Il confine che ci attraversa, meltingpot.org, 22/02/07

Il confine che ci attraversa

CPT e nuovi dispositivi di sicurezza nelle nostre città.

Fin dal 1998, quando la legge Turco-Napolitano li istituì, i Cpt, meglio, la loro cancellazione, venne assunta come punto inaggirabile nell’agenda politica dei movimenti.
Melting Pot Europa ha accompagnato con sguardi e inchieste, attraverso campagne e approfondimenti, il percorso che dall’ottobre del 1998 ci ha portato ai giorni nostri.
Da Trieste a Bologna, passando per Milano, Torino, Bari Palese, Lampedusa, Modena, Brindisi, Gradisca, ogni luogo, ogni città, ogni territorio in rivolta contro i CpT è diventato anche il nostro.

Demistificando la loro funzione, i CpT noi li abbiamo sempre chiamati “lager”, facendo delle lotte per la loro chiusura una questione di dignità, una vera e propria battaglia di civiltà.
Ma oggi il dibattito intono alla questione CpT ci impone una rilettura del loro ruolo adeguata al tempo che stiamo vivendo.
Rileggere il loro ruolo non significa certo affermare che quella contro i CpT possa considerarsi una battaglia esaurita, anzi, è proprio rileggendo la realtà che intono ad essi va delineandosi, che la questione della loro cancellazione - e con essa dell’affermazione di nuovi diritti di cittadinanza - ritrova quella potenza che ha contraddistinto i dieci anni di mobilitazioni che ci dividono dalla loro istituzione.

Vi è una trasformazione del dibattito intorno ai CpT perché da un lato le campagne di questi anni, gli smontaggi e i sabotaggi contro di essi, e contro chi su di essi lucra, hanno costretto la politica ad assumere in termini problematici la loro esistenza, dall’altro perché l’assunzione di questo problema da parte del governo italiano avviene in maniera posticcia, sempre approssimativa e depotenziata.
Tutto il lavoro della commissione De Mistura, la confusione intorno ai termini “svuotamento o chiusura”, vengono utilizzati come tentativi per rimettere nell’alveo del compromesso il problema, fornendo improbabili risposte a chi non ha mai smesso di porre la questione della chiusura, senza se e senza ma, di queste strutture.
Per il governo, svuotare i CpT, significa in primis far fronte ad una spinta ormai incontenibile di indignazione e di rifiuto della loro esistenza e, al tempo stesso, riaffermare la loro legittimità ridefinendone le caratteristiche e il quadro in cui sono inseriti.
I CpT, così come sono, non possono più esistere ci dice la Commissione, insieme agli esponenti della cosiddetta “sinistra radicale”, facendone una questione di inefficienza, o di costi; ciò che non viene detto è che se i CpT così come li abbiamo conosciuti finora non esisteranno più sarà perché un più articolato sistema di gestione dei flussi della mobilità globale è in costruzione.
Non è certo questo il momento di discutere le proposte, tutte da verificare, che il governo ha già in parte esposto, piuttosto è quello di cogliere i processi in atto che ci consegnano una realtà tutt’altro che confortante, ma anche nuove possibilità per i movimenti.

Intermezzo europeo
Che il dibattito intono ai Cpt non sia una mera questione “nazionale” era cosa già da tempo evidente, tutte le normative sulla gestione dei flussi migratori trovano fondamento a livello continentale.
E’ chiaro che non si tratta di spostare l’attenzione su Bruxelles, come peraltro molti vorrebbero farci credere tentando di alleggerire, o peggio aggirare, le responsabilità dei governi nazionali, ma è evidente che è solo sul piano europeo che possiamo leggere in maniera compiuta la questione della cittadinanza, della sua negazione, e dei diversi livelli di inclusione ed eclusione che porta con sé.
L’allargamento ad Est e la non espellibilità dei cittadini bulgari e rumeni, frutto di processi economici, delle strategie di ampliamento del mercato dell’Unione, ma anche dell’ormai incontrollabile canale aperto “da e verso” Est, fa impallidire il dibattito italiano (diffuso anche in altri stati europei) incentrato sull’impossibilità di compiere scelte coraggiose in materia di migrazioni, consegnandocelo in tutta la sua chiarezza.
Secondo i partiti più sensibili alla tematica dei CpT, o meglio, più astuti nel cogliere la spendibilità in termini elettorali delle spinte dei movimenti, alla loro ascesa al governo sarebbe dovuta corrispondere la possibilità di rendere reali e praticabili le istanze di chiusura dei nuovi lager. Così non è stato: l’allargamento ad Est dell’UE e i processi economici che lo accompagnano ridicolizzano e travolgono ogni presunto “sforzo massimo” compiuto dal governo italiano e dalle sue componenti “radicali”, spostando invece su un livello più alto, metropolitano e al tempo stesso continentale, il piano su cui confrontarsi
.

Il CpT è tutto intorno a te…
Così come ce li consegna il dibattito italiano, i “CpT svuotati” e ridisegnati dovrebbero essere ricollocati dentro un quadro “umano” di gestione dei flussi migratori.
Quello che oggi abbiamo di fronte è un impianto normativo diversificato, a cui corrispondono diversi gradi di acquisizione di diritti.
Ma solo considerando complessivamente la figura del migrante e la realtà in cui è inserito, possiamo delineare il disegno complessivo di questo processo.
Non solo la norma quindi: le condizioni materiali di vita sono segnate dalla politica, dalla cultura dell’emergenza, dal valore della sicurezza come variabile indipendente, sono scritte nell’intero ambiente in cui siamo immersi.
Da questo punto di vista emerge con più chiarezza, spoglia di retorica e demagogia, la funzione essenziale che i CpT ricoprono.
Lungi dall’essere strumenti di espulsione dal territorio europeo, i CpT sono investiti di una funzione disciplinare di governo della transitorietà, inserita in un contesto complessivo che vede l’UE orientata a riconoscere solo possibilità temporanee di essere titolari di diritti.

Non vi è alcuna fortezza europea arroccata sui suoi confini, neppure alcun problema di combattere l’immigrazione, solo quello di poterne fissare le condizioni più utili.
Il confine si sposta in maniera variabile, accompagnando i soggetti che lo attraversano come fosse impresso nella loro biografia: ne emerge una realtà fatta di regimi diversi di circolazione e di diverse condizioni materiali di vita, da quelle dei “cittadini illegali”, a quelle che trovano il riconoscimento pieno dei diritti di cittadinanza.

Svuotare i CpT allora non significa altro se non ricollocare la loro funzione dentro ad un sistema più allargato di controllo e disciplina.
Il CpT oggi è costruito intorno a noi, è fatto di ghetti e di esclusione, di inclusione differenziata e di stratificazione dei livelli di cittadinanza.
Torna utile qui ricollocare la loro funzione, e più in generale il loro rapporto con la normativa dentro un quadro che ci ripropone l’ambito della metropoli come spazio continuamente rimodellato dalle forme di vita che lo abitano.

Parliamo anche e soprattutto di quelle fintamente inesistenti: perché esiste un esercito di cittadini inclusi permanentemente nel processo continuo di produzione della metropoli, ma sistematicamente, o temporaneamente, o parzialmente escluso dal riconoscimento della cittadinanza.

Ghetti, interi quartieri o zone delle città abitati da migranti perché lì costretti, sono ugualmente nodi di controllo e gestione di processi di inclusione/esclusione. I “vecchi CpT” ne sono stati l’eccezionale emergenza risolutiva, i “nuovi CpT” ne saranno parenti stretti, meglio, il nuovo sistema modellato intorno allo svuotamento dei CpT si presenta come un “processo”, una rete multiforme di dispositivi dispiegati sulla totalità del tessuto sociale, I CpT sono parte integrante di questa rete, strettamente connessi all’ambiente che li circonda.
Infatti, per esempio, per svuotare un ghetto come quello di via Anelli a Padova, si erigono muri e si posizionano check point, ed è necessario coinvolgere tutta la città in nuovo sistema di controllo, fatto di retate anti-clandestino e di ronde per la sicurezza, di paura post-indulto e di stato di emergenza.
Così, per svuotare i CpT, servirà riarticolare un complesso e rinnovato sistema di controllo sociale, culturale, politico, intorno alla figura del migrante, diventato l’oggetto sul quale si modellano i nuovi dispositivi di governo della vita nelle metropoli, che dovranno essere legittimati e consensuali.

L’apologia del valore della sicurezza è la struttura culturale su cui poggia questa strategia, l’organizzazione privata della sicurezza cittadina, le ronde, le associazioni massoniche per la vigilanza urbana, ne sono l’applicazione odierna.
Essere tutti partecipi nella gestione di un grande CpT, lo spazio di vita che ci circonda, è la suggestione neppure molto lontana che ci viene proposta come contropartita di uno svuotamento che nessuno ha mai chiesto.
Non è il momento di prefigurare dicevamo, rimane dunque irrisolta e più che mai attuale la necessità di “chiudere i CpT senza se e senza ma” e di ripensare intorno al concetto di cittadinanza europea le strade per la conquista di nuovi diritti per i nuovi cittadini.
Ma è lo spazio metropolitano ad essere coinvolto e travolto da questo nuovo processo, ed è proprio il bene comune della condivisione dei nostri spazi di vita che si propone come nuovo piano su cui affrontare il rifiuto dei CpT…tutto intorno a noi…