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XV rapporto sulle condizioni di detenzione

I poli universitari in carcere

I poli universitari in carcere

I poli universitari in carcere

1024 561 XV rapporto sulle condizioni di detenzione

Franco Prina

1)I contenuti di questo contributo riprendono e sintetizzano, aggiornando i dati, un mio precedente scritto: “I Poli universitari penitenziari in Italia. L’impegno delle università per il diritto allo studio dei detenuti” in V. Friso, L. Decembrotto (a cura di), Università e carcere. Il diritto allo studio tra vincoli e progettualità, Edizioni Guerini, Milano, 2018.

 

Il diritto dei detenuti agli studi universitari: l’esperienza dei Poli universitari penitenziari in Italia.

Sono 796 gli studenti universitari in carcere, iscritti in 30 Università. Il 25% studia discipline politico-sociologiche

“Il rimborso delle spese sostenute per tasse, contributi e libri, non risulta mai applicata, né qualche detenuto studente ha mai ricevuto il previsto premio di rendimento”

Il Diritto allo studio universitario “sulla carta”
Come per ogni aspetto della vita carceraria, non mancano norme che, “sulla carta” affermano tra i diritti dei detenuti anche quello di perseguire gli studi, a diversi livelli, dunque anche universitari.
I principali richiami a tale diritto si collocano nel contesto della riforma dell’ordinamento carcerario che aprì, nel 1975, gli istituti, se così si può dire, alla logica e ai discorsi – ancorché non al loro effettivo riconoscimento – dei diritti. Qui come in altri testi successivi, le formule utilizzate non sono così nette come l’affermazione di un vero e proprio “diritto” richiederebbe. All’art. 19 della legge 26 luglio 1975, n. 354 si afferma: “È agevolato il compimento degli studi dei corsi universitari ed equiparati”. Una agevolazione (assimilabile a un favore o a una concessione) che è cosa ben diversa dall’affermazione di un diritto pienamente esigibile.
Un po’ più diffusamente la questione è affrontata con il DPR 29 aprile 1976, n. 431 (Regolamento di esecuzione della l. 26 luglio 1975, numero 354) che dedica agli studi universitari due articoli, (il 42 e il 44) in cui si ribadisce il principio dell’agevolazione per il compimento degli studi attraverso “opportune intese con le autorità accademiche per consentire agli studenti di usufruire di ogni possibile aiuto e di sostenere gli esami” e si afferma che gli studenti possono essere esonerati dal lavoro, a loro richiesta, e che vengono rimborsate loro le spese sostenute per tasse, contributi scolastici e libri di testo e viene corrisposto “un premio di rendimento nella misura stabilita dal Ministero”.
Negli anni successivi, anche sulla base degli accordi sollecitati dal citato art. 42, si avviano in Italia molte esperienze in differenti istituti attraverso l’impegno di un numero crescente di Università. Ma poco cambia sul piano normativo quando, con il DPR 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) si modifica quello del 1976. L’articolo 44 riproduce il precedente 42, salvo l’aggiunta di un comma che pone l’attenzione sull’esigenza di garantire alcune condizioni che rendano più facile l’impegno per lo studio: “I detenuti e internati, studenti universitari, sono assegnati, ove possibile, in camere e reparti adeguati allo svolgimento dello studio, rendendo, inoltre, disponibili per loro, appositi locali comuni. Gli studenti possono essere autorizzati a tenere nella propria camera e negli altri locali di studio, i libri, le pubblicazioni e tutti gli strumenti didattici necessari al loro studio.
La lettura di questi articoli consente di sostenere che la questione entra sì nell’orizzonte del legislatore e del governo, ma in termini di possibili agevolazioni che saranno l’amministrazione penitenziaria e le direzioni dei singoli istituti a definire in termini concreti. Anche l’ultimo comma dell’articolo 44 sopra citato è, al proposito, indicativo: l’assegnazione dei detenuti studenti in camere e reparti adeguati e la messa a disposizione di locali comuni avviene “ove possibile”, così come “possono” essere autorizzati a tenere con sé quanto necessario per lo studio. Nessun reale dovere è in capo ai responsabili degli istituti. E questo sia per le situazioni dei detenuti “comuni”, sia, a maggior ragione, per quei detenuti che, nel tempo e in virtù di specifiche normative riguardanti le loro condizioni, si sono ritrovati in sezioni connotate da esigenze di maggiore controllo (come i vari reparti per “protetti”, “incolumi”, collaboratori di giustizia) o da assoluto rigore rispetto ai contatti con l’esterno (in modo particolare, i reclusi nei circuiti dell’alta sicurezza o in 41 bis) che pure spesso sono interessati allo studio universitario.
A questo merita aggiungere che l’unica disposizione formulata in termini indicativi, subordinata solamente all’impegno a superare gli esami e al versare in condizioni economiche disagiate, ovvero il rimborso delle spese sostenute per tasse, contributi e libri, non risulta mai applicata, né qualche detenuto studente ha mai ricevuto il previsto premio di rendimento.
Sul piano delle norme di diritto positivo in vigore, questo è praticamente tutto.
Negli anni più recenti, la questione del diritto allo studio universitario è tornata ad affacciarsi, purtroppo rimanendo sul piano delle ottime elaborazioni e delle pregevoli intenzioni, nei lavori degli Stati Generali sull’esecuzione penale che, nei loro documenti e nelle loro proposte, ne hanno ripreso il senso. Intanto affermando chiaramente che si doveva entrare in una ottica diversa, quella appunto di considerare lo studio un diritto, e prospettando alcune condizioni per renderlo effettivo: “l’istruzione e la formazione professionale sono da considerare come diritti ‘permanenti e irrinunciabili’ della persona, nell’ottica di un processo di conoscenze e di consapevolezze che accompagna il soggetto per tutta la sua esistenza.”.
Sappiamo che l’amplissimo orizzonte di riforme che dai documenti elaborati dagli Stati generali avrebbero dovuto trarre alimento si è tradotto in ben poca cosa. Così non stupisce che nei Decreti legislativi di riforma dell’ordinamento penitenziario approvati il 27 settembre 2018, poco cambi dell’impostazione del quarto comma dell’art. 19 della legge 26 luglio 1975, n. 354, che ribadisce come siano agevolati la frequenza e il compimento degli studi universitari e tecnici superiori, anche attraverso convenzioni e protocolli d’intesa con istituzioni universitarie. Il termine “agevolazione” resta intatto, mentre non compare alcun riferimento al diritto. Solo aspetto interessante la modifica dell’art. 42 che riguarda i trasferimenti, in cui si prospettano due cose importanti: da un lato, l’esigenza di considerare lo studio (dunque anche la non interruzione di percorsi universitari avviati), tra i criteri da considerare per la disposizione di trasferimenti. Dall’altro, la necessità di dare risposta entro termini ragionevoli, alle richieste di trasferimento per motivi di studio, ad esempio per poter frequentare un corso di laurea in una università che offra questa opportunità ai detenuti che si trovano in un determinato carcere.

 Il panorama nazionale attuale: 800 circa gli studenti universitari in carcere
Il ragionare di studio come diritto ha fondamento nel principio che la privazione della libertà disposta come sanzione in base al codice penale per determinati atti, non può implicare la compressione di altri diritti. E tuttavia, per questo come per altri, il riconoscimento si fonda su affermazioni normative non certamente imperative, tali cioè da configurare una omissione in capo a responsabili delle istituzioni universitarie o penitenziarie qualora non sia garantito. Di conseguenza possiamo dire che non è mai stata formulata, in questo campo, una “politica” che definisse a livello nazionale e per tutti coloro che si trovassero nelle condizioni di voler esercitare tale diritto, condizioni, impegni e risorse indispensabili allo scopo.
Di fatto la storia di ciascuno dei Poli o comunque degli impegni delle Università negli istituti penitenziari è storia – spesso casuale – di un incontro tra tre interessi e volontà: gli interessi esplicitati da detenuti o rappresentati alle Università da parte di chi è in contatto con loro (avvocati, volontari, parenti); le sensibilità e volontà di singoli docenti o gruppi di docenti (Facoltà, Dipartimenti); le disponibilità di Direzioni e responsabili PRAP a favorire l’incontro tra detenuti e università e, in alcuni casi, a creare le condizioni per “agevolare” il compimento degli studi dei detenuti interessati.
Tutte le esperienze nate negli anni paiono sempre espressione delle specificità (e dunque casualità) di questo “incontro”. In questo senso, le attività e gli impegni che concretizzano il diritto allo studio non si differenziano da quanto succede per tante altre opportunità (lavoro, teatro, formazione, iniziative culturali, ecc.) offerte a una parte, minoritaria, dei detenuti.
La possibilità di esercitare il diritto allo studio universitario non è data a tutti coloro che sarebbero nelle condizioni di esercitarlo e avrebbero l’interesse a farlo. Dipende dal carcere nel quale ci si trova, dalla capacità di attivazione presso le amministrazioni e le strutture didattiche universitarie di chi è in contatto con il detenuto interessato, dall’interesse e sensibilità di alcuni docenti. Per questo molte aree (intere regioni) e molti istituti penitenziari non offrono, almeno al momento, questa opportunità. Non essendo questo né un impegno normativamente regolato sul versante delle Università, né un vero e proprio diritto esigibile in maniera incondizionata.
E anche laddove si sono sviluppate le varie esperienze, esse paiono al momento piuttosto differenziate, risentendo delle condizioni particolari di ogni istituto, del tipo di popolazione detenuta, delle modalità di esercizio della leadership, del clima interno, dei rapporti tra area trattamentale e area della sicurezza, delle condizioni strutturali e di affollamento, ecc. Ma anche del diverso grado di coinvolgimento e investimento dei singoli Atenei a supporto delle disponibilità e dell’impegno di singoli o gruppi di docenti.
È proprio questo panorama articolato e localmente connotato, che emerge dal confronto permanente in seno alla Conferenza nazionale dei Delegati dei Rettori per i poli universitari penitenziari (la CNUPP). Ma un panorama di cui per la prima volta si ha piena consapevolezza, essendo stati raccolti una serie di dati importanti riferiti all’anno accademico 2018/19.
La Conferenza nazionale raggruppa al momento 30 Università che sono presenti, in modi e con gradi di intensità variabili relativamente a numero di studenti e attività didattiche realizzate, in 70 istituti penitenziari (di tipi diversi). La distribuzione sul territorio di Università e carceri è piuttosto ampia, anche se, come si può vedere dalle figure e tabelle che seguono, vi sono alcune regioni, in cui l’incontro tra Università e carcere non si è (ancora) concretizzato.

Nell’anno accademico 2018/19 sono, complessivamente, circa 800 gli studenti iscritti. In prevalenza detenuti, ma non mancano persone in esecuzione penale esterna che in genere hanno intrapreso gli studi in carcere e li proseguono nel momento di ottenimento di benefici (a volte essendo la prosecuzione degli studi elemento importante del programma sottoposto alla valutazione del Magistrato di sorveglianza).

Ecco i dati che mostrano una suddivisione per sesso, per circuito penitenziario e tra popolazione detenute e in area penale esterna.

Studenti iscritti detenuti e in area penale esterna

Fonte: nostra elaborazione dati CNUPP

Università Totale Detenuti Iscritti Donne detenute iscritti Iscritti in regimi speciali
(AS, 41 bis)
Totale Iscritti in Esecuzione Penale Esterna Donne in area Esecuzione Penale Esterna TOTALE
Tot. 743 26 223 53 2 796

Dal censimento, gli studenti detenuti sono iscritti a molti e diversi corsi di studio, con una distribuzione tra le principali aree come si vede nella figura che segue.

Percentuale studenti iscritti per principali Aree disciplinari

Fonte: nostra elaborazione dati CNUPP

Area %
Discipline politico- sociologiche 25,6
Discipline umanistiche (lettere, beni culturali, DAMS, lingue e letterature) 18,6
Discipline giuridiche 15,8
Discipline delle scienze naturali, dell’agricoltura, dell’alimentazione, ecc. 9,8
Discipline storiche e filosofiche 9,2
Discipline psicologiche e pedagogiche 6,1
Discipline economiche 5,9
Varie dell’area scientifica (matematica, informatica ingegneria, urbanistica) 5,7
Altri 3,3
Totale 100

Fonte: Rielaborazione dati CNUPP

“Certamente per una parte dei detenuti la frequenza di un corso universitario significa esercitare un diritto, a volte rivendicandone l’effettività, a partire da una consapevolezza che può essere preesistente al momento della reclusione o maturare in carcere nel dialogo con avvocati, personale educativo, volontari, altri detenuti”

Il senso dell’impegno delle Università in carcere
Il confronto tra i responsabili delle Università riunite nella CNUPP ha consentito di evidenziare come diversi possono essere i significati che riveste per l’università l’impegno nelle istituzioni detentive e in rapporto alle condizioni di privazione della libertà.
Vi è in primo luogo il riconoscimento che anche in questo modo le università adempiono a un proprio dovere imprescindibile: garantire a tutti coloro che lo desiderano e ne hanno i requisiti la possibilità di esercitare il diritto allo studio. Garantire a tutti significa impegnarsi a facilitare, attraverso apposite misure e agevolazioni, l’esercizio di questo diritto anche per chi si trova in condizioni particolari, dando opportunità – con il solo limite di alcune condizioni strutturali che non si possono realizzare (ad esempio laboratori altamente specializzati o tirocini) – di perseguire tutti gli interessi di studio e formazione. Si può definire questo come un impegno che pienamente rientra nella “prima missione” di ogni ateneo, quella didattica, che per questi studenti semmai richiederà una attenzione e modalità organizzative particolari per rendere loro possibile di fruire al meglio delle opportunità didattiche e formative. Non è compito delle Università proporsi obiettivi di “rieducazione”, confondendo le valutazioni sul rendimento negli studi con valutazioni di ordine più generale (che pure potranno tenerne conto) sull’adattamento del detenuto alle istanze istituzionali.
Naturalmente l’impegno nello studio e il successo in un percorso accademico può anche avere un risvolto sul piano “trattamentale”. Può creare cioè i presupposti di crescita culturale della persona, di rielaborazione delle difficoltà e dei problemi che lo hanno portato in carcere. Può, si spera, aprire opportunità maggiori una volta sia rimesso in libertà. E ciò non può che essere motivo di soddisfazione, come lo è per i tanti che transitano “normalmente” nelle aule delle università, senza che questo abbia senso diverso da quello costitutivo della missione di insegnamento e di formazione.
Oltre a questo tipo di impegno, che rappresenta il cuore delle esperienze dei Poli, molte Università hanno perseguito anche altri obiettivi connessi alla didattica e alla ricerca:
– l’offerta di occasioni di formazione per gli studenti “liberi” che affrontano nei vari percorsi di studio le tematiche del carcere e della pena sotto il profilo sociologico, psicologico, giuridico, politologico, storico, ecc. attraverso forme di didattica alternativa a quella tradizionale che includono la conoscenza diretta e il contatto con l’istituzione penitenziaria (lezioni o corsi in carcere per studenti interni ed esterni, esperienze delle cliniche legali su diritti dei detenuti, tirocini, ecc.);
– lo sviluppo di una specifica attenzione per un contesto (quello carcerario) e due problematiche (quelle della delinquenza e delle devianza) importanti per la società, facendone oggetto di studi e ricerche scientifiche, sotto differenti prospettive disciplinari, esercitando così il proprio ruolo di riflessione critica sulla penalità e sulle istituzioni che la gestiscono.
Nella Terza Missione dell’Università rientrano, come forma di public engagement:
– la disponibilità del personale universitario a contribuire, attraverso iniziative come incontri, conferenze, dibattiti, per i detenuti anche non iscritti all’università, alla loro crescita culturale e alla possibilità di comprensione di aspetti diversi della società, delle scienze, della cultura, consentendo loro di mantenere aperta una “finestra sul mondo”, evitando così che il tempo in carcere sia un tempo “sospeso”, vuoto, rispetto a quanto succede intorno ad esso;
– l’offerta di opportunità di formazione o di aggiornamento per chi in carcere lavora incluse quelle realtà e istituzioni che a vario titolo vi operano (personale di servizi pubblici e privati, associazioni di volontariato, Garanti territoriali, ecc.).

Il senso dello studio universitario nella prospettiva dei detenuti
Quanto ai detenuti, l’esperienza dello studio universitario, così come emerge dai confronti tra responsabili e docenti impegnati in carcere, può assumere diversi significati, a volte definiti, riconosciuti e affermati chiaramente dagli individui, a volte evidenziabili nel dialogo e nella osservazione della situazione carceraria. Spesso uno o l’altro sono prevalenti per il singolo, ma non raramente sono compresenti in forme intrecciate.
Certamente per una parte dei detenuti la frequenza di un corso universitario significa esercitare un diritto, a volte rivendicandone l’effettività, a partire da una consapevolezza che può essere preesistente al momento della reclusione o maturare in carcere nel dialogo con avvocati, personale educativo, volontari, altri detenuti. Ovviamente in modo più facile se in precedenza si era già intrapreso un percorso di studi.
Per molti – forse la maggioranza – studiare in maniera organizzata e sistematica ha il significato di dare un senso a una esperienza difficile e particolare nel proprio percorso esistenziale come quella del carcere: nello studio e nella cultura molti trovano una opportunità di riflessione sulla propria vita e sulle vicende e condizioni che li hanno portati in carcere. Ma anche sul mondo, sulla società, sulle condizioni di vita delle altre persone, sui valori, sui diritti, acquisendo o integrando il proprio “capitale culturale”.
Insieme va certamente riconosciuto che lo studio e il percorso che porta ad una laurea universitaria può essere considerato importante per prospettarsi un futuro, ciò che verrà dopo il carcere: per prepararsi cioè ad affrontare con più strumenti culturali, con maggiori conoscenze, con un titolo almeno in alcuni casi spendibile, le sfide non facili che si aprono a chi quella esperienza ha fatto. Non solo per il valore che possono avere un titolo di studio e le competenze acquisite, ma perché l’individuo potrà “rappresentare” al mondo (alla sua famiglia, a chi lo conosce, a chi può offrirgli opportunità di lavoro, ecc.) una immagine di sé altra da quella che accompagna tutti gli ex detenuti.
Infine, non si può ignorare il ruolo che l’accesso a questa opportunità (al pari dell’accesso ad altre, per definizione sempre scarse) riveste ai fini di “farsi meglio la galera”. Per vivere cioè la detenzione in condizioni meno difficili, in particolare laddove è prevista la costituzione di sezioni in cui è favorito lo studio universitario e in cui la vita quotidiana e la qualità delle relazioni tra gli stessi detenuti e con lo staff, anche per i tanti scambi con l’esterno, sono in genere di gran lunga migliori di quelle che si determinano nelle sezioni “normali” di tante carceri.

Le proposte della CNUPP al sistema universitario e all’amministrazione penitenziaria
La costituzione formale di un organismo di coordinamento ufficiale degli Atenei che hanno impegni nelle carceri, oltre a garantire possibilità di confronto, ha il senso di rappresentare in modo unitario le esigenze e le istanze che da quel confronto emergono ai due “sistemi” che sono implicati: il sistema universitario e i singoli Atenei, da un lato; il sistema dell’amministrazione penitenziaria, a livello centrale e nelle sue articolazioni locali, dall’altro.

  1. Molte sono le questioni che si pongono allo stesso sistema universitario e, in particolare ai singoli Atenei, affinché si concretizzi, dal punto di vista di chi gestisce l’offerta formativa, il diritto allo studio dei detenuti.
    In primo luogo si pone il problema dell’estensione della rete dei Poli Universitari, attraverso il coinvolgimento degli Atenei non ancora impegnati ad offrire opportunità a studenti detenuti, con particolare riferimento alle regioni in cui non ve ne sono, al fine di assicurare almeno un Polo per regione. La sensibilizzazione dei Rettori e il coinvolgimento di nuclei di docenti interessati e sensibili è condizione necessaria, insieme alla creazione delle occasioni di quell’incontro con i bisogni e le istanze dei detenuti – all’origine delle esperienze esistenti – che può essere favorito dal dialogo con l’amministrazione penitenziaria, con operatori (ad esempio scolastici) o volontari presenti nei singoli istituti, con i Garanti dei diritti dei detenuti che operano a livello territoriale.
    In secondo luogo occorre definire, in ogni Università, alcune condizioni omogenee di funzionamento dei singoli Poli (figura del Delegato del Rettore per il diritto allo studio delle persone private della libertà, referente amministrativo, responsabili per la didattica a livello di dipartimenti, tutor dedicati, fornitura di libri, materiale didattico, computer, sostegno al diritto allo studio). Di particolare rilevanza l’impegno per il sostegno al completamento dei percorsi di studio in caso di accesso dei detenuti a misure alternative, in esecuzione penale esterna o giunti alla scarcerazione per fine pena e gli accordi tra università per facilitare i passaggi in caso di trasferimenti tra carceri.
    Infine è necessario che si definiscano ovunque adeguate e omogenee forme di convenzionamento tra le Università e gli istituti penitenziari con il coinvolgimento dei Provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria (PRAP) e degli Uffici esecuzione penale esterna (UEPE).
  2. Quest’ultima questione implica ovviamente lo sviluppo di un dialogo con il secondo “sistema” di cui è interlocutore la Conferenza: l’amministrazione penitenziaria centrale (il DAP). In questo dialogo la CNUPP afferma il principio che il diritto allo studio va riconosciuto a tutti coloro che intendono esercitarlo. E questo al di fuori delle logiche premiali (può esercitarlo solo chi si comporta in modi adeguati, a partire dal giudizio dello staff delle carceri), né può essere condizionato dalle specificità dei detenuti: dunque va affermato anche per le donne e i detenuti/e presenti in circuiti diversi, come l’Alta Sicurezza o il 41bis.

Di questa affermazione sono corollario il riconoscimento della possibilità di collocamento di detenuti che ne facciano richiesta in specifici istituti, motivati dall’interesse a percorsi universitari offerti da determinati Atenei (fatta salva la considerazione delle caratteristiche formali dell’istituzione e della popolazione detenuta che può, per norma, accogliere) e la garanzia di continuità dei percorsi di studio, con limitazione dei trasferimenti non indispensabili o richiesti dagli stessi detenuti.
Sul piano delle condizioni che favoriscano lo studio e l’esercizio delle attività didattiche e di tutoraggio da parte delle Università, diverse sono le richieste formulate all’Amministrazione: l’idonea sistemazione degli studenti in sezioni dedicate o comunque in contesti favorenti le attività di studio e i rapporti con i docenti, la garanzia di spazi adeguati per la didattica e dell’accesso degli studenti a biblioteche o altri strumenti didattici, la garanzia dell’accesso e della presenza di docenti, tutor, altro personale (anche amministrativo).
Decisiva rilevanza assume in questo periodo e per il futuro l’estensione a tutti i Poli dei collegamenti internet (oggi presenti in misura limitata e con condizioni particolari solo in alcune esperienze) che rendano possibile l’accesso ai siti delle Università. L’importanza di questo aspetto è evidente: reperimento di tutte le informazioni sui corsi di studio e sui programmi degli insegnamenti, possibilità di gestire la propria carriera di studente, fruizione degli insegnamenti a distanza e delle varie forme di didattica on-line, accesso a risorse informatiche utili allo studio e alle tesi, contatti tramite collegamenti audio-video con docenti, modalità più facile di svolgimento di prove ed esami, ecc.

“La presenza dell’Università si è rivelata peraltro molto importante per una funzione di “traino” rispetto all’attenzione agli altri diritti e per il miglioramento del clima che si viene a determinare quando si favoriscono iniziative culturali e si apre l’istituzione a esperienze e incontri, non solo riservate ai detenuti studenti”

Poli universitari penitenziari ma non solo
L’impegno delle Università per garantire il diritto allo studio a una parte (limitata e di fatto con più strumenti e risorse personali) di detenuti non deve essere “alibi” per il sistema penitenziario nel suo complesso. Non può essere una “eccellenza” che oscura le quotidiane “emergenze” o ancora più ampiamente la “normalità” della condizione carceraria della stragrande maggioranza di persone senza i diritti che pure, formalmente, sono loro garantiti.
La presenza dell’Università si è rivelata peraltro molto importante per una funzione di “traino” rispetto all’attenzione agli altri diritti e per il miglioramento del clima che si viene a determinare quando si favoriscono iniziative culturali e si apre l’istituzione a esperienze e incontri, non solo riservate ai detenuti studenti.
Ma l’Università, come istituzione chiamata sempre a contribuire alla crescita culturale del Paese, ha il dovere – sui temi e le questioni che riguardano la penalità e le istituzioni che la amministrano – di riflettere, fare ricerca, produrre un pensiero critico. Elaborare e proporre cioè letture e interpretazioni che tengano conto sempre della complessità, contro ogni riduzionismo e semplificazione alimentati dal senso comune, oggi più che mai diffusi, affinché maturino linguaggi e approcci appropriati nel definire e trattare temi e situazioni di persone riconosciute colpevoli di crimini e reati, qualunque essi siano.

References   [ + ]

1. I contenuti di questo contributo riprendono e sintetizzano, aggiornando i dati, un mio precedente scritto: “I Poli universitari penitenziari in Italia. L’impegno delle università per il diritto allo studio dei detenuti” in V. Friso, L. Decembrotto (a cura di), Università e carcere. Il diritto allo studio tra vincoli e progettualità, Edizioni Guerini, Milano, 2018.