La commissione Gratteri e la riforma nostalgica

patrizio-gonnella-associazione-antigoneDi seguito l'editoriale di Patrizio Gonnella uscito su il manifesto di oggi

Le carceri non devono essere dirette dalla Polizia e non devono finire sotto il controllo del Ministero degli Interni. Finanche chi ha privatizzato parte del sistema delle prigioni, come gli Usa o il Regno Unito, ha riservato le competenze al Ministero della Giustizia. Tra i suggerimenti che le organizzazioni internazionali danno alle nuove democrazie vi è quello di togliere le prigioni dal controllo dei ministeri di Polizia. Mario Gozzini, a cui si deve la grande riforma carceraria del 1986, scriveva di direttori penitenziari straordinari, motivati, democratici che si sentivano in perfetta sintonia con il dettato costituzionale, il quale prevede, va sempre ricordato, che la pena non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Gozzini raccontava anche di come accadesse spesso che giovani direttori, giunti entusiasti a lavorare in carcere, si fossero poi progressivamente demotivati scegliendo di lavorare altrove. La storia della pena in Italia ha vissuto anche anni bui, tristi.

Si pensi a quando la giustizia italiana era nelle mani di Mario Borghezio (sottosegretario nel lontano 1994) o Roberto Castelli (Ministro dal 2001), entrambi leghisti: in quegli anni il sistema penitenziario non si è trasformato in un luogo a loro immagine e somiglianza solo perché direttori, educatori, assistenti sociali, psicologi e di conseguenza poliziotti penitenziari, si sono fatti carico di una gestione democratica e aperta al territorio. Un progetto di riforma che affidi ai poliziotti la direzione delle carceri non tiene conto della storia, del diritto internazionale, degli obiettivi costituzionali. Da giorni si parla di una proposta di scioglimento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, di cambiamento di funzioni della Polizia penitenziaria e di affidamento della direzione ai poliziotti stessi. Una proposta profondamente e pericolosamente anti-democratica. Il direttore deve essere un funzionario civile dello Stato. E’ lui a dover garantire la finalità costituzionale della pena. Deve avere spirito manageriale, non deve essere un maresciallo che organizza l’ordine pubblico interno. Già oggi i poliziotti penitenziari non possono portare armi all’interno degli istituti. Vi sono Stati della cui democrazia non si dubita che hanno rinunciato alla Polizia negli istituti di pena. Dentro ci sono solo funzionari civili, alcuni con compiti di gestione degli spazi, altri di gestione delle attività. Dappertutto, tranne che nelle dittature o nelle giovanissime democrazie post-regime, il direttore non è un poliziotto in divisa. Non lo è perché questo accadeva nei regimi. Il progetto di riforma di cui si discute pare sia l’esito dei lavori di una Commissione voluta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e composta da tre pubblici ministeri: Nicola Gratteri, Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita (quest’ultimo a lungo proprio ai vertici del Dap). Uso l’espressione verbale ‘pare’ in quanto non è a nostra disposizione traccia istituzionale e pubblica di questa Commissione e delle sue proposte. Alcune domande sorgono spontanee: 1) perché affidare a tre pm che si occupano di mafie e colletti bianchi il progetto di riorganizzazione? Il 90% della popolazione detenuta non ha nulla a che fare con queste categorie di reclusi. Così si costruisce una riforma sulla base di presupposti non proprio corretti. A tre pm al limite si può chiedere una riflessione sulla Procura nazionale antimafia. La vita penitenziaria è invece fatta di organizzazione di attività, di azioni per la tutela della salute, di capacità di gestione del personale e delle relazioni sindacali. Che c’entra un poliziotto con tutto questo? 2) perché fare una riforma esplicitamente contro chi ci lavora? 3) perché non chiedere un parere a chi come noi si impegna da trent’anni per una pena rispettosa delle norme costituzionali? Se ci avessero sentito noi avremmo detto che: è giusto accorpare le forze di Polizia, è ingiusto retribuire così tanto il capo del Dap, non è giusto che costui sia un magistrato necessariamente. Inoltre avremmo aggiunto che i direttori devono continuare a essere dirigenti pubblici messi a capo di un personale omogeneo e qualificato, che i poliziotti penitenziari che lo vogliono possono andare a lavorare nella Polizia di Stato a cui si può affidare la sicurezza esterna, che dentro le mura del carcere devono operare principalmente operatori civili esperti nel trattamento tutti funzionalmente dipendenti dal direttore, che la competenza istituzionale sugli istituti penitenziari deve essere del ministero della Giustizia e non degli Interni in quanto quest’ultimo ha funzioni di ordine pubblico. Immaginiamo che al ministero della Giustizia si soffra della invadenza della commissione Gratteri. Se il progetto di riforma di cui si parla è quello preannunciato, noi ci opporremo non in nome della difesa dell’esistente ma per proporre cambiamenti profondi e sistemici che non guardino a un passato fatto di ordine e militarizzazione, ma a un futuro dove la violenza sia quanto meno minimizzata. Siamo certi di non essere soli in questa opposizione. I tanti operatori – magistrati di sorveglianza, direttori, educatori, assistenti sociali, psicologi, criminologi, medici, mediatori culturali e poliziotti – che lavorano in carcere e le tante associazioni che si occupano del ‘trattamento’ non possono essere del tutto ignorati. E’ anche a loro che vogliamo dare la parola, è da loro che vogliamo ascoltare proposte innovative che affondino le radici nella loro esperienza pluridecennale e concreta, in una grande assemblea pubblica che sarà organizzata a Roma il prossimo 11 di novembre.