LE DIRETTIVE EUROPEE IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE.

Univesrità degli studi ROMA 3 

Master Universitario in Politiche dell’Incontro e Mediazione Culturale, IV edizione, anno 2005, Direttrice M.V. Tessitore.

                            

Tesina Modulo D – DIRITTI UMANI, NUOVA CITTADINANZA, POLITICA DELLA LEGALITÀ[1]

 

 

LE DIRETTIVE EUROPEE IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE.

Le 20 linee guida del Consiglio d’Europa su tutti gli stadi del procedimento di rimpatrio forzato e le violazioni dell’Italia.

di Marta Volterra

La questione dei migranti è andata sempre più affermandosi negli ultimi anni, nel contesto europeo, e ciò ha reso imminente la necessità di strutturazione di una normativa comunitaria e internazionale che possa dare direttive riguardanti la gestione e, soprattutto, la tutela dei diritti del migrante e dell’apolide.

Seppur dal secondo dopoguerra in poi si sia affrontato l’argomento attraverso la stipulazione di una serie d’accordi, si pongono ora nuove necessità date sia dalla situazione politica internazionale, che radicalizza la convivenza e la necessità di fuga e accoglienza, sia dalla scoperta di violazione dei diritti umani attuate nei paesi ospiti.

In quest’ottica, il 9 maggio 2005 sono state adottate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa venti linee guida su tutti gli stadi del procedimento di rimpatrio forzato.

L’iter per arrivare a delinearle è iniziato con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948, nella quale, all’articolo 14, si trova scritto: “ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”.

Il 28 luglio 1951 viene adottata la Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati e viene istituito l’ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati); la definizione generale viene data proprio in quest’occasione riconoscendo i seguenti requisiti fondamentali al fine del riconoscimento dello status di rifugiato: la fuga dal proprio paese, il fondato timore di persecuzione, motivi specifici di persecuzione (razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche), impossibilità di avvalersi di protezione nel proprio paese di origine.

Nella convenzione viene inoltre stabilito il fondamentale principio di non refoulement (art. 33) secondo il quale il rifugiato non può essere respinto o espulso verso paesi nei quali la sua libertà e la sua vita sarebbero a rischio. Fino al 1967, anno del protocollo aggiuntivo di New York, la Convenzione di Ginevra ha mantenuto le due limitazioni con le quali era nata: la limitazione geografica, secondo la quale poteva essere considerato rifugiato solo un cittadino europeo, e temporale, secondo cui poteva essere considerato rifugiato solo chi aveva subito persecuzioni prima del 1951.

La cooperazione europea in materia di immigrazione si delinea nella fase iniziale, a livello intergovernativo, ovvero in un ambito in cui il controllo giudiziario non è previsto. Negli anni Settanta, gli stati europei decidono di percorrere insieme la  strada della cooperazione intergovernativa dando vita a gruppi e laboratori dalla diversa competenza tematica, da cui scaturiscono gli Accordi di Schengen (firmati il 14 giugno del 1985) e la Convenzione di applicazione sottoscritta il 19 giugno 1990.

I contenuti riguardano l’abolizione graduale dei controlli alle frontiere comuni, mediante l’adozione di misure volte a regolare la  libera circolazione delle  persone e si articolano in una serie di norme che stabiliscono  le condizioni  di  ingresso nell’Area (art. 5), l’istituzione del visto uniforme  per soggiorni   di breve durata (art. 10),  l’obbligo di lasciare  “senza indugio” il  territorio di uno dei Paesi dell’Area qualora non vi siano più le  condizioni di soggiorno previste (art. 23) .   La Convenzione istituisce, inoltre, il “Sistema  d’Informazione Schengen”(SIS): un archivio comune contenente informazioni relative a persone che assumono  importanza per il controllo delle frontiere e per la cooperazione di  polizia nel settore della criminalità (art. 92).

A partire dagli anni Ottanta, dunque, come viene sottolineato nel rapporto ICS del 2005 sui richiedenti asilo in Italia (Rifugiati in Italia: la protezione negata), “si è assistito a un progressivo fenomeno di armonizzazione delle politiche sulle migrazioni da parte degli stati membri dell’Unione Europea. (..) Tra i temi che si sono alternati nel dibattito in Europa sulle politiche dell’immigrazione, un ruolo specifico è stato giocato dal diritto d’asilo[2]. Negli ultimi anni, infatti, con lo scopo di disciplinare in modo comune la modalità d’accesso alla procedura di asilo, protezione e accoglienza, sono stati emanati provvedimenti comunitari ad hoc.

Successivamente con il Trattato di Amsterdam del 1997 si determina un definitiva “comunitarizzazione” della materia; con l’adozione del trattato (entrato in vigore il 1 maggio 1999) si ha, infatti, un mutamento nel quadro europeo in materia di immigrazione soprattutto per un cambiamento di priorità, in quanto rientrano nelle competenze degli organi della comunità europea diverse materie: il controllo delle frontiere; il rilascio dei visti; la circolazione dei cittadini di Paesi terzi all’interno del territorio comunitario (art. 62); le misure in materia di asilo (competenza ad esaminare le domande  di asilo, norme minime sull’accoglienza dei richiedenti asilo,  sull’attribuzione della qualifica di rifugiato, sulla concessione o revoca  dello status di rifugiato); le misure applicabili a rifugiati e sfollati (protezione temporanea,  equilibrio degli sforzi fra gli Stati che ricevono i rifugiati e sfollati) (art.  63, n. 1 e n. 2); le misure in materia di politica di immigrazione (condizioni di  ingresso e  soggiorno, rilascio di visti a lungo termine e di permessi di  soggiorno, compresi quello per ricongiungimento familiare); l’immigrazione e il soggiorno irregolare compreso il rimpatrio degli  irregolari (art. 63, n. 3).

Con il 30 aprile 2004 è scaduto il periodo transitorio di cinque anni che era stato previsto prima dell’armonizzazione complessiva delle procedure comunitarie. Nel 2001, intanto, è stata introdotta una direttiva europea in proposito alle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati, finalizzata a garantire protezione non solo a coloro i quali rientrano nella tradizionale definizione di rifugiati stabilita dalla convenzione di Ginevra, ma anche a coloro i quali sono costretti a fuggire da conflitti armati.

Un’ ulteriore direttiva del 2003 riguarda, infine, le norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli stati membri della comunità europea nella quale sono date disposizioni specifiche riguardanti l’assistenza sanitaria e il regime di tutela del migrante e il diritto di ricorrere alla giurisdizione ordinaria nazionale per la contestazione del negato riconoscimento dello status di rifugiato.

Su questa strada di tutela e accoglienza iniziatasi a tracciare nel 1951, possiamo porre le venti linee guida su tutti gli stadi del procedimento di rimpatrio forzato adottate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’ Europa il 9 maggio 2005.

Le nuove linee guida richiamano i diritti tutelati dalla Convenzione europea per la protezione dei diritti umani e le libertà fondamentali e contengono cinque capitoli (Voluntary return, The removal order, Detention pending removal, Readmission, Forced removals) riguardanti i vari aspetti del rinvio forzato. In particolare un capitolo è dedicato alla detenzione in attesa dell’allontanamento in cui sono indicate, tra l’altro, le circostanze in cui la detenzione può essere ordinata e le condizioni minime di detenzione.

Lo stato ospite dovrebbe prendere misure di promozione del ritorno volontario più che coattivo; l’ordine di allontanamento dovrebbe essere perseguito solo in accordo con le leggi nazionali e non dovrebbe essere applicato se presente il rischio di violenze, torture o trattamenti inumani e degradanti nel paese di ritorno sia da parte del governo sia da parte di “non-state actors”.

Al fine di verificare l’ assoluta assenza di pericolo nel paese di ritorno, dovrebbero essere valutate e prese in considerazione le informazioni provenienti da tutte le fonti, governative e non, e dall’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Non dovrebbe inoltre essere portato a termine un’ordinanza di rimpatrio se lo stato in cui il migrante deve far ritorno rifiuterà il rientro del migrante stesso.

E’ proibita l’espulsione collettiva e la mancata adempienza dell’analisi individuale dei diversi casi.

La quarta linea guida stabilisce norme specifiche riguardo l’ordine di espulsione: dovrebbe essere indirizzato direttamente al destinatario che deve essere messo a conoscenza delle sue effettive possibilità di rimedio affinché possa essere revocato l’ordine di espulsione. Da questo punto di vista è anche evidente come “the remedy shall be accessible, which implies in particular that, where the subject of the removal order does not have sufficient means to pay for necessary legal assistance, he/she should be given it free of charge, in accordance with the relevant national rules regarding legal aid”[3] (guideline 5).

Il terzo capitolo riguarda le modalità di detenzione dopo che è stato dato l’ordine di rimpatrio. La persona detenuta dovrebbe, innanzitutto, essere informata in una lingua che conosce e dovrebbe avere la possibilità di contattare giudici e avvocati. La detenzione dovrebbe essere più breve possibile e rispettosa dei diritti umani; il personale presente all’interno dei luoghi detenzione dovrebbe essere altamente qualificato e in grado di affrontare la situazione specifica. I luoghi stessi, inoltre, dovrebbero essere organizzati e gestiti secondo determinate norme: “Such facilities should provide accommodation which is adequately furnished, clean and in a good state of repair, and which offers sufficient living space for the numbers involved. In addition, care should be taken in the design and layout of the premises to avoid, as far as possible, any impression of a “carceral” environment. [4] (guideline 10.2).

Le persone trattenute dovrebbero ricevere degna assistenza medica e ascolto psicologico e non dovrebbero essere detenute insieme a ordinary prisoners; dovrebbero avere libero accesso ad avvocati, ONG e familiari. I centri di detenzione dovrebbero essere costantemente monitorati da enti esterni e l’accesso dovrebbe essere liberamente consentito a membri dell’UNHCR, del parlamento europeo e altri soggetti qualificati.

Lo stato ospite dovrebbe assicurarsi che, nel caso di richiesta d’asilo rifiutata, il paese d’origine non venga a conoscenza della richiesta fatta dal richiedente.

Non dovrebbe essere previsto l’uso della forza durante il rimpatrio e la scorta dovrebbe essere costituita da personale qualificato e adeguatamente formato; “member states should implement an effective system for monitoring forced returns”[5] (guideline 20).

 

Le suddette linee guida finora sono state ampiamente disattese dall’Italia.[6] Le testimonianze e le denunce provengono da detenuti nei Cpta, avvocati, medici, Ong, attivisti religiosi, giornalisti e parlamentari. Nel maggio 2005, addirittura quattro sindacati di polizia si sono dichiarati  preoccupati per la situazione nei Cpta. Negli ultimi 12 mesi sono state espresse preoccupazioni sul funzionamento dei Cpta in genere e/o sulla situazione in alcuni di essi anche da organizzazioni intergovernative e interparlamentari, tra cui la Relatrice speciale per i diritti umani dei migranti delle Nazioni Unite, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e di altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti e parlamentari europei. Tali preoccupazioni riguardano soprattutto la gestione e le denuncie di atti di violenza perpetrati all’interno dei CPTA.

Secondo alcuni, tali centri costituiscono veri e propri lager all’interno dei quali gratuiti atti di violenza sono compiuti senza il rispetto della normativa internazionale sui diritti umani.

Amnesty International, l’ Unhcr e il Parlamento Europeo hanno espresso serie preoccupazioni a seguito di segnalazioni di persone che all’interno di queste strutture avrebbero subito aggressioni fisiche da parte di agenti di pubblica sicurezza e del personale di sorveglianza; un eccessivo uso di sedativi; condizioni di vita non conformi alle norme igieniche; un’insufficiente assistenza sanitaria; difficoltà di accesso alla consulenza legale necessaria a contestare la propria detenzione e il decreto di espulsione e difficoltà di accesso alla procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato, con conseguente rinvio in paesi in cui si rischiano gravi violazioni dei diritti umani.

Le nuove linee guida da poco adottate potrebbero portare a una maggiore tutela dei diritti dei migranti, rifugiati o richiedenti asilo detenuti in CPTA o Centri di Identificazione, ma queste in realtà non hanno funzione coattiva, dovrebbero unicamente orientare le scelte del legislatore nazionale che può però, in sostanza, disattenderle senza incorrere in particolari sanzioni.

 

Bibliografia e sitografia:

 http://www.amnesty.it/pressroom/ra2005/italia.html?page=ra2005

 

http://www.amnesty.it/pressroom/documenti/italiacpta.html

da www.associazioneantigone.it/cpta.asp, a cura di G.Santoro e G. Del Grande

 

da  www.diritto.it

 

 


 

[1] Coordinatore Stefano Anastasia.

Tutore: Gennaro Santoro

[2] Rifugiati in Italia: la protezione negata (rapporto ICS sui richiedenti asilo in Italia - 2005), p. 16

 

[3] "Il ricorso dovrebbe essere accessibile, il che significa nel particolare che, qualora il soggetto destinatario dell'ordine di allontanamento non abbia sufficienti mezzi per pagare la necessaria assistenza legale, la stessa dovrebbe essere concessa gratuitamente all’interessato/a, in linea con le attinenti leggi nazionali che riguardano l'assistenza legale”.

[4] “Tali strutture dovrebbero fornire una sistemazione che sia adeguatamente arredata, pulita e in un buono stato di riparazione, e che offra uno spazio sufficiente per vivere, in base al numero di soggetti coinvolti. In più, dovrebbe essere presa cura nell’ arredamento e nella progettazione dei locali per evitare, per quanto sia possibile,  qualunque impressione di un ambiente ‘carcerario’ “

[5] “Gli stati membri dovrebbero implementare un effettivo sistema di monitoraggio dei rimpatri coatti”

[6] Cfr. Italy. Temporary stay – permanent rights:  The treatment of foreign nationals detained in ‘temporary stay and assistance centres’ (CPTAs)