L’EDITORIALE:
Sul mandato d’arresto europeo
di Mauro Palma
Non tira un buon vento sull’Unione Europea. L’imminente allargamento
avverrà, ormai appare certo, senza che gli stati membri abbiano adottato
uno schema comune di idealità, principi e norme operative che ne
costituisca l’ossatura teorica, oltre che la possibilità pratica di
agire in modo coeso. La situazione resta delimitata da pilastri e
paletti definiti dagli attuali trattati, senza che l’Unione abbia una
identità giuridica che le permetta, per esempio, di essere parte della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali. Lo sono tutti i suoi membri individualmente, ma
non la loro Unione e qualora, come alcuni auspicano, si allargasse in
futuro fino a comprendere qualche stato non europeo, questo non sarebbe
automaticamente vincolato al rispetto di quei diritti che tale
Convenzione tutela.
E’ solo un esempio, per dire che se è vero che il burocratico e
voluminoso testo, impropriamente proposto come Costituzione europea,
lascia pochi rimpianti, è altrettanto vero che il vuoto che rimane dopo
il recente scontro e il sostanziale abbandono del percorso fin qui fatto
non può essere salutato positivamente neppure dai suoi critici più
feroci.
Perché resta in piedi soltanto l’Europa della cooperazione economica e
monetaria, mentre di quella politica e sociale non se ne vede alcuna
praticabile fisionomia. La stessa Carta di Nizza, che veniva inserita
come capitolo nel voluminoso testo, resta soltanto una solenne
dichiarazione senza effettiva connotazione normativa e fondativa di un
soggetto comune.
In questo contesto si inserisce la vicenda dell’attuazione negli
ordinamenti nazionali del mandato d’arresto europeo. Uno spazio politico
europeo non è dato solo da comuni istituzioni, ma dalla condivisione di
principi di libertà, di giustizia, di cooperazione sociale oltre che
economica. La cooperazione giudiziaria è parte essenziale della
costruzione di una identità politica europea. Ma, proprio il valore
attribuito a tale cooperazione richiede che si veda l’azione del
‘rendere giustizia’ come garanzia dei diritti di tutti e non la si
restringa alla mera funzione repressiva.
Partire dal mandato d’arresto è, quindi, un po’ partire dal punto
terminale: E tale perplessità era già stata formulata da alcuni quando
il provvedimento aveva subito una accelerazione in sede europea. Perché,
infatti, proprio di accelerazione si è trattato: il provvedimento ha
avuto una spinta in avanti sulla scia della tragedia dell’11 settembre
2001 e si è mosso in parallelo con quello volto a estendere gli
strumenti di lotta al terrorismo.
Ora, quando è in gioco la libertà personale, anche se all’interno di un
provvedimento necessario, le attenzioni e le garanzie non sono mai
troppe. Anche perché i normali strumenti di estradizione tra gli stati
membri dell’Unione, esistono, sono ben funzionanti e sono stati
semplificati in anni recenti. Laddove l’estradizione non si è avuta
sarebbe bene interrogarsi sul perché piuttosto cercare il modo per
vanificare l’ostacolo incontrato.
Il nuovo sistema dovrà essere – così si legge nelle sue premesse –
rapido e semplice. E considerazioni di rapidità e semplicità sembrano
aver dettato il testo che la Commissione giustizia della Camera ha
esaminato a fine novembre: di fatto un mero recepimento – così recita
anche il titolo – della decisione europea approvata a Laeken lo scorso
anno. All’opposto, cautela, ma anche sostanziale diffidenza verso i
propri partner europei, emerge dal testo che la Commissione ha poi
approvato e inviato alla discussione in aula. Anche il titolo è
cambiato: non più un mero recepimento, ma norme necessarie per
conformare il diritto interno alla decisione europea. Naturalmente,
essendo il primo un testo proposto dai democratici di sinistra e il
secondo il frutto della penna del presidente della Commissione, lo
scontro è stato declinato in linguaggio nostrano. Dirsi, quindi, a
favore di molti punti di cautela che sono stati introdotti rischia di
apparire fiancheggiatore di chi si suppone voglia concedere qualcosa
agli umori provinciali della Lega o tutelare qualcuno ben noto da
incursioni di magistrati europei.
Eppure per molti aspetti, il testo adottato pone delle condizioni
condivisibili e necessarie: che il mandato sia eseguito nel contesto del
rispetto dei principi e delle disposizioni della nostra Costituzione
nonché della tutela dei fondamentali diritti alla libertà e al processo
equo, garantiti dalla citata Convenzione europea. Ribadirle non vuol
dire tacciare gli attuali altri stati membri di iniquità o di
illiberalità; vuol dire piuttosto tutelare ogni persona anche in futuro
da ogni impropria applicazione, rapida, efficace, ma forse non troppo
attenta al valore della libertà personale. Del resto esso riprende
largamente un testo elaborato dall’Unione delle camere penali e
presentato da Rifondazione, teso a evitare che per i reati per i quali è
previsto il mandato europeo si attenui quel presupposto che il nostro
ordinamento prevede per la privazione della libertà: l’esistenza di
gravi elementi indiziari e di effettive temporanee esigenze cautelari.
L’elenco delle 32 aree di reati che un anno fa, a Laeken, venne
stabilito come area d’azione del mandato d’arresto europeo è già ampio:
da reati gravissimi fino al traffico di veicoli rubati, al
favoreggiamento dell’ingresso e del soggiorno illegali, alla
contraffazione di prodotti commerciali. Ma, ogni area può contenere
figure di reato diverse, frutto di specifiche cultura e tradizione. La
richiesta, quindi, che il singolo comportamento debba essere
specificatamente previsto come reato sia nel paese che chiede l’arresto
sia in quello che deve darne corso, è senz’altro un altro necessario
elemento di verifica. Tuttavia, proprio qui, nel definire le forme di
reato, anche il testo adottato abbandona la via cauta e, per esempio,
nel declinare il traffico degli stupefacenti, recita la sequela di verbi
– vendere, offrire, cedere, distribuire, commerciare, acquistare,
trasportare, esportare, importare, procurare – a cui ci ha abituato la
nostrana legislazione proibizionista.
Nella cautela e nella puntigliosità del testo approvato in Commissione,
alcuni hanno letto la volontà di impedire un’effettiva attuazione della
decisione quadro europea. I democratici di sinistra e i colleghi della
margherita hanno abbandonato la discussione. Certamente alcuni aspetti
vanno nella direzione dell’intralcio (procedure a tratti più restrittive
delle attuali), altri dell’esprimere sfiducia verso i propri partner
europei (stabilire se il provvedimento cautelare sia stato sottoscritto
o meno da un giudice indipendente, in sé supponendo che non sempre lo
siano), altri ancora nella consueta volontà di stabilire garanzie di
fatto tali solo per chi potrà avvalersi di una difesa forte (possibilità
di tirarla lunga fino all’esaurimento dei 120 giorni di tempo massimo,
dopo i quali la richiesta d’arresto decade).
Ma, questi aspetti possono essere rimossi in aula, accettando però il
principio che su un tema particolare quale è quello della libertà delle
persone, le garanzie sono essenziali. Esse non devono essere ostacoli né
poter essere lette come tali, perché sono elementi costitutivi
dell’esercizio di giustizia, non comprimibili quindi in base a uno
stravagante ‘concetto avanzato di giustizia’ che vede l’efficacia del
sistema solo nella capacità di assumere decisioni rapide.
Chissà se in aula sarà possibile una discussione meno piegata alla
politica interna.
OSSERVATORIO
PARLAMENTARE
a cura di Francesca D’Elia
Passo in avanti per la proposta di legge che introduce il reato di
tortura
La Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, in data 2 dicembre
2003, ha completato la definizione della proposta di legge che introduce
l'articolo 613-bis del codice penale (Delitto di tortura) e che
recepisce il trattato di New York firmato dal governo italiano il 10
dicembre 1984; la tortura, quindi, viene prevista come specifica
fattispecie di reato. In base al testo approvato dalla commissione
(composto da un unico articolo), il pubblico ufficiale o l'incaricato di
pubblico servizio che, con violenze o minacce gravi, infligge ad una
persona sottoposta alla sua autorità sofferenze fisiche o mentali per
ottenere informazioni o confessioni su un atto compiuto da essa, o da
terza persona sospettata, o per motivi di discriminazione razziale,
politica, religiosa o sessuale, è punito con la reclusione da uno a
dieci anni.
La pena è aumentata se ne deriva una lesione grave o gravissima, ed è
raddoppiata se ne deriva la morte. Non può essere assicurata - aggiunge
il secondo comma dello stesso articolo - l'immunità diplomatica a
cittadini stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per il
reato di tortura da un'autorità giudiziaria straniera o da un tribunale
internazionale.
E’ stata abbandonata la proposta del relatore (on. Mormino) tesa a
distinguere, a livello di pena, i casi di tortura finalizzati ad
ottenere, contro la libera volontà del soggetto, informazioni e
confessioni ed i casi di tortura determinati da qualsiasi forma di
discriminazione. Dunque, di fronte a condotte così gravi, si è mantenuta
l'equiparazione di pena fra le due fattispecie previste dal testo, pena
che deve essere adeguata alla gravità della condotta e delle conseguenze
per l'effetto di tale reato, indipendentemente dai motivi che hanno
determinato il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio ad
avere comportamenti sempre inaccettabili o inammissibili e che, in uno
Stato di diritto, debbono avere una adeguata sanzione penale.
Allo stato, il nuovo articolato è al parere delle Commissioni I, III e V
(Affari costituzionali, Affari Esteri e Bilancio) e a breve potrebbe
essere concluso l'iter referente della proposta per il successivo
passaggio in Aula. I gruppi An, Lega e Ds si sono opposti ad una rapida
approvazione del testo in sede di Commissione.
Novità dal
Difensore Civico Penitenziario: a Bari il Convegno Nazionale di Antigone
di Tilde Napoleone
Sabato 13 dicembre, in occasione della giornata internazionale sui
diritti umani, si è svolto a Bari il Convegno nazionale di Antigone: “
Per un difensore civico delle persone private della libertà”. Lo scopo,
espresso più volte in quella sede, è stato quello di proporre anche in
una città del sud l’istituzione a livello locale di questa figura di
mediazione tra amministrazione penitenziaria e persona privata della
libertà. Fino ad ora infatti le sperimentazioni sono partite in città
del centro nord, in particolare Roma e Firenze. A Torino e Miliano se ne
sta discutendo.
Erano presenti al convegno l’assessore alle politiche educative e
giovanili della città di Bari, Domenico Doria e il presidente della
Provincia Marcello Vernola. Quest’ultimo in particolare ha dichiarato il
proprio interesse a continuare una discussione sulla proposta
dell’associazione. Dopo i saluti istituzionali, il dibattito è partito
con una prolusione sui diritti umani di Enrico Calamai, portavoce
nazionale del Comitato per i Diritti Umani, e con l’introduzione di
Stefano Anastasia. Ruolo del Difensore Civico in carcere è quello di
mediare e di tentare di risolvere i conflitti che normalmente rimangono
irrisolti, non solo per mancanza di volontà, ma anche perché
l’amministrazione penitenziaria “non ce la fa da sola”.
Un’amministrazione intelligente dovrebbe considerare questa figura come
un modo utile per semplificare il proprio lavoro. Il Vice Capo del
Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Emilio Di Somma, ha
espresso le sue perplessità sull’istituzione di una figura in più
rispetto a quelle già presenti, che a suo parere, rischierebbe di
trasformarsi nell’ennesimo apparato burocratico con cui confrontarsi. Ha
suggerito quindi di studiare in modo più approfondito il ruolo e le
funzioni di un difensore civico a livello nazionale in modo da
scongiurare l’ipotesi di una burocratizzazione che non servirebbe a
semplificare il lavoro.
Visti i tempi dei tre disegni di legge pendenti in Parlamento (da
pochissimo è iniziata la discussione in Commissione Affari
Costituzionali dove è stato nominato un Comitato ristretto) e in attesa
che qualcosa si sblocchi, è nella dimensione locale che la figura del
Difensore civico può concretizzarsi subito. L’On Enrico Buemi, a cui si
deve la battaglia parlamentare degli ultimi mesi su un provvedimento di
clemenza, ha sollecitato tutte le forze politiche a portare avanti il
progetto. Proprio delle esperienze di Roma e Firenze si è parlato grazie
alla presenza dell’assessore del comune di Roma, Luigi Nieri, e
all’assessore di comune di Firenze Marzia Monciatti. E’ vero che in
mancanza di una legge nazionale il Difensore Civico comunale non
godrebbe di poteri molto incisivi, ma potrebbe comunque esercitare
quelle funzioni di mediazione, prevenzione, promozione, controllo,
difesa dei diritti umani fondamentali dei detenuti guardando all’interno
dell’istituzione comunale e all’interno di quella carceraria. Il
magistrato Michele Emiliano, possibile, auspicabile futuro candidato a
sindaco della città di Bari, da sempre attento al problema del carcere e
soprattutto dell’inserimento lavorativo di chi vuole uscire dal circolo
vizioso della devianza, ha accolto favorevolmente l’idea di un difensore
civico penitenziario a Bari; così anche l’avvocato Michele Laforgia che
ha risposto ai dubbi di Emilio Di Somma, invitandolo a riflettere sulle
zone grigie e i vuoti di tutela presenti nel mondo carcerario.
Sguardi diversi sono stati offerti da Livio Ferrari, presidente
Nazionale della Conferenza Volontariato Giustizia e da Don Angelo
Cassano, che ha descritto e denunciato la tragica realtà dei Centri di
permanenza temporanea per stranieri. Ha invitato con molta forza i
membri del parlamento lì presenti a muovere dei passi concreti per
modificare la legge sull’immigrazione e a chiudere al più presto i CPT.
In questa realtà, dice Don Angelo, il difensore civico non serve:
l’unica soluzione è l’immediata chiusura di questi non luoghi, dove
sono ristrette persone non per quello che hanno fatto, ma per quello che
sono.
Le conclusioni del convegno sono state affidate al professore Eligio
Resta che ha spiegato come il difensore civico sia l’anello mancante di
un sistema che si fida e affida troppo alle soluzioni giurisdizionali.
Presentato a
Barcellona il primo Rapporto sulle condizioni di detenzione in Catalunya,
a cura dell’Observatorio del Sistema Penal y los Derechos Humanos (OSPDH)
dell’Università di Barcellona.
di Susanna Marietti
Lo scorso ottobre è stato presentato a Barcellona il primo Rapporto
sulle condizioni di detenzione in Catalunya, a cura dell’Observatorio
del Sistema Penal y los Derechos Humanos (OSPDH) dell’Università di
Barcellona. L’OSPDH – che, insieme ad Antigone e ad altre realtà di vari
Paesi, è impegnato nel processo di costituzione dell’Osservatorio
Europeo del Sistema Penale e Penitenziario – è un centro di ricerca nato
nell’aprile del 2001 sotto la direzione di Inaki Rivera Beiras, con il
duplice obiettivo del monitoraggio delle istituzioni penitenziarie
spagnole e della promozione di una cultura penale incentrata sui diritti
umani.
Il Rapporto raccoglie i risultati di un’indagine portata avanti dall’OSPDH
lungo quasi un anno e mezzo di lavoro - dal gennaio del 2002 al giugno
2003 - e costituisce il primo prodotto di una linea di ricerca dell’Observatorio
segnatamente dedicata allo studio del sistema penitenziario catalano,
autonomo rispetto al resto della Spagna, dipendendo direttamente dalla
Generalitat (governo) di Catalunya. Finalità ultima di una tale linea di
ricerca è l’elaborazione di ulteriori informative che, sullo sfondo del
quadro disegnato da questo primo Rapporto Generale, si concentrino su
situazioni problematiche particolari, indicandone possibili politiche di
risoluzione. Come spiega infatti Rivera Beiras nella presentazione del
lavoro, la filosofia di fondo che ispira l’OSPDH è quella che vede
nell’istituzione carceraria, utilizzata quale strumento primario di
risoluzione dei conflitti sociali, qualcosa di essenzialmente non
migliorabile nella sua generalità, e strutturalmente impossibilitata a
produrre effetti positivi. Il Rapporto sottolinea fortemente la
distinzione tra problematiche intrinseche al sistema penitenziario e
problematiche circoscritte e in quanto tali mitigabili.
Da un punto di vista metodologico, la ricerca che ha portato alla
stesura del volume si è basata su fonti dirette nonché su fonti
documentali indirette. Tra queste ultime, materiale proveniente da
parziali informative già esistenti, a cura di altri soggetti politici o
sociali, e materiale statistico del Dipartimento della Giustizia della
Generalitat. Quanto alle fonti dirette, l’OSPDH ha lavorato su
questionari capillarmente distribuiti alla popolazione detenuta,
procedura che ha creato non pochi problemi al gruppo di ricerca,
costretto a denunciare con toni spesso risoluti l’ingiustificata difesa
dell’opacità dell’istituzione carceraria messa in atto dal governo
catalano soprattutto dopo il cambio di titolarità all’Amministrazione
Penitenziaria (2002).
Tra le 14 problematiche fondamentali dei centri penitenziari catalani
che sono emerse dal lavoro di indagine (e che vengono analizzate nella
sezione conclusiva del Rapporto), vi è in primo luogo la tendenza al
costante incremento della popolazione ristretta, che sempre più va
ponendo in pericolo la convivenza tra i detenuti, così come la grave
mancanza di personale penitenziario. Si osserva come conseguenza la
sempre maggiore difficoltà a portare avanti percorsi autentici di
trattamento, con l’inevitabile predominio della disciplina su quest’ultimo
e con ogni genere di effetto negativo del sistema punitivo-premiale. Dal
quadro generale, emerge che il sistema catalano viola ben sette diritti
fondamentali dell’uomo: il diritto a non subire torture o trattamenti
inumani o degradanti, il diritto alla tutela giudiziaria effettiva,
all’assistenza legale, all’intimità personale, al reinserimento sociale,
al lavoro remunerato, e lo stesso diritto alla vita.
Brevi
a cura di Nunzia Bossa
Da casa nostra
- Il 1° dicembre è stato siglato a Bologna un protocollo d'intesa tra
la Regione Emilia Romagna, il Provveditorato Regionale
dell'Amministrazione penitenziaria (PRAP) e la Conferenza Regionale
Volontariato Giustizia, protocollo che intende migliorare la
comunicazione fra volontari impegnati all'interno delle carceri,
operatori e agenti penitenziari, oltre a favorire l'ingresso dei
volontari della giustizia negli istituti e dare loro un ruolo più
stabile. Nel protocollo la CRVG viene riconosciuta come rappresentante
del frammentato mondo del volontariato penitenziario e soggetto di
riferimento per Regione e PRAP. Il protocollo prevede, inoltre, che la
CRVG sia punto di riferimento privilegiato per ricevere informazioni sul
carcere, sia da parte del Sistema Regionale Informativo sul carcere che
del PRAP.
- Iniziativa a Milano promossa dalla Lila e da numerose altre
associazioni che si occupano delle condizioni di vita dei detenuti per
chiedere al governo che sia garantito il diritto alla cura e
all'assistenza sanitaria e sia applicata con la massima estensione la
legge sull'incompatibilità tra Aids e stato di detenzione. I fondi già
insufficienti per la sanità in carcere, hanno visto una decurtazione
pari al 20%. La riduzione del personale sanitario e le forti limitazioni
alle visite specialistiche, a causa della scarsità di agenti per il
servizio di scorta, rendono oramai drammatica la situazione. La Lila e
le altre associazioni coinvolte nell’iniziativa, hanno fornito anche le
cifre sui detenuti italiani affetti da Hiv; si tratterebbe di 1375
persone, numeri 'sottostimati' secondo la stessa Amministrazione
Penitenziaria in quanto lo screening è volontario.
- Tutte le sigle sindacali della Polizia penitenziaria e del Corpo
forestale dello Stato sono scese in piazza il 4 dicembre scorso per
protestare davanti a Montecitorio contro la legge finanziaria 2004,
contro i tagli insostenibili all'assistenza sanitaria, alle attività di
trattamento e di reinserimento sociale, che, secondo i manifestanti,
hanno abbassato in maniera drastica la qualità della vita e del lavoro
in carcere.
- Il Comune di Roma ha presentato il progetto sperimentale "Kit delle 48
ore", un kit di prima necessità per aiutare le persone che escono dal
carcere ad affrontare i primi giorni di libertà. Il kit sarà distribuito
direttamente nell'istituto di pena al momento dell'uscita e conterrà 4
buoni pasto da 5,25 euro l'uno, 5 biglietti giornalieri Atac, una mappa
di Roma, una brochure sulla localizzazione dei centri di prima
accoglienza, numeri di telefono utili, una scheda telefonica Telecom da
5 euro, una maglietta di cotone, un kit per l'igiene personale, un porta
documenti ed un marsupio.
- A Spilamberto (Modena), un uomo di 28 anni si è autodenunciato ai
carabinieri, confessando di essere uno spacciatore di cocaina e
chiedendo di essere arrestato perché non ce la faceva più a convivere
con la moglie, preferendole il carcere. L'uomo ha consegnato gli
involucri di sostanze stupefacenti ai militari dell’Arma, pregandoli di
ammanettarlo e di portarlo in carcere. La mattina successiva, però, il
magistrato incaricato del suo caso lo ha rimandato a casa: dovrà
aspettare fino alla conclusione del processo per liberarsi della sua
dolce metà.
- Non c'e' pace per il carcere nuorese di Badu e Carros. Paolo Sanna, il
nuovo direttore nominato lo scorso novembre, il ventesimo in tre anni,
al suo arrivo nell'istituto di pena è stato colpito da infarto e
ricoverato d'urgenza. L'avvicendamento di venti direttori dall'aprile
del 2000, denunciano dal carcere, è la testimonianza di quale sia la
condizione penitenziaria sarda.
- A Palermo gli agenti di polizia penitenziaria una bella mattina di
dicembre hanno aperto la cella di un uomo processato per omicidio ed
assolto dalla Corte d’Assise la sera prima. Grande è stata la sorpresa
dell’interessato, visto che intanto era detenuto per un’altra serie di
reati, e vani sono stati i suoi tentativi di convincere gli agenti che
si trattava di un errore. Una volta fuori dal carcere, il signor Tutone
si è rivolto al suo avvocato, il quale ha avvertito immediatamente la
procura della Repubblica dell'errore commesso. I magistrati hanno infine
disposto il ritorno in carcere dell’onestissimo ospite dell’Ucciardone.
- La Corte europea dei diritti umani ha condannato l'Italia su denuncia
di un ex-detenuto rimasto in carcere 15 mesi di troppo a causa di un
errore di calcolo dei termini della pena. La Corte ha concesso a Luigi
Pezone un indennizzo pari a 35.000 euro e ha ritenuto l'Italia colpevole
di violazione dell'articolo 5 della convenzione europea dei diritti
umani (diritto alla libertà ed alla sicurezza).
Dal mondo
- La corte suprema israeliana ha ordinato al governo dello Stato ebraico
di rilasciare informazioni esaustive su una prigione militare tenuta
segreta in cui sarebbero rinchiusi detenuti ‘ad alto rischio’. Il
governo israeliano ha ammesso solo di recente l'esistenza di 'Facility
1391', centro militare di detenzione definito la "Guantanamo Bay di
Israele". Secondo quanto comunicato, i prigionieri che vi sono reclusi
non conoscono l'ubicazione del carcere e non possono incontrare parenti
o avvocati. Il governo israeliano ha fatto sapere che i detenuti
potrebbero ricevere presto i propri legali, ma che l'ubicazione della
base costituisce un segreto militare. I tre giudici incaricati del caso
hanno concesso al rappresentante delle autorità governative 45 giorni di
tempo per ribattere alla accuse avanzate dal gruppo umanitario
israeliano, secondo cui le attività svolte per anni entro la 'Facility
1391' sono in contrasto con il diritto internazionale.
- Ad un uomo di colore di 150 kg, Nathaniel Jones, non è servita la sua
stazza per difendersi dalle violenze degli agenti che lo hanno
arrestato. L’uomo è, infatti, morto in un carcere di Cincinnati negli
Stati Uniti, in seguito alle percosse dei poliziotti che lo hanno
arrestato nel parcheggio di un fast-food. Questo è quanto affermato dal
medico legale del Coroner incaricato di eseguire l'autopsia. Una
telecamera di servizio del fast-food ha ripreso il momento dell'arresto,
nelle immagini sono ben visibili i poliziotti che colpiscono
ripetutamente l’uomo a manganellate.
- Un tribunale vietnamita ha condannato a morte una donna. Thi Kim Oanh,
accusata di appropriazione indebita di denaro ai danni dello Stato. I
due ex vice-ministri dell'agricoltura coinvolti nella vicenda sono stati
condannati a tre anni di carcere. In questo caso, dire ‘due pesi e due
misure’ è un eufemismo.
- Caos, invece, per la pena di morte in America: tre esecuzioni sono
saltate una dopo l'altra in Texas per insolite titubanze dei giudici.
Nel carcere di Huntsville erano attese cinque esecuzioni di fine anno:
due sono avvenute all' inizio di dicembre, ma le tre in programma subito
dopo sono saltate e il Texas chiuderà il 2003 con 24 sentenze eseguite,
uno dei livelli più bassi degli ultimi anni.
- Più in generale, la fotografia che il 2003 offre della pena di morte
negli Usa, racconta un paese che forse comincia a riflettere
sull'utilità del sistema nei singoli stati e nei tribunali, anche se non
ancora a livello nazionale. Il bilancio di fine anno è affidato ad un
rapporto del Death Penalty Information Center (Dpic), un osservatorio
sulla pena di morte attivo ormai da anni. Le condanne alla pena capitale
sono in netto calo, gli indici sono in discesa dal 1998 e quest’anno
sono ai minimi storici dal 1976, anno di reintroduzione della pena di
morte negli Usa (139 nel 2003 contro le 159 del 2002); i casi di
innocenti nel braccio della morte aumentano (nel 2003 sono stati 10 i
casi di persone scagionate mentre attendevano la morte; 100 i possibili
'dead men walking' che si sono rivelati vittime di errori giudiziari
dagli anni '70 in poi) e l'opinione pubblica si interroga. Le esecuzioni
nel 2003 sono state 65 contro le 71 del 2002. Soltanto quattro anni fa,
nel 1999, erano state giustiziate 98 persone negli Usa e il declino, da
allora, è del 30%. In America ci sono attualmente circa 3.500 persone in
attesa di morire per mano della giustizia, con un calo del 5% rispetto
all'anno precedente. Quanto ai metodi di esecuzione, le iniezioni letali
sono ormai la norma: una sola persona e' morta quest'anno sulla sedia
elettrica, in Virginia. Intanto, però, nuove ricerche hanno messo in
discussione anche la presunta 'umanità' del metodo del cocktail letale,
sostenendo che il condannato in realtà soffre prima di morire, anche se
non lo mostra perché paralizzato.
- Crimini di guerra. Il Tribunale Internazionale per i Crimini di Guerra
nella ex-Jugoslavia ha condannato il serbo-bosniaco Momir Nikolic a 27
anni di carcere per la sua partecipazione al massacro di Srebrenica
nell’estate del 1995. Nikolic, al tempo n. 2 dei servizi di sicurezza e
di intelligence dell'esercito serbo-bosniaco agli ordini di Ratko Mladic,
è stato il primo ufficiale ad ammettere le sue responsabilità per il
peggior massacro avvenuto in terra europea dopo la fine della II Guerra
Mondiale. Il Tribunale Internazionale per i crimini di guerra commessi
in Ruanda, invece, ha condannato due persone all'ergastolo, si tratta
di Ferdinand Nahimana, uno dei fondatori della famigerata "Radio
Televisione Libera Mille Colline" (RTLM), che apertamente istigava al
massacro dei tutsi e dell'ex editore di una rivista, Hassan Ngeze,
mentre un altro dei dirigenti di RTLM è stato condannato a 35 anni. Per
tutti l’accusa era di istigazione al genocidio per mezzo dei media.
Nella primavera del 1994 furono sterminate in Ruanda più di 800.000
persone.
- Rivolte in carcere. Un agente penitenziario è stato ucciso e altri due
sono rimasti feriti gravemente durante una rivolta nel carcere di
massima sicurezza 'Bangù 3', a Rio de Janeiro. La ribellione dei circa
800 detenuti è cominciata con una sparatoria tra rivoltosi e guardie.
Una ventina di persone, tra cui quattro agenti, sono state prese in
ostaggio dai detenuti. Almeno 20 detenuti sono rimasti feriti nel corso
di una sommossa in un carcere di Baker, gestito da una compagnia
privata, 260 chilometri a nordest di Los Angeles, in California. Circa
un centinaio di detenuti sono stati coinvolti nelle violenze. Sette
detenuti sono riusciti a fuggire da un carcere messicano durante un
tentativo di rivolta sedato nel sangue dai tiratori scelti della
polizia che hanno ucciso un prigioniero e ne hanno feriti altri sette.
La sommossa si è verificata nel carcere di Sinaloa, nel Messico
settentrionale. Durante i disordini 11 detenuti sono riusciti ad
evadere, ma quattro sono stati ripresi poco dopo dagli agenti.
- Senza troppo clamore, invece, sedici detenuti sono evasi da un carcere
ecuadoregno con uno dei metodi più classici: scavando una galleria. Gli
ingegnosi detenuti sono fuggiti dal principale carcere di Quito, Garcia
Moreno, attraverso una galleria lunga circa 25 metri, alta in media 70
centimetri e…illuminata da luce elettrica! Secondo la polizia, ci sono
voluti probabilmente quattro mesi per scavare il tunnel, si erano
organizzati proprio per bene…
- Qui Guantanamo
· Una squadra di avvocati era stata ingaggiata dal ministero della
Difesa Usa per difendere i detenuti del carcere di Guantanamo in attesa
di processo. La suddetta squadra, però, è stata fulmineamente licenziata
dallo stesso Pentagono dopo che i legali avevano sollevato obiezioni
sull'impossibilità di approntare una difesa adeguata, a causa delle
attuali norme che regolano lo status dei prigionieri. Gli avvocati
licenziati hanno denunciato l'assurdità da parte del Pentagono di voler
applicare norme risalenti alla seconda guerra mondiale, ritenendole “un
insulto all'evoluzione del sistema giudiziario militare".
· Il 18 dicembre la Corte di Appello di San Francisco, considerata una
delle più progressiste degli Usa, ha deciso, seppure non all’unanimità,
che prigionieri di Guantanamo hanno diritto ad un avvocato e ad un
regolare processo in corti di giustizia degli Usa. La detenzione a tempo
indeterminato dei prigionieri di Guantanamo è contraria agli ideali
dell'America, e mica solo a quelli, aggiungiamo noi… |