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Giappone, il boia uccide a sorpresa


Sembrava che con l'intensificarsi della campagna abolizionista, le pressioni del Consiglio d'Europa (che minaccia di revocargli lo status di paese "osservatore") e la nomina, di una donna alla carica di ministro della Giustizia, il Giappone avesse imboccato la via della civiltà e della riflessione, della moratoria di fatto, dell'avvio di un serio dibattito sulla pena di morte. E invece no. Puntuale e senza preavviso, come vuole la tradizione locale (le esecuzioni avvengono mentre il Parlamento non è in seduta, senza alcun preavviso al condannato e senza avvertire né legali né familiari) ieri il boia ha ucciso ancora, anche se il ministero della Giustizia si limita, in uno scarno comunicato, ad annunciare le due impiccagioni. Si tratta, secondo Amnesty International che ha diramato un comunicato, di Tetsuya Tamoto, 36 anni, che nel 1987 aveva sequestrato ed ucciso uno studente, e di Yoshiteru Hamada, 41 anni, che nel 1996 aveva ucciso, a scopo di rapina, un'intera famiglia di tre persone. «Ovviamente qui non si tratta di discutere sulla colpevolezza dei condannati o sull'iter processuale che spesso in Giappone è comunque viziato da errori e mancato rispetto dei diritti della difesa - spiega Nobuto Hosaka, socialista, segretario della Lega Parlamentare per l'Abolizione della Pena di Morte - Il punto in questione è che il governo continua ad eseguire le condanne a morte. Speravamo davvero in un'inversione di tendenza, ma sembra non ci sia davvero nulla da fare. Siamo davvero un paese barbaro». Le esecuzioni di ieri, che i giornali giapponesi riportano con un piccolo trafiletto, mantenendo la tradizionale indifferenza verso la questione della pena di morte, sono le prime del 2002 e seguono le due effettuate lo scorso dicembre, sempre in coincidenza con la sospensione dei lavori parlamentari. «In questo modo - spiega Hosaka - il governo evita che i mass media siano obbligati a dare più risalto alla vicenda, magari a causa delle proteste e delle interrogazioni parlamentari». Attualmente in Giappone vi sono 56 condannati a morte, le cui condizioni di detenzione formano un capitolo a parte delle dure denunce effettuate sia dai vari movimenti per i diritti civili ed umani, sia dal Consiglio d'Europa. Dopo una missione guidata dall'onorevole Jansson, nella primavera del 2000, il Consiglio d'Europa ha infatti approvato un rapporto nel quale si accusa il Giappone di violare sistematicamente i diritti fondamentali dei detenuti, perpretando un sistema di crudele isolamento e di regole che aumentano drammaticamente la sofferenza dei condannati. I quali sono tenuti in assoluto isolamento, non possono lavorare, possono comunicare solo una volta al mese con i familiari "legittimi" (non con amici o ex conviventi) e previa censura, e sono costretti a dormire in alcune posizioni designate (vietata quella supina, ad esempio) con una luce al neon accesa 24 ore su 24. Il tutto, spiegano le autorità, per evitare i suicidi. Che tuttavia avvengono. L'ultimo qualche mese fa, proprio nel carcere di Fukuoka. Lo scorso maggio il Consiglio d'Europa, assieme alla Lega Parlamentare Abolizionista, ha organizzato un simposio internazionale a Tokyo, al quale, per la prima volta, aveva partecipato, sia pure difendendo la posizione ufficiale del governo, anche l'attuale ministro della Giustizia, signora Mayumi Moriyama. La nomina della Moriyama aveva fatto sperare i sostenitori della moratoria: «Le donne sono più sensibili ai valori della vita umana - spiega Hosaka - e poiché l'ordine dell'esecuzione deve essere firmato dal ministro in persona, speravamo che, come era successo in passato quando a capo del ministero c'era un fervente buddista, questi ordini non venissero più firmati». E invece il ministro ha firmato.

 

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