Libia: i ministri discutono, i migranti raccontano i soprusi
Aperta la Conferenza tra Ue e Unione Africana sulla migrazione, ma in Marocco viene presentato un rapporto allarmante: 160 testimonianze di marocchini sopravvissuti alle carceri accusano la Libia di torture ed esecuzioni
CASABLANCA - E’ iniziata ieri in Libia la prima conferenza ministeriale tra Unione Europea e Unione Africana sulla migrazione. Ma mentre a Tripoli ministri discutono di fondi ad hoc euro-africani, road map per la lotta al traffico di esseri umani e gestione europea delle quote di ingresso, in Marocco viene presentato un rapporto allarmante sulle condizioni dei migranti nel Paese di Qaddafi. Centosessanta testimonianze di migranti marocchini sopravvissuti alle carceri libiche, che svelano quella che definiscono “la grande menzogna del Colonnello” e accusano la Libia di torture sistematiche ai danni dei detenuti e di diversi casi di esecuzioni a colpi di arma da fuoco, dietro le sbarre. Altre 60 famiglie dichiarano di aver perso i contatti da mesi con i figli detenuti in Libia, o addirittura di non avere alcuna notizia sulla loro sorte.
Non sono casi isolati, ma storie comuni di migliaia di prigionieri nelle carceri di Al-Fallah, a Tripoli, e al sud a Gharyan, Sebha, Kufrah. Migliaia di persone di ogni nazionalità, perfino molti asiatici, detenuti senza processo e sottomessi al totale arbitrio delle autorità libiche, nelle stesse carceri che l'Italia finanzia dal 2003 e che l'Europa propone come centri di accoglienza per il rimpatrio dei migranti clandestini. Il rapporto, firmato Afvic (Amici e famiglie delle vittime dell'immigrazione clandestina), segue di poco le denunce di Human Rights Watch, che a settembre accusava la Libia di abusi e violenze ai migranti al momento dell'arresto e durante la detenzione.
Madi, trent'anni, è stato arrestato all'aeroporto di Tripoli e tradotto al Fallah, nella capitale, non lontano dai coffe breack della conferenza euroafricana. Della polizia libica dice "non sanno cos'é un essere umano". Madi non ha visto sparare a nessun detenuto ribelle, ma i cadaveri trascinati via dalle camerate li ricorda ancora. Come ricorda le grida di 48 persone a cui sono state strappate via le unghie e il silenzio delle lacrime delle donne stuprate dalle divise. Al momento dell'arresto i migranti sono rapinati dei loro averi, soldi, telefono e documenti. "Qualcuno mi dica se questo non é un sequestro di persona", accusa il presidente di Afvic, Khalil Jammah, che punta il dito contro le autorità libiche, che ad oggi ″si rifiutano di dare all'associazione una lista dei prigionieri marocchini », e non risparmia le autorità marocchine, totalmente latitanti su un problema che riguarda migliaia di cittadini di un profondo Marocco, lontano da Casa e Rabat, quello delle regioni più povere tra Khouribga, Kasba Tadla e Fkih Ben Salah. Qui tre anni fa una famiglia celebrò il funerale del proprio figlio, dato per morto in un naufragio al largo delle coste libiche, dopo che per mesi dalla telefonata che annunciava la sua partenza non l'avevano più sentito. La settimana scorsa un parente detenuto al Fallah di Tripoli lo ha incontrato e ha avvertito la famiglia, che a stento riesce a credere che il figlio morto e pianto sia risuscitato, dietro le sbarre, dopo 35 interminabili mesi.
Sì, perchè una volta in carcere le autorità non avvertono le famiglie, nè il Consolato marocchino chiede i nomi dei cittadini detenuti, arrestati alle frontiere o durante i rastrellamenti a Tripoli, Igdabiyya e Benghasi. Chi è riuscito a nascondere dei soldi riesce a telefonare, gli altri, spogliati di tutto, sono completamente isolati. Una volta contattati i parenti, sono loro a comprare il biglietto di ritorno e a faxarlo al Consolato per chiedere la liberazione dei figli, dei fratelli, dei mariti. Ma non sempre funziona. Madi racconta della visita sprezzante di un funzionario del Consolato, tale Sakhi, che sventolando di fronte ai detenuti i fax dei biglietti aerei li informava che da lì non sarebbero comunque usciti. Intanto magari ci sarebbe stato il tempo per impiegare le loro braccia nei lavori forzati. Una pratica denunciata da molti testimoni. Anche Kamal c'è passato. Classe 1986, vent'anni da compiere, sopravvissuto a una settimana di deriva in mare aperto, ha visto morire di stenti più della metà dei 149 compagni di viaggio e ha gettato in mare i loro corpi. Una volta soccorso è stato arrestato. Quando diceva ai poliziotti che non sapeva fare un lavoro erano botte. Se era stanco lo stesso. Poco importava se il rancio prevedesse solo un pugno di riso una volta al giorno. (Gabriele Del Grande)