Rapporto Giugno 2008, fortresseurope. blogspot.com, 30/06/08

Giugno 2008

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ROMA – È un triste anniversario quello della Giornata mondiale dei rifugiati del 20 giugno. Nel mese appena trascorso infatti, lungo le frontiere europee sono morti almeno 185 migranti e richiedenti asilo, dei quali 173 soltanto nel Canale di Sicilia. Quattro uomini sono deceduti alle Canarie, dopo essere stati ricoverati in gravi condizioni dopo il loro sbarco. In Italia, a distanza di pochi giorni, due iracheni sono stati trovati morti dentro due container sbarcati nel porto di Venezia a bordo di traghetti partiti dalla Grecia. In Turchia due migranti hanno perso la vita in un incidente del camion nel quale viaggiavano nascosti nella provincia orientale di Dogubayazit, mentre un cittadino somalo è rimasto ucciso da un proiettile durante una violenta protesta esplosa nel campo di detenzione di Kırklareli, vicino alla frontiera bulgara. E un proiettile ha ucciso anche tre profughi lungo il confine egiziano con Israele. Una delle vittime è una bambina sudanese di sette anni, ammazzata lo scorso 28 giugno.

Quella del Sinai si conferma la nuova rotta dei rifugiati eritrei e sudanesi, che alle carceri libiche e alla morte in mare preferiscono lo Stato ebraico. Nel 2007, secondo l’Unhcr, ne sono arrivati almeno 5.000. Intanto l’Egitto ha rinforzato i propri dispositivi di controllo, autorizzando la polizia di frontiera ad aprire il fuoco sui migranti. Dall’inizio dell’anno i morti ammazzati sono almeno 16. Messo sotto pressione da Israele, l’Egitto ha avviato una vasta operazione di arresti e deportazioni, colpendo in modo particolare gli eritrei. Secondo Amnesty International, su un totale dei 1.600 eritrei detenuti nei campi di detenzione egiziani, 810 sono già stati deportati dall'11 giugno 2008. Si tratta della più grande deportazione mai organizzata negli ultimi anni dall'Egitto e potrebbe segnare il passo di una nuova stagione di repressione al Cairo. Intanto chi ce l'ha fatta cerca una nuova vita in Israele.

 

Har Zion street numero tre. È uno degli indirizzi della diaspora eritrea a Tel Aviv. Uno stabile su tre piani, occupato da un centinaio di rifugiati del Corno d'Africa. I materassi sono dappertutto. Sui pianerottoli delle scale, lungo i corridoi. Beyené apre la porta di una camera di quattro metri per quattro, ci dormono in tredici. Alle undici del mattino la televisione è accesa e alcuni sono ancora a letto. Beyené è eritreo. È a Tel Aviv da 25 giorni. È entrato dall'Egitto. Dal Sudan era partito con la moglie. Ma lei è ancora detenuta a Ketziot, il campo di detenzione israeliano nel deserto del Sinai. Beyené è solo uno dei circa 10.000 richiedenti asilo entrati in Israele negli ultimi anni. È cominciato tutto nel 2006 con circa 1.200 ingressi dal Sinai, sei volte i 200 dell'anno precedente. E poi i 5.500 arrivi nel 2007 e i già 2.000 del primo trimestre del 2008. Sono soprattutto sudanesi e eritrei. E non è un caso. Il 30 dicembre 2005, 4.000 agenti egiziani in tenuta antisommossa assalivano i circa 3.500 profughi sudanesi che da tre mesi presidiavano il parco “Mustafa Mahmoud” del quartiere residenziale di Mohandessin, al Cairo, a poche centinaia di metri dagli uffici dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, chiedendo di essere reinsediati in un Paese terzo. Alla fine degli scontri si contarono 26 morti, tra cui 7 donne e 2 bambini. Il clima di repressione in Egitto, l'impossibilità di tornare in patria, nel Darfur come nel Sud Sudan, e i rischi del viaggio in mare verso l'Italia, hanno aperto una breccia nella barriera di filo spinato che separa l'Egitto e Israele. E ai convogli dei sudanesi sono seguiti quelli dei rifugiati eritrei, molti dei quali in fuga dal Sudan, dove il 2 giugno il governo ha ordinato la chiusura degli uffici dell'opposizione eritrea.

 

 

Beyené viveva a Khartoum da due anni. Con la moglie hanno pagato 800 dollari a testa per il viaggio verso Assuan, in Egitto. Un viaggio relativamente semplice, dice ,meno duro della traversata del deserto verso Kufrah, in Libia. Da Assuan al Cairo sono arrivati in treno. Alla stazione li aspettava un connection man. Altri 700 dollari a testa e nel giro di pochi giorni sono partiti alla volta della frontiera. Un pezzo di strada nei camion. E poi a piedi, di notte, in pieno deserto, finché le guide, egiziane, hanno tagliato con delle cesoie la barriera alta un metro di filo spinato e gli hanno detto di aspettare le pattuglie dell'esercito dall'altro lato. Una volta intercettati sono stati portati al campo di Ketziot. È una tendopoli con 1.200 posti, inaugurata nel luglio 2007 nel cortile di un carcere alle porte di Gaza utilizzato per la detenzione amministrativa dei prigionieri politici palestinesi. La moglie di Beyené è ancora là. Lui l'hanno rilasciato con un documento temporaneo di “conditional release”. Nel frattempo si può lavorare, ma soltanto nella città cui è stato assegnato. A metà luglio il permesso temporaneo scade. Dovrebbero rinnovarlo, ma niente è sicuro. Intanto la domanda d'asilo pende presso l'Unhcr, che però non ha abbastanza personale per far fronte alle interviste, e si concentra piuttosto nelle richieste di rilascio dei migranti detenuti a Ketziot e nella ricerca di regolarizzazioni collettive, come il permesso temporaneo di un anno recentemente rilasciato a 600 sudanesi del Darfur e il permesso di lavoro di sei mesi dato a circa 2.000 eritrei. I rifugiati riconosciuti dall'Acnur e dal governo israeliano sono solo 86. Intanto, il 19 maggio 2008, il parlamento israeliano ha approvato in prima lettura la modifica della legge anti infiltrazione: riaccompagnamento immediato alla frontiera e 5 anni di carcere per il reato di immigrazione clandestina, 7 per i cittadini degli Stati nemici: Iran, Afghanistan, Libano, Libia, Sudan, Iraq, Pakistan, Yemen e Palestina. La proposta di legge torna adesso in commissione e sarà votata altre due volte. Intanto però, sui banchi del Parlamento non c'è nessuna proposta di legge sull'asilo. I motivi sono tanti. La questione politica dei rifugiati palestinesi e più in generale dei rifugiati degli Stati nemici di Israele sopra elencati, il possibile arrivo di parte dei due milioni di rifugiati iraqeni residenti in Siria e Giordania e la questione ideologica dello Stato ebraico. A Tel Aviv chiunque lo dice: “We are not supposed to be an immigration State, but a Jew State”. Non siamo uno Stato di immigrazione ma uno Stato ebraico. Ad essere i benvenuti sono soltanto i circa 180.000 lavoratori stranieri impiegati nel Paese - nepalesi, cinesi, thailandesi, indiani o filippini – ma soltanto perché mantenuti con un permesso di soggiorno temporaneo e senza possibilità di ricongiungimento familiare.

 

E la situazione degli eritrei non accenna a migliorare nemmeno in Libia. Secondo l'Agenzia Habeshia, a Mishratah sono ancora detenuti, da oltre due anni, 700 uomini, 60 donne e 30 bambini, tutti eritrei. E altri 133 eritrei sarebbero detenuti a Ijdabiya, dopo essere stati arrestati in mare, nelle ore in cui il primo ministro italiano Silvio Berlusconi volava a Tripoli per un incontro lampo con Gheddafi, lo scorso 27 giugno. Sul tavolo della trattativa l'impegno a finanziare parte del sistema radar per il controllo delle frontiere sud della Libia, come contropartita per sbloccare i pattugliamenti congiunti in acque libiche, secondo gli accordi del 29 dicembre 2007. Le navi sono pronte, ha detto il ministro dell'Interno Maroni. Ma quali saranno le regole di ingaggio della missione? E quali sono oggi le regole di ingaggio della missione di pattugliamento di Frontex nel Canale di Sicilia, Nautilus III? Frontex mantiene il riserbo totale. Durante il question time in parlamento, il primo ministro maltese Lawrence Gonzi ha dichiarato “top secret” le regole delle operazioni, che vedono impegnati mezzi di Italia, Malta, Francia, Germania, Spagna e Grecia. Ma un giornalista tedesco è riuscito a rompere il silenzio. Si chiama Roman Herzog e nel suo ultimo documentario audio, Guerra nel Mediterraneo, la Guardia di Finanza italiana ammette che alcune unità navali di Frontex sequestrano viveri e carburanti dalle navi dei migranti per obbligarli a ritornare verso i porti di partenza. Una pratica che non è stata smentita dal direttore di Frontex Ilkka Laitinen, intervistato a proposito nel documentario.

La Libia ha rimpatriato a sue spese 30.940 immigrati nel 2007 e reclama un miliardo di euro di aiuti. Nel 2006 la Libia aveva rimpatriato 64.430 immigrati con una spesa di quattro milioni di euro. Intanto gli arrivi sulle coste italiane sono più che triplicati nei primi cinque mesi del 2008: 7.077 contro i 2.087 dello stesso periodo nel 2007. Sempre più donne (l'11% contro l'8% dello scorso anno) e sempre più rifugiati del Corno d'Africa (30%), in particolare da Sudan e Somalia. E sempre più imbarcazioni salpate dall'Egitto anziché dalla Libia per evitare i respingimenti. E di pari passo aumentano le tragedie. Nei primi sei mesi i morti di cui si ha notizia nel Canale di Sicilia sono almeno 311, di cui 173 soltanto nel mese di giugno. In tutto il 2007 le vittime documentate erano state 556. L'ultima strage, il 7 giugno, è costata la vita a 140 persone. Wali Adbel Motagali è l'unico superstite. In un'intervista al quotidiano egiziano al-Ahram ha raccontato: “Ho conosciuto un uomo nel mercato al-Jumua di Tripoli che mi ha offerto un viaggio verso l'Italia per 1.000 dollari. Il 5 giugno siamo stati portati a ovest di Tripoli, dove siamo rimasti per due notti. Ci hanno fatto poi salire a bordo di una imbarcazione che non poteva trasportare più di 40 persone e dopo solo un'ora di navigazione si è rotto il motore. Abbiamo tentato invano di ripararlo. Dopo poco abbiamo iniziato a imbarcare acqua. A causa dell'agitazione di alcune persone che si erano fatte prendere dal panico perché non sapevano nuotare la barca si è capovolta e molti sono annegati”. Delle altre tragedie non ci sono testimoni né superstiti. Ma soltanto i cadaveri ripescati in alto mare o affiorati lungo le coste maltesi e siciliane.

Dall'altro lato del Mediterraneo, la Spagna torna a parlare di sé per l'ultimo rapporto pubblicato da Amnesty International sulle condizioni dei migranti in Mauritania, uno dei principali Paesi di transito verso le Canarie. Dal 2006 migliaia di persone sono state detenute nel campo costruito a Nouadhibou con fondi spagnoli e quindi rinviate alla frontiera con il Senegal e con il Mali. Amnesty svela i rapporti tra Spagna e Mauritania, per poi affrontare i punti critici dei respingimenti in mare di 5.000 persone operati dai pattugliamenti di Frontex nell’Atlantico, con un caso studio sulla vicenda dei 369 passeggeri del Marine I, intercettati in mare il 30 gennaio e mantenuti in detenzione in condizioni degradanti per mesi, prima del rimpatrio della maggior parte di essi, in India, Pakistan, Sri Lanka e Guinea. Intanto più a nord, i migranti bloccati in Marocco senza documenti, tentano di raggiungere Ceuta e Melilla a tutti i costi. A nuoto, oppure assalendo i posti di frontiera, come è successo il 22 giugno a Melilla, quando 70 migranti sub-sahariani hanno tentato di superare con la forza il punto di blocco di Beni-Enzar, tra Nador e Melilla. Una cinquantina di loro sono stati arrestati e saranno espulsi. Degli altri si sono persi le tracce.

Saranno presto espulsi in Algeria e da lì in Mali. Come è successo a uno dei superstiti del naufragio di Hoceima del 28 aprile scorso, arrestato e abbandonato nel deserto, a Tinzaouatine. Come lui almeno Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.">12.200 migranti africani sono stati arrestati e deportati nel 2007 nella regione di Tamanrasset, nel sud est algerino. Il Paese, che pure vive il dramma della propria emigrazione, ha recentemente adottato una nuova legge sull'immigrazione che prevede la creazione di centri di detenzione per i migranti, finora trattenuti in carceri, locali fatiscenti o stazioni di polizia. Per la prima volta, Fortress Europe è in grado di mostrare un reportage fotografico sugli arresti e le deportazioni nel deserto algerino, realizzato da Bahri Hamza. Se i nuovi campi, voluti dall'Europa, serviranno a fermare i migranti non è dato saperlo. Ma intanto un rapporto appena pubblicato dall'Oim smonta la tesi fondante delle politiche di contrasto all'immigrazione africana, dimostrando dati alla mano che dall'Africa sub-sahariana non è in corso nessuna invasione e che la maggior parte dei migranti senza documenti arrivano con un visto turistico e non sulle carrette del mare.