Il sacrificio della maternità

Il sacrificio della maternità

Visita all’ICAM di Milano

Il sacrificio della maternità

Visita in un carcere particolare che fa di tutto per non sembrare come gli altri

Carolina Canziani

Nel cuore di Milano tra belle case e giardini rigogliosi c’è un vecchio palazzo: è l’Istituto di Custodia Attenuata per Detenute Madri (ICAM), nato a seguito della legge n. 62/2011 al fine di valorizzare il rapporto tra detenute madri e figli minori.

limitare la presenza
di bambini all’interno delle carceri ma garantire la sicurezza della collettività

Lo scopo è di conciliare l’esigenza di limitare la presenza di bambini all’interno delle carceri con quella di garantire la sicurezza della collettività anche nei confronti di madri destinatarie di una sentenza di condanna o di un provvedimento di custodia cautelare. Si tratta di un istituto che può ospitare fino a un massimo di 11 donne e 11 minori. Al momento della visita sono presenti 7 donne, di cui 6 con 1 figlio ciascuna e una donna incinta. Inizialmente le donne internate nell’ICAM erano responsabili di reati di minor gravità contro il patrimonio, ora vi sono anche donne che scontano pene lunghe per reati più gravi contro la persona. Le ospiti dell’ICAM provengono da situazioni complesse e di grande disagio economico. Alcune hanno un vissuto di violenza e vi sono stati casi in cui hanno compiuto piccoli reati pur di essere condotte in ICAM per sottrarre sé e il proprio figlio a maltrattamenti subiti all’interno del nucleo familiare. Si tratta di donne che presentano un livello culturale estremamente basso per cui la struttura garantisce corsi di alfabetizzazione primaria e calcolo. È incentivata l’attività di illustrazione per sviluppare le capacità di narrazione personale: le detenute partecipano con entusiasmo e con grande impegno. Alle pareti sono appesi dei bellissimi disegni, che sono stati usati per illustrare un libro per bambini. L’istruzione è garantita solo fino alle medie. Gli operatori ci spiegano che per quella superiore e universitaria le detenute sono costrette a sospendere gli studi sino al ritorno in carcere, che avverrà al compimento del sesto anno di età del figlio: si tratta di un sacrificio che l’istituzione impone alla detenuta per svolgere il proprio ruolo di madre a beneficio del minore per il periodo di permanenza. L’Istituto, infatti, non dispone delle risorse necessarie per poter offrire un’istruzione più avanzata a quelle madri che siano in grado di accedervi. Per questo il loro percorso di formazione potrà riprendere solo una volta reinserite nel contesto carcerario, dove, invece, vi sono i fondi necessari per poter fornire questo servizio. “È una questione di numeri”. Per quanto riguarda le attività lavorative all’interno dell’istituto, sono quelle tipicamente associate al ruolo sociale femminile, paternalisticamente inteso: accudimento dei figli, cucina, sartoria, lavanderia, pulizie in generale. Inoltre, molte sono recidive per cui non possono fruire dell’art. 21 Ord. pen. per il lavoro all’esterno. Gli altri ospiti dell’ICAM sono i bambini di età compresa tra gli 0 e i 6 anni. La loro quotidianità all’interno dell’istituto è scandita da attività ricreative ed educative. I bambini si recano all’esterno per andare a giocare ai giardinetti e per frequentare l’asilo, accompagnati dagli educatori (2 educatori fanno capo all’Ospedale San Paolo, 5 a un progetto del Comune di Milano). Possono incontrare i propri familiari durante la giornata, nonché passare i fine settimana con i parenti. Laddove la madre e la famiglia d’origine decidano di far trascorrere al minore più di 3 giorni al di fuori dell’ICAM, la madre, sospesa la propria funzione genitoriale, deve necessariamente ritornare in carcere per il periodo concertato.

Molte sono le peculiarità di questo luogo, prima fra tutte la difficoltà di cogliere nella struttura e nelle sue architetture i segni, solitamente iper-evidenti, dell’afflizione e della segregazione di chi in quegli spazi è costretto. Appena varcato il primo cancello si ha percezione di ciò. Nel giardino dall’aria spoglia c’è un’infilata di seggioline colorate che rende difficile capire se stiamo entrando in un asilo un po’ trascurato oppure no. Basta poco per accorgersi che tutt’intorno sopra il muro c’è un pannello in plexiglass. Ecco le sbarre nascoste agli occhi dei più piccoli. Nella prima stanza si viene controllati con il metal detector. Alle pareti ci sono i monitor della sorveglianza: controllano il perimetro e i corridoi interni della struttura. Gli agenti qui sono tutti uomini, sono in borghese. È una mattina di grande fermento. È, infatti, prevista la visita del Presidente della Repubblica e le detenute lavorano da giorni per rendere la struttura più accogliente. I bambini sono stati portati fuori dalle educatrici perché le madri possano occuparsi degli ultimi preparativi. L’edificio è fatiscente e la manutenzione ha costi esorbitanti: molte finestre non si aprono, le tapparelle sono rotte, il sistema delle tubature è disastroso e, infatti, in bagno vi sono grandi perdite d’acqua, coperte provvisoriamente con tende colorate per rendere meno triste per i bambini una situazione già di per sé disagevole. I bagni sono in comune (3 docce e 2 wc). Non ci sono lavatoi per i neonati che pertanto vengono lavati nelle stanze, prendendo l’acqua calda in bagno. La struttura è vecchia ma chi la abita è tutto fuorché vecchio. Le poche madri detenute incontrate per il corridoio sono molto giovani. Nonostante la vetustà dell’istituto, una volta entrati non si ha una sensazione sgradevole di abbandono, anzi: le pareti sono colorate, ma non con quei colori infelici e a tratti perversi che si vedono nelle carceri, sono colori caldi e accoglienti. Appese ai muri ci sono delle illustrazioni realizzate dalle detenute. Le stanze in cui dormono madri e bambini si affacciano su un lungo corridoio. A questo si accede per mezzo di una porta blindata che viene chiusa dalle 22:00 alle 8:00 del mattino. Le stanze, invece, sono sempre aperte, ordinatissime, pulite, i letti rifatti, i giochi riposti con cura sulle mensole, i lettini con le coperte ben rincalzate. A riprova del fatto che – come sostiene la responsabile dell’area trattamentale – “se si offrono cose belle, nelle detenute scatta un meccanismo per cui conservano al meglio quelle cose, in maniera ordinata e rispettosa”.

uscendo dagli altri istituti rimane addosso l’odore acre di un’umanità dimenticata

Le stanze sono luminose e c’è un profumo balsamico che rende questa visita molto diversa da quelle in altri istituti di detenzione, dove, anche molte ore dopo essere usciti, rimane addosso l’odore acre di un’umanità dimenticata. In ogni stanza dormono generalmente due madri con i rispettivi figli. Solo in una stanza hanno lasciato che madre e figlia potessero dormire sole. Si tratta di un periodo estremamente delicato, di grande sofferenza. Hanno intrapreso, infatti, il duro percorso dell’affidamento condiviso. Al raggiungimento del sesto anno di età il minore viene gradualmente inserito all’interno della famiglia di origine. Se la famiglia non c’è, qualora vi siano i requisiti di legge, per la madre detenuta è predisposta la misura alternativa della casa protetta dove il minore può restare con la madre fino al compimento del suo decimo anno di età. Se, invece, questi requisiti non sussistono, il minore deve essere allontanato dalla madre. Nell’ultimo periodo stanno sperimentando con esiti positivi il c.d. affidamento condiviso con cui si cerca di creare una relazione e un dialogo fruttuoso tra la famiglia affidataria e la madre. Il bambino viene così accompagnato dalla madre in questo difficile percorso di avvicinamento alla nuova famiglia.

Per quanto riguarda gli agenti di polizia penitenziaria, un tempo erano organizzati dei corsi di aggiornamento e di formazione fondamentali data la criticità del luogo in cui lavorano, attualmente però sono stati sospesi. Nell’ICAM vi sono 16 agenti (8 uomini che lavorano nella parte dell’ingresso e 8 donne che lavorano nel corridoio in cui vi sono le stanze delle detenute, l’infermeria, i bagni e la ludoteca). Nessuno di loro porta la divisa, il che rende molto difficile capire chi è che cosa, qual è il ruolo giocato all’interno della struttura. Il responsabile della polizia penitenziaria e della sicurezza racconta: “la sera diventiamo i loro fratelli, i loro padri, i loro avvocati, i loro psicologi, i loro preti”. Non indossare l’uniforme, scelta funzionale al benessere psicologico del bambino, confonde i ruoli, per cui queste donne che portano con sé il privilegio e il peso di una vita che da loro dipende si trovano poi a confrontarsi e confidarsi con le guardie, che qui hanno tutto l’aspetto di essere in primo luogo uomini e donne con il loro bagaglio di umanità.

È di certo considerato un fiore all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria italiana, ma quando si chiude l’ultimo cancello alle spalle si percepisce come dietro alle trasparenze, ai colori, ai giochi, alle finzioni degli abiti civili si celino realtà di profonda sofferenza, in cui la femminilità è ridotta a un unico ruolo, la maternità perde la propria connotazione intima e l’infanzia un pezzo di libertà.