Dove vivono i “cattivi”

Dove vivono i “cattivi”

Le prigioni dei radicalizzati

Dove vivono i “cattivi”

I racconti delle nostre visite alle sezioni di Alta Sicurezza 2 di Sassari e Rossano Calabro

Andrea Oleandri e Daniele Pulino

Le problematiche concrete che solleva la questione della radicalizzazione dei detenuti di fede musulmana possono essere sviscerate posando lo sguardo sulle realtà di quegli istituti di pena dove sono attualmente recluse persone condannate o in attesa di giudizio per reati riconducibili al terrorismo internazionale. Non si tratta di guardare solamente al funzionamento delle sezioni di Alta Sicurezza 2 (AS2) – così infatti la legge penitenziaria e le circolari ministeriali classificano i condannati per terrorismo internazionale- , ma di osservare la risposta dell’istituzione penitenziaria nel suo complesso a questa presenza, che deve convivere con la possibilità dell’esercizio di tutto quell’insieme di diritti dei detenuti che non svaniscono con la detenzione, compreso il diritto di culto.

il sistema di risposta sociale si fonda sulla creazione di spazi di reclusione separati

Da questa prospettiva, i casi degli istituti di Rossano Calabro e Sassari sono emblematici delle difficoltà attuali in cui versa un sistema di risposta sociale che si fonda sulla creazione di spazi di reclusione separati in cui vengono concentrate le persone che hanno commesso (o sono accusate di aver commesso) determinate tipologie di reato.

La visita a Rossano Calabro

La Casa di Reclusione di Rossano è stata aperta nei primi anni Duemila, fin da subito ha avuto la compresenza di circuiti di media e alta sicurezza. Secondo i dati diffusi dal Ministero della Giustizia, al 31 dicembre del 2016 i detenuti presenti nell’istituto erano 224 su una capienza regolamentare di 215 posti. A differenza di diverse carceri del Sud Italia, il numero di stranieri non è particolarmente elevato: 63 uomini, ovvero poco più di un quarto sul totale dei detenuti, con una quota consistente di cittadini marocchini.

60% Detenuti nei circuiti di Alta Sicurezza (AS2 e AS3)

L’ultima visita di Antigone nell’agosto dell’anno scorso indicava una presenza di circa il 60% dei detenuti nei circuiti di Alta Sicurezza (AS2 e AS3). Nel corso dell’ultimo quinquennio, il circuito di Alta sicurezza di Rossano ha visto, con momenti alterni, una concentrazione di persone condannate o imputate per fatti connessi al terrorismo di matrice islamica, che vengono detenuti in spazi separati dagli altri carcerati, dove ognuno occupa una cella singola, anche se sono previsti momenti di socialità comuni. Da notare come questa presenza abbia comportato la scelta di affidare all’esercito il presidio del perimetro dell’istituto.

mancano operatori
e mediatori che conoscano l’arabo

Tuttavia, a questa sicurezza formale del perimetro non corrisponde né la presenza di operatori che parlino o leggano la lingua araba né la presenza di ministri di culto musulmani. Negli ultimi tempi il numero di persone nell’AS2 si è ridotto per via di trasferimenti verso altri carceri. Secondo i dati disponibili, nella sezione ci sarebbero attualmente 9 detenuti, dei quali solo 1 con pena definitiva, mentre gli altri ancora in attesa di un primo giudizio (5) o dell’appello (3).

La visita a Sassari

Se dalla Calabria ci spostiamo alla Sardegna troviamo una situazione per certi versi speculare. La Casa Circondariale di Sassari si trova a Bancali, piccola frazione a qualche chilometro dalla città. La struttura è stata aperta nel luglio del 2013, in sostituzione della vecchia e cadente struttura di San Sebastiano, collocata nel cuore della città. Più che una sostituzione si tratta vera e propria modifica strutturale e funzionale.

90 Posti destinati ai detenuti in regime di 41bis

La nuova struttura, molto più grande — 455 posti a fronte dei 190 del vecchio carcere — e con una sezione di 90 posti destinata ad accogliere i detenuti in regime di 41bis, che rapidamente è andata in saturazione. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, al 31 dicembre 2016 erano presenti nell’Istituto 430 detenuti, di cui 134 erano stranieri, ovvero il 31% del totale. A questo dato, tutt’altro che marginale, legato alle ben note difficoltà di accesso alle misure alternative alla detenzione che colpiscono la popolazione straniera, non corrisponde la presenza di operatori con competenze linguistiche o di mediazione culturale sia tra i dipendenti dell’amministrazione sia tra i soggetti della società civile che intervengono nell’istituto. Mancanza che, come ci raccontano alcune voci all’interno dell’istituto, in alcuni casi viene supplita dall’intermediazione di altri detenuti che fungono da traduttori per chi non è in grado di parlare in Italiano. Inoltre, sulla base delle attività dei dati raccolti come Osservatorio di Antigone, possiamo sostenere che i detenuti stranieri provengono prevalentemente da Albania, Marocco, Romania e Tunisia. Poco meno di un detenuto ogni tre non ha la cittadinanza italiana e professa una religione diversa da quella cattolica. Quelli di fede musulmana, pertanto, sono una quota importante. La presa d’atto di questa situazione ha portato la direzione a concedere un luogo dove svolgere la preghiera del venerdì.

le attività di preghiera vengono guidate da un detenuto più esperto

Questo spazio è stato individuato, anche in ragione della scarsità di aree destinate alle attività comuni, in un disimpegno situato di fronte alla cappella del carcere. Qui le attività di preghiera vengono guidate da un detenuto più esperto. Nonostante la mancanza di una formazione specifica degli operatori di polizia penitenziaria, nell’Istituto vengono applicate misure di osservazione dei cosiddetti “indicatori sulla radicalizzazione” predisposte dal DAP1, ovvero si presta particolare attenzione a cambiamenti fisici (modi di vestire, crescita della barba …) o comportamentali (intensificazione della preghiera, manifestazioni di ostilità o esultanza dopo attentati...)

Nel 2015 questa situazione di sfondo fa da cornice all’arrivo di un gruppo di uomini pakistani che risiedevano nella vicina città di Olbia, accusati di essere affiliati ad Al Qaeda, e di aver collaborato all’organizzazione di un attentato in Pakistan. Dopo una breve permanenza a Rossano, le persone coinvolte in questa inchiesta vengono trasferite a Bancali, sede del tribunale competente. Anche le udienze del processo si svolgono all’interno del carcere. Inoltre, a partire da quel momento vengono trasferiti anche altri detenuti “radicalizzati” e viene istituita una sezione “AS2”. Alla fine del 2016, questa sezione di AS2 ospitava 18 detenuti.

Pochi Imam e difficoltà di comunicazione

Gli istituiti di Rossano Calabro e Sassari appaiono accomunati da un elemento. In entrambi i casi appare tutta da percorrere la ricerca di guide religiose islamiche che intervengano nell’istituto in convenzione con l’amministrazione. Questa strada potrebbe consentire l’avvio di processi di de-radicalizzazione. Alcune carceri italiane vanno in questa direzione, sia volontariamente, per decisione della direzione, che ufficialmente attraverso un protocollo d’intesa tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e l’UCOII, l’Unione delle Comunità Islamiche in Italia. I due casi interrogano la capacità reale di produrre sicurezza che viene attribuita a questi spazi di isolamento interni agli istituti, peraltro già criticata da alcuni studi2, e suggerisce l’opportunità di ricercare soluzioni che portino un miglioramento complessivo della qualità della vita detentiva, che eviti la “vittimizzazione” delle persone recluse.

  1. DAP La radicalizzazione del terrorismo islamico Elementi per uno studio del fenomeno di proselitismo in carcere, “Quaderni ISSP” n. 9, giugno 2012
  2. Tra i vari studi di critica a questo tipo di approccio è possibile vedere Jones, Clarke R., Are Prison Really Schools For Terrorism? Challenging The Rethoric On Prison Radicalization in «Punishment & Society-International Journal of Penology», vol. 16, 2014, pp. 74-103