di peso e una volta in piedi, A. rimette con due “gettate” di vomito – così detto “vomito a getto” - tanto copiose da riempire completamente un secchio. La dottoressa riferisce ad A. che si sarebbe sentito meglio, non gli prescriveva nulla e lo faceva ritornare in cella. Nel corso della notte, A. continua a sentirsi molto male, a parlare male e a toccarsi continuamente la testa. Durante la giornata, A. non parla proprio più, ha parte della bocca completamente storta, non mangia e beve soltanto un bicchiere d’acqua.

Anche in questo caso, dopo più di due anni dalla triste vicenda, la Procura della Repubblica ha avanzato richiesta di archiviazione in quanto al personale sanitario non si può “imputare un qualsiasi ritardo diagnostico ed ancor meno una omissione terapeutica.”

All’udienza dello scorso 12 gennaio, il Giudice ha accolto l’opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dai familiari ritenendo “incompleta” e “scarna” la ricostruzione effettuata dal consulente della Procura.

Ci siamo soffermate soltanto su alcuni dei casi più significativi seguiti in questi anni in quanto emblematici della fragilità del rapporto di fiducia tra il detenuto e il medico di reparto.

i passaggi da compiere per una effettività della tutela del diritto alla salute sono ancora molti

Per quanto oggi, grazie all’importante riforma del 2008, sia stata sancita la parità di tutela tra persona detenuta e persona libera, di fatto i passaggi da compiere per una effettività della tutela del diritto alla salute sono ancora molti.

È necessario mettere il medico di reparto nelle condizioni di poter svolgere in modo sereno ed esclusivo il suo ruolo liberandolo da ulteriori compiti che non soltanto distraggono molto del tempo a sua disposizione, ma soprattutto minano la base per un rapporto che possa dirsi realmente di fiducia.

  1. A marzo 2017, fanno parte del gruppo di volontari del Difensore civico dei diritti delle persone private della libertá di Antigone: Benedetta Aquilanti, Sara Di Bello, Mariafelicita Dolci, Maria Caterina Ferrante, Tiziana Ilice, Alessandro Monacelli, Maria Carmela Muscogiuri, Stella Noviello, Valentina Vitale, Alice Poeta, Susanna Zecca. Fanno parte del gruppo di volontari dello “Sportello per í diritti” operativo a Rebibbia N.C.: Benedetta Aquilanti, Rosalia Cancellara, Antonio Cappelli, Silvia Caravita, Sara Di Bello, Mariafelicita Dolci, Maria Caterina Ferrante, Lucia Giordano, Alessandro Monacelli, Ettore Pieracciani, Alice Poeta, Lorenzo Tardella, Valentina Vitale e Susanna Zecca.
  2. Alfredo Liotta muore il 26 luglio 2012 nella Casa circondariale di Siracusa dopo un lungo periodo durante il quale aveva presentato chiari segni e sintomi legati ad un repentino dimagrimento che lo porterà a morte per cachessia.
  3. Da uno studio attento del diario clinico di Alfredo, emergono in modo evidente le molteplici omissioni del personale medico. Ventitré giorni prima della morte, il 2 luglio 2012, il medico di reparto lo visita ripetutamente nel corso della giornata valutando così le condizioni di Alfredo:”Visita medica urgente per riferita astenia. Al mio arrivo è nel letto, non risponde alle mie domande (…) trattiene volutamente il respiro simulando patologie respiratorie (…) viene portato in barella in infermeria perché riferisce malessere generale e di non riuscire a mantenere la posizione eretta” e ancora “Si visita a letto perché a suo dire non riesce ad alzarsi [...]” Il giorno dopo, il 3 luglio, il medico continua ad attribuire ai comportamenti di Liotta una natura simulatoria: “[...] continua con atteggiamento tendente alla strumentalizzazione”. Cinque giorni dopo, in data 8 luglio, il medico così riferisce: “Si visita il detenuto in cella su richiesta dell’infermiera poiché apparentemente non in grado di recarsi in infermeria.”