Figli di un dio minore. La libertà di religione in carcere

Figli di un dio minore. La libertà di religione in carcere

Libertà di culto

Figli di un dio minore.
La libertà di religione
in carcere

Le differenze tra cattolicesimo e altre religioni. L’islam con pochi imam e spazi di culto

Claudio Paterniti Martello

Tra le varie facce del carcere che questo rapporto mette in luce ce n’è una religiosa. I dati riportati qui di seguito ci permettono di tracciarne i contorni e di porci la domanda seguente: in che misura ai detenuti è garantita la libertà di religione?

Ormai da decenni, all’interno delle prigioni italiane risuonano preghiere recitate in lingue diverse e indirizzate a divinità distinte.

Un recente censimento fatto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria illustra a che dio si votano i carcerati. In genere, al momento dell’ingresso in istituto, durante le procedure di registrazione dell’ufficio matricola, ai nuovi detenuti viene posta la domanda sul credo di appartenenza. Ciò avviene, oltre che per finalità statistiche, per valutare eventuali incompatibilità con altre persone detenute o per altre esigenze (ad esempio alimentari) derivanti dalla propria religione. Come tutte le informazioni raccolte in fase di immatricolazione, anche queste possono risentire di una scarsa accuratezza. Dunque occorre analizzare questi numeri con la dovuta cautela.

Per ragioni storiche e culturali facilmente intuibili, i detenuti cattolici sono i più numerosi: con 29.568 unità rappresentano il 54,7% del totale; seguono i detenuti musulmani, con 6.138 unità (l’11,4% della popolazione detenuta) principalmente concentrate negli istituti del Centro-Nord. Infine gli ortodossi, con 2.263 unità (il 4,2% del totale). Ci sono poi adepti di altre confessioni quali evangelisti, avventisti del settimo giorno, hindu e via dicendo: ma rappresentano percentuali al di sotto dell’uno per cento.

DatiReligione di appartenenza delle persone detenute

Valori in % al 31.12.2016

54,7

Cattolici

Musulmani

11,4

Ortodossi

4,2

0,6

Altri culti

(Cristiano-evangelici 0,35; Buddusti 0,14; Ebraici 0,08; Testimoni di Geova 0,06%)

Il 29,1 dei detenuti non è credente o non dichiara la propria fede

54,7

Cattolici

Musulmani

11,4

Ortodossi

4,2

0,6

Altri culti

(Cristiano-evangelici 0,35; Buddusti 0,14; Ebraici 0,08; Testimoni di Geova 0,06%)

Il 29,1 dei detenuti non è credente o non dichiara la propria fede

54,7

Cattolici

11,4

Musulmani

Ortodossi

4,2

0,6

Altri culti

(Cristiano-evangelici 0,35;

Buddusti 0,14; Ebraici 0,08;

Testimoni di Geova 0,06%)

Il 29,1 dei detenuti non è credente

o non dichiara la propria fede

Fonte: DAP
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Un’altra cifra va però considerata: 14.235 persone private della libertà (il 26,3% del totale) hanno preferito non dichiarare all’amministrazione penitenziaria la propria fede, perché non credenti – e quindi con nulla da dichiarare, essendo nel censimento assente la voce «ateo» - o per altri motivi su cui è utile soffermarsi.

14.235 Detenuti che hanno preferito non dichiarare la loro fede

Se si escludono i non credenti e ci si sofferma unicamente sui non dichiaranti, si può ipotizzare che alcuni abbiano preferito tacere sul proprio credo per ragioni personali – ad esempio perché consideravano la domanda un’invasione indebita; altri però – è quanto si può evincere dai dati, dalla nostra esperienza carceraria e anche da un sentire diffuso - potrebbero essere detenuti musulmani che cercano di sfuggire allo stigma che da alcuni anni questa religione porta con sé. Il che rappresenterebbe un problema molto grosso per l’esercizio di un principio sacrosanto come la libertà di professare la propria religione.

Ecco i dati a supporto di quest’ipotesi. I detenuti stranieri presenti nelle carceri italiane sono 18.0911. Di questi, secondo l’amministrazione, 11.029 provengono da paesi tradizionalmente musulmani.

6.138 Detenuti che hanno dichiarato la propria fede nell’islam
al momento del censimento

Solo 6.138 però hanno dichiarato la propria fede nell’islam al momento del censimento. Quindi, o 4.891 detenuti provenienti da paesi a maggioranza musulmana sono atei o rappresentanti di religioni minoritarie – il che pare poco probabile, dato che la secolarizzazione è fenomeno più europeo che d’altri paesi – oppure c’è un problema di libero esercizio della fede. Una comparazione fra altri due dati va nello stesso senso: i detenuti totali che hanno preferito non dichiarare la propria fede sono 14.235. Di questi, 6.160 sono stranieri.

DatiDetenuti che non hanno dichiarato la propria fede di appartenenza

Valori in % al 31.12.2016

60,9

Detenuti provenienti da Paesi

tradizionalmente musulmani

60,9

Detenuti provenienti da Paesi

tradizionalmente musulmani

60,9

Detenuti provenienti

da Paesi tradizionalmente

musulmani

Fonte: DAP
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Bisogna tuttavia tener conto che i dati riguardanti le religioni sono ondivaghi e variabili. A titolo di esempio, la relazione del ministero sullo stato della giustizia nel sistema penitenziario italiano (presentata in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario) recensisce 7.646 detenuti musulmani, mentre altri dati – sempre di provenienza del DAP – ne riportano 6.138.

Ci pare però possibile, se non proprio trarre conclusioni affrettate, lanciare un allarme. L’opinione informalmente diffusa secondo cui i musulmani in carcere si scontrano con gli ostacoli seminati dallo stigma e dai pregiudizi associati a questa fede pare in effetti confortata dai dati.

Non manifestare la propria fede per non essere sospettato di radicalismo islamico

Alcuni detenuti insomma preferirebbero non manifestare pubblicamente la propria fede, per paura di pregiudizi e per non ricadere in quell’area in cui imperversa il sospetto di radicalismo islamico, su cui ci soffermeremo più avanti.

Gli spazi per la preghiera

Con o senza pregiudizi, resta il fatto che in carcere si prega (musulmani e non). A seconda del dio cui si affida la propria anima cambiano però gli spazi che accolgono preghiere e litanie: si va dalle cappelle cattoliche – la cui presenza è “obbligatoria” e prevista dal regolamento penitenziario - ai corridoi, cortili e stanze varie adibite alla bell’e meglio a sale da preghiera per musulmani, quando questi sono abbastanza numerosi; fino ad arrivare ai personalissimi fori interiori, unici spazi in cui si diffondono le invocazioni di ortodossi, evangelici o detenuti votati ad altra confessione.

Le cappelle presenti negli istituti di pena sono più di 200, almeno una per istituto (anche più d’una, quando le carceri sono grandi). Secondo la già citata relazione ministeriale sono invece 69 gli spazi adibiti a sale da preghiera per detenuti musulmani (soprattutto il venerdì). Sono luoghi che in genere servono ad altro: salette per la socialità, passeggi per le ore d’aria, teatri, biblioteche e via dicendo. Per quanto riguarda i luoghi per le adunate dei detenuti ortodossi, nessun dato è disponibile, giacché non ce ne sono (seppur è verosimile che le singole direzioni mettano a disposizione, laddove richiesto, sale appositamente adattate). Capita spesso poi che le cappelle cattoliche vengano utilizzate per liturgie d’altri culti, specie in occasione di feste e ricorrenze particolari.

L’assistenza spirituale

Un altro aspetto meritevole d’attenzione riguarda la presenza o meno dei ministri di culto. La religione cattolica non sembra da questo punto di vista sofferente.

411 I cappellani nelle carceri italiane

La celebrazione della messa domenicale e la cura quotidiana delle anime votate al cattolicesimo sono saldamente assicurate da 411 cappellani, oltre che da numerosi volontari di associazione cattoliche che quotidianamente si recano in carcere. La storia delle istituzioni penitenziarie racconta come cappellani e volontari da sempre influenzino ritmi, pratiche e e filosofia del carcere. È una storia vecchia, quella della compenetrazione della filosofia cristiana nel diritto penale e penitenziario, che riaffiora nell’utilizzo di espressioni quali «espiazione della pena» o di nomignoli come «pentiti». Ed è annoso il dibattito tra chi pensa che quest’influenza sia stata positiva e chi no. A noi, che non lo risolveremo in questa sede, preme unicamente sottolineare come la professione della fede cattolica sia ampiamente garantita, e come ciò sia un bene. Va poi evidenziato che la presenza dei sacerdoti in carcere è esplicitamente prevista dall’ordinamento penitenziario, secondo cui dev’esserci almeno un cappellano per ogni istituto, stipendiato dall’amministrazione penitenziaria (in questo le carceri sono simili agli ospedali civili, dove viene garantita l’assistenza religiosa a spese dallo Stato).

Per ciò che riguarda le altre fedi la situazione è invece più problematica. Da un lato ci sono i principi. Il regolamento penitenziario prevede, all’art. 58, che tutti i detenuti abbiano il diritto di partecipare ai riti della propria confessione, indipendentemente da quale essa sia e come previsto dalla Costituzione e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (si veda, a proposito la sentenza CEDU POLTORATSKIY V. UKRAINE e KUZNETSOV V. UKRAINE, 2003). Dall’altro ci sono le pratiche. E lì risulta evidente come gli altri ministri di culto, siano essi imam, sacerdoti ortodossi o portatori d’altri verbi, non beneficino di uno statuto comparabile a quello del cappellano. Questi entrano in carcere, quando ci entrano, o in virtù di convenzioni stabilite ad hoc da ogni istituto o grazie a protocolli varati dall’amministrazione centrale, come quello siglato di recente con l’Unione delle comunità islamiche italiane (UCOII), che prevede l’ingresso in carcere di più imam – anche in virtù del loro potenziale di contrasto al fenomeno della radicalizzazione. Quando non godono di convenzioni, invece, i ministri di culto entrano in qualità di volontari, con uno statuto soggetto a limitazioni che il sacerdote cattolico non ha. I numeri che seguono mostrano che sono più di ventimila quei detenuti che potremmo definire figli di un dio, se non proprio minore, almeno minoritario.

DatiI ministri di culto nelle carceri italiane

Dati al 31.12.2016

494

Testimoni di Geova

411

Chiesa cattolica

185

Assemblee di Dio in Italia

104

Chiesa cristiana avventista del 7°giorno

31 sono i detenuti

in Italia che hanno

dichiarato di essere

Testimoni di Geova

81

Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni

77

Tavola valdese

73

Unione cristiana evangelica battista d’Italia

47

Islamici

34

Sacra arcidocesi ortodossa d’Italia

31

Unione comunità ebraiche italiane

21

Chiesa evangelica luterana

10

Unione buddhista italiana

494

Testimoni di Geova

411

Chiesa cattolica

185

Assemblee di Dio in Italia

104

Chiesa cristiana avventista del 7°giorno

31 sono i detenuti

in Italia che hanno

dichiarato di essere

Testimoni di Geova

81

Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni

77

Tavola valdese

73

Unione cristiana evangelica battista d’Italia

47

Islamici

34

Sacra arcidocesi ortodossa d’Italia

31

Unione comunità ebraiche italiane

21

Chiesa evangelica luterana

10

Unione buddhista italiana

494

Testimoni di Geova

31 sono i detenuti in Italia che hanno

dichiarato di essere Testimoni di Geova

411

Chiesa cattolica

Assemblee di Dio

in Italia

185

Chiesa cristiana avventista

del 7°giorno

104

Chiesa di Gesù Cristo

dei Santi degli ultimi giorni

81

77

Tavola valdese

Unione cristiana evangelica

battista d’Italia

73

47

Islamici

34

Sacra arcidocesi

ortodossa d’Italia

31

Unione comunità

ebraiche italiane

21

Chiesa evangelica luterana

10

Unione buddhista italiana

Fonte: DAP
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Molti i sacerdoti cattolici (411), pochissimi gli imam (14). Il dato si riferisce solo agli imam accreditati presso il ministero dell’interno. Bisogna però tenere conto due aspetti: vari imam entrano in quanto volontari, prima di tutto. In secondo luogo, nell’islam non esiste una gerarchia paragonabile a quella cattolica, e che chiunque guidi la preghiera, sulla base delle proprie capacità di guida e di una vera o millantata conoscenza dei testi sacri, può fare da imam (purché legittimato dagli altri). È probabilmente alla luce di quest’aspetto che altri dati ufficiali parlano di 148 imam. Pochi gli imam accreditati, tanti i preti e tantissimi i testimoni di Geova, assai più numerosi dei detenuti che si affidano alla loro religione. Questa presenza ha a che fare col carcere come luogo di proselitismo, su cui ci soffermeremo alla fine.

Il dialogo interconfessionale

In carcere religioni e religiosi discutono più di quanto non si faccia fuori. Il dialogo interconfessionale è assai diffuso, per ragioni sia materiali che di solidarietà umana. Uno sguardo alla figura del cappellano e alle funzioni è da questo punto di vista molto istruttivo. Il cappellano fornisce assistenza spirituale ai suoi fedeli, ma anche aiuto materiale agli altri, soprattutto ai detenuti indigenti che spesso sono stranieri, di altre religioni e senza molti rapporti col territorio. Il sacerdote porta in carcere vestiario, tabacco, spazzolini e caffè, tutti beni graditi in un luogo come la prigione. Fra i traghettatori di piccoli beni vanno però annoverati anche i numerosi volontari, cattolici e non, che in carcere vanno con cadenza più o meno quotidiana e che in molti casi gestiscono i banconi di assistenza.

Il dialogo interconfessionale è dovuto anche a elementi per così dire immateriali, alle parole di cui ogni dialogo è fatto, soprattutto quando queste parole vengono dall’esterno. I detenuti in effetti desiderano parlare con i ministri di culto, sono disposti ad ascoltare il loro messaggio: non solo per vagliarne le capacità salvifiche o alleviatrici delle pene incorse, ma anche perché rappresentano un legame con l’esterno, un modo per avere notizie da fuori e di darne di proprie. Così si spiegano le conversioni temporanee (Rachel Sarg e Anne-Sophie Lamine, 2011), la presenza dei detenuti non cattolici alle funzioni nelle cappelle del carcere, i numerosi colloqui fra i detenuti di una confessione e i ministri di culto di un’altra, o ancora la fitta presenza dei testimoni di Geova.

i cappellani e gli altri ministri di culto hanno anche una funzione terapeutica

Infine, è stata sottolineata la funzione terapeutica che i cappellani e gli altri ministri di culto possono assumere, giacché a questi ci si confida senza quella diffidenza che implica invece il rapporto con lo psicologo, il quale redige delle relazioni che influenzano l’evoluzione del percorso detentivo del recluso, richiedendo quindi un posizionamento più strategico.

La religione come risorsa

Se il diritto alla libertà religiosa è un diritto fondamentale nella società tutta, in carcere lo è ancor di più. In contesti diversi da quello italiano ma con considerazioni del tutto applicabili alla realtà dei nostri istituti, è stato scritto che la religione rappresenta nell’ambito carcerario una risorsa individuale e collettiva di particolare rilievo, utile per la ricostruzione di un’interiorità colpita da numerosi elementi destrutturanti (de Galembert et al, 2016): il vuoto in cui trascorrono delle giornate forzatamente oziose; la perdita di autonomia, laddove i ritmi giornalieri sono stabiliti da altri e l’infantilizzazione è onnipresente – e si pensi alla necessità di presentare una «domandina» per ogni minima richiesta (cui però non segue mai, come ebbe a dire Adriano Sofri, relativa «rispostina»); le condizioni indegne in cui sovente versano gli istituti e per cui l’Italia è stata a più riprese condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo; la promiscuità dovuta al sovraffollamento; la violenza insita nell’universo carcerario, e la lista potrebbe continuare ancora. Di fronte a questi elementi, si diceva, il ricorso alla religione può consentire una ricostruzione interiore e la conquista di piccoli spazi di autonomia all’interno di un’istituzione totale.

In che modo? In tanti modi. Prima di tutto la preghiera individuale, i riti collettivi e gli incontri con i ministri di culto consentono di scandire un tempo di cui si è espropriati e di riempirlo, ammobiliando il vuoto carcerario con gli ornamenti forniti da preghiere e riti religiosi, come d’altronde fanno lo sport, la formazione professionale, quella scolastica e a le altre attività presenti in carcere.

La religione ha poi un ruolo pacificatore, in un contesto in cui il conflitto è sempre latente. Per questa ragione il suo esercizio è spesso ben visto e incoraggiato dall’amministrazione stessa.

Il quadro normativo fornito dalla religione consente poi non solo di ristrutturarsi, ma anche di sottoporsi al giudizio di un’altra e più clemente legge, diversa da quella degli uomini, la cui sentenza di condanna è a monte di una forzata permanenza in carcere. Una legge gerarchicamente superiore a quella umana e che a essa può essere opposta.

Sempre sul terreno dell’autovalutazione, una visione religiosa del mondo e della propria traiettoria può conferire un senso a una pena che un senso non ce l’ha, parafrasando Vasco Rossi: talvolta inquadrandola come una prova da oltrepassare, talvolta come un’ingiustizia da cui si è colpiti e che conferma il proprio statuto di vittima.

Questi e altri elementi psicosociali, uniti al legame con l’esterno che i ministri di culto creano e alla loro funzione di supporto materiale consentono di rendere conto dell’intensificazione della vita religiosa spesso osservata dentro le mura carcerarie.

Proselitismo e radicalità

La condizione di fragilità in cui si trova chi è ristretto all’interno di quattro mura rende più intelligibili i tentativi di proselitismo in carcere, che come abbiamo anticipato non riguardano unicamente l’islam. Il dato del grafico che maggiormente risalta agli occhi riguarda il numero di testimoni di Geova che entrano in carcere a cercare nuovi adepti (391). A giudicare dai risultati del censimento (32 credenti) non sembrerebbero avere grande seguito. Tuttavia, il dato non tiene conto delle conversioni, che sappiamo essere numerose e che sarebbero da analizzare tenendo conto del sostegno materiale che l’appartenenza al gruppo dei testimoni di Geova implica.

Il corpo è recluso, spesso reso malato da ambienti umidi e fatiscenti; non sempre riesce a curarsi com’è necessario, vuoi per mancanza di medici, vuoi per mancanza d’agenti che lo scortino fino all’ospedale. I corpi restano, lentamente si degradano, e nel frattempo desiderano andar via da quell’abissale vuoto di noia e depressione. Non potendo andar via loro, ci provano almeno le anime, meno costrette dagli angusti limiti materiali, più cavalcantianamente portate a disertare il corpo, a scorrazzare e svolazzare, per poi magari far ritorno all’ovile e rivitalizzarlo con nuove speranze. Le anime sono dunque disposte all’ascolto, a vedere cos’hanno da offrire parole e facce dei ministri di culto, che da par loro di questa disposizione sono ben consci, e infatti vanno dentro in cerca di proseliti.

Oltre alle già elencate ragioni strategiche per cui i detenuti parlano con i ministri di culto, c’è anche la reale disposizione all’ascolto e ad accogliere dentro di sé chi dall’esterno presta conforto, chi propone una legge di dio in cui le possibilità di riscatto siano reali e immediate.

Tra questi c’è anche chi è legato a un’ideologia mortifera, seminatrice di terrore, ossia attentatori o aspiranti tali in cerca di correligionari da attirare nel proprio esplosivo cortile ideologico.

nelle carceri italiane
il radicalismo islamico è una questione secondaria che in altri paesi

La questione del radicalismo islamico in Italia è secondaria rispetto ad altri paesi, ma alcune carceri ne sono comunque toccate. È il caso ad esempio dell’istituto penitenziario di Sassari, dove l’amministrazione penitenziaria ha deciso di concentrare radicali e presunti tali, senza però formare in maniera adeguata il personale. Il problema dell’individuazione di profili di persone effettivamente radicalizzate - così come del rischio di estensione su larga scala dello status di potenziale radicale - si pone: e la mancanza di formazione è uno dei punti su cui correre ai ripari.

Riprendendo terminologia e numeri dell’amministrazione penitenziaria, nelle carceri italiane su 6.138 persone che si dichiarano musulmane, ci sono circa 365 detenuti su cui si concentra l’attenzione dell’istituzione, suddivisi in tre problematiche categorie corrispondenti a una radicalizzazione giudicata in fieri o già avvenuta: i «segnalati» (124), gli «attenzionati» (76) e i «monitorati» (165).

DatiDetenuti “a rischio di radicalizzazione” secondo l’amministrazione penitenziaria

Dati al 31.12.2016

124

76

165

Segnalati

Attenzionati

Monitorati

44 detenuti sono stati “accusati o condannati per terrorismo internazionale”

124

76

165

Segnalati

Attenzionati

Monitorati

44 detenuti sono stati “accusati o condannati per terrorismo internazionale”

124

Segnalati

76

Attenzionati

165

Monitorati

44 detenuti sono stati

“accusati o condannati

per terrorismo internazionale”

Fonte: DAP
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Il protocollo d’intesa siglato tra l’amministrazione penitenziaria e l’unione delle comunità islamiche italiane (UCOII) sembra rispondere a un bisogno di competenze specifiche che facciano da argine ai pregiudizi e al contempo costituiscano una lotta contro la radicalità. Permettendo l’ingresso di imam formati si cerca di neutralizzare il leaderismo di quei detenuti radicali che si presentano come veri interpreti della parola coranica. Agli occhi degli altri detenuti ci si oppone loro con l’autorità che viene da una conoscenza profonda dei testi sacri.

Si tratta peraltro di ciò che è avvenuto nel contesto francese, dove tramite la figura dell’aumonier, sorta di cappellano che oltre che cattolico può essere di altre confessioni - e anche laico - sono stati introdotti in carcere molti imam: degli aumoniers musulmani, appunto. È però necessario che a queste figure sia lasciata una grande autonomia, poiché il rischio sarebbe altrimenti quello di una loro identificazione con l’amministrazione penitenziaria, mandati in avanscoperta quali esploratori di segni di radicalizzazione da rapportare ai piani alti. Se è vero che in carcere - luogo in cui non si può chiedere a chi da internato subisce violenze simboliche e costrizione fisica di identificarsi con l’istituzione - se è vero, dunque, che la religione fornisce un quadro normativo alternativo, così fungendo da elemento pacificatore, allora il suo carattere di diritto inviolabile da preservare e promuovere è ancor più netto. Per preservarlo e promuoverlo, dunque, è desiderabile non soltanto che i detenuti accedano a luoghi e figure che consentono l’esercizio di tale diritto, ma che tali luoghi siano idonei e degni, e che tali figure siano autonome, che non assolvano a funzioni diverse dall’assistenza spirituale (e a volte materiale). Di modo che ci siano figli di un dio magari minoritario, ma almeno non minore.

  1. Dati presentati all’interno della relazione del Ministero sull’amministrazione della Giustizia del 2016, presentata in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017 e consultabile qui

Bibliografia

de GALEMBERT C. et al. (2016), “Islam et prison: liaisons dangereuses ?” in Pouvoirs 2016/3 (N° 158), pp. 67-81

KHOSROKHAVAR F. (2016), Prisons de France. Violence, radicalisation, déshumanisation: Quand surveillants et détenus parlent, Editions Robert Laffont, Paris

SARG R. e LAMINE A. (2016), in Archives de sciences sociales des religions, 153, janvier-mars 2011 (consultabile online)

SARG R. e LAMINE A. (2011), «La religion en prison», in Archives de sciences sociales des religions, pp. 85-104 (consultabile online)

ZACCARIELLO A. (2016), Il fenomeno della radicalizzazione violenta e del proselitismo in carcere, in Diritto Penitenziario, III, 2016, pp. 46-47