Se ci fosse stato il reato di tortura, di M.Palma, aprileonline 19/3/08

Se ci fosse stato il reato di tortura...     Caserma di Bolzaneto: nel gran parlare di valori, come è possibile accettare che l'azione repressiva sia così pesantemente spostata verso la tutela dei beni materiali piuttosto che della dignità delle persone, della loro incolumità addirittura all'interno di strutture destinate all'esercizio di legalità? Quale messaggio ci invia su noi stessi e sul nostro sistema sociale un ordine di priorità che penalizza più un danneggiamento o un furto che non una giovane spinta con la testa nel water da un agente o un insieme di giovani tenuti nella posizione del cigno pur in presenza di un ministro di giustizia?

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Se ci fosse stato il reato di tortura...

Mauro Palma,   19 marzo 2008, 21:07



È vero: la storia non ammette proposizioni controfattuali, cioè frasi ipotetiche la cui premessa non si è avverata. Ma, forse per una volta può essere utile ricorrervi per capire la gravità di quanto sta avvenendo in un'aula di tribunale a Genova: di fronte a episodi che gettano una luce sinistra sul livello di civiltà e di rispetto di principi fondamentali nel nostro paese, la pubblica accusa, non trovando nel codice penale ipotesi di reato adeguate, è dovuta ricorrere ad altre ben più lievi e insufficienti.

Se ci fosse stato il reato di tortura nel nostro codice, oggi il processo si sarebbe avviato alla conclusione con un'indicazione idonea a descrivere quanto accertato dall'indagine; e dare nomi ai fatti non è cosa di poco conto sul piano della consapevolezza democratica. Se ci fosse stato il reato di tortura, la pena richiesta sarebbe stata adeguata alla loro gravità e il tutto non sarebbe destinato alla rapida prescrizione. Se ci fosse stato il reato di tortura, lo svolgersi del processo avrebbe costituito di per sé un chiaro messaggio della volontà di non lasciare impunite le forme di violenza nei confronti delle persone private della libertà. Se ci fosse stato il reato di tortura, sarebbe stato ben difficile promuove a nuovi alti incarichi persone che erano chiamate a rispondere davanti alla magistratura di un reato di tale rilevanza. Se ci fosse stato il reato di tortura, il mondo politico non avrebbe potuto girare lo sguardo altrove e l'indagine su quali responsabilità non soltanto penali, ma anche e soprattutto politiche, abbiano permesso che ciò avvenisse, sarebbe stata una scelta naturale, quasi obbligata. Se ci fosse stato il reato di tortura, la gerarchia dei beni giuridici tutelati sarebbe stata ben chiara nel codice e l'esito dei vari processi non sarebbe risultato nell'offensivo paradosso attuale che vede la violenza contro le cose ben più punita di quella contro le persone.

Potremmo seguitare a elencare proposizioni ipotetiche, che sono appunto controfattuali perché tale reato non esiste. I Parlamenti che si sono succeduti da quando l'Italia ha ratificato - ormai sono vent'anni - la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, non hanno dato alcuna priorità a questo tema; in parte nell'idea che tali eventi non si sarebbero mai presentati nel nostro paese, in parte ritenendo che le forme gravissime di violenza verso le persone detenute, che non sono certo mancate nel passato, potessero al più configurarsi come abusi d'autorità, arresti illegali o violenze private. Mai come trattamenti inumani o torture. Eppure la parola impronunciabile è stata pronunciata nell'aula del tribunale e le descrizioni fornite hanno mostrato un quadro che può essere ben riassunto da essa.

Ma, affinché lo sconcerto che tutto ciò determina si traduca in atto positivo occorre muoversi in più direzioni, ora che il fallimento dell'azione preventiva è certificato dagli stessi accadimenti e quello dell'azione repressiva lo sarà a breve, attraverso blande sanzioni destinate a essere prescritte. Occorre certamente sanare il vuoto esistente nel codice penale.
Bisogna però anche tornare a interrogarsi sul codice stesso, che rappresenta una sorta di foto della gerarchia di tutela dei beni giuridici: nel gran parlare di valori, come è possibile accettare che l'azione repressiva sia così pesantemente spostata verso la tutela dei beni materiali piuttosto che della dignità delle persone, della loro incolumità addirittura all'interno di strutture destinate all'esercizio di legalità? Quale messaggio ci invia su noi stessi e sul nostro sistema sociale un ordine di priorità che penalizza più un danneggiamento o un furto che non una giovane spinta con la testa nel water da un agente o un insieme di giovani tenuti nella posizione del cigno pur in presenza di un ministro di giustizia?
La terza e non secondaria direzione è quella di ricercare forme di compensazione affinché le vittime, spesso giovani, tornino a sentirsi parte delle istituzioni e a vedere da esse riconosciuta la propria dignità: questa forma di compensazione, ben superiore a quella del risarcimento del danno materiale o morale che sarà stabilito in sede processuale, può darla soltanto un atto di accertamento di responsabilità politica e di trasparenza. Una commissione di inchiesta che aiuterà anche tutti noi a interrogarci su come ciò sia potuto avvenire.