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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA

 

Tesi di Laurea

LA MEDIAZIONE NELL’ESECUZIONE

PENALE MINORILE:

TEORIA E PRASSI

Anno Accademico 2000/2001

 

 

Alessandra Giunchi

 

 

 

 

 

INDICE

 

Capitolo I: La devianza minorile………………………….1

1.1   Devianza e minore………………………………………………..1

1.2   Come si diventa devianti…………………………………………2

1.3   La criminalità minorile: notizie storiche………………………..10

1.4   Evoluzione della delinquenza minorile nell’ultimo secolo di storia italiana…………………………………………………………..13

1.5   Il “ male minore ”……………………………………………….18

1.6   Riflessioni……………………………………………………….23

 

Capitolo II: Le convenzioni internazionali e l’interpretazione della giurisprudenza costituzionale….26

2.1 Fonti internazionali sulle pene previste per un minore…………27

2.2 La giustizia penale dei minori fra presente e passato…………..34

2.3 L’ordinamento penitenziario minorile: la mancata attuazione

      dell’art. 79………………………………………………………44

2.4 La giurisprudenza costituzionale: gli interventi, le interpretazioni

      e gli indirizzi……………………………………………………47

2.5 Qual è il futuro della giustizia minorile?……………………….51

 

Capitolo III: I principi di giustizia riparativa: i nuovi scenari della giustizia penale minorile…………………..55

3.1 Sistema sanzionatorio minorile: è tempo di riforme……………55

3.2 Le misure alternative alla detenzione minorile…………………64

3.3 La giustizia riparativa e la mediazione come nuovi modelli in ambito minorile……………………………………………...71

     

3.3.1 La giustizia riparativa: origini e sviluppi…………………….71

3.3.2 La mediazione………………………………………………...80

3.3.3 Potenzialità della mediazione – riparazione nel recupero degli adolescenti devianti ………………………………………….85

3.4 Aspetti, problematiche e prospettive della mediazione penale minorile nell’esperienza italiana……………………………….89

3.5 Le fasi della mediazione………………………………………..100

3.6 Il mediatore: un terzo uomo……………………………………109

3.7 La mediazione giudiziaria nel processo penale minorile: spazi normativi……………………………………………………...112

 

Capitolo V: La mediazione nella fase dell’esecuzione..119

4.1 L’esperienza conciliativa nella sospensione del processo e messa alla prova……………………………………………………...120

4.2 Sanzioni sostitutive e giustizia riparativa………………………128

4.3 Percorsi di mediazione nell’affidamento in prova al servizio sociale…………………………………………………………130

 

Capitolo VI: Cenni alle esperienze straniere…………..140

5.1 Gli Stati Uniti e il Canada……………………………………...146

5.2 La Francia………………………………………………………150

5.3 La Germania e l’Austria………………………………………..153

5.4 L’Inghilterra……………………………………………………156

 

Conclusioni………………………………………………158

Bibliografia………………………………………………164

Appendice………………………………………………..177

 

 

 

CAPITOLO I

 

La devianza minorile

 

 

1.1   Devianza e minore

Il termine devianza proviene dal tardo latino deflexere ( deflectere ) cioè deviare e vuol dire allontanarsi dal giusto, dalla norma, costituisce ciò che i Romani chiamavano assenza del criterium, ovvero mancanza di giudizio, di assennatezza e di buon senso1.

Nel linguaggio comune la devianza indica la difficoltà se non l’impossibilità che incontra l’individuo nell’adattarsi alle norme etiche e comportamentali dell’ambiente nel quale vive, o a quelle del gruppo dominante; tale incapacità di uniformazione a dette norme comporta come conseguenza l’emarginazione del soggetto stesso da parte dell’ambiente o del gruppo.

Dal punto di vista sociologico, invece, la devianza è caratterizzata da comportamenti e da atteggiamenti, che si allontanano dalle norme socialmente prescritte o che non appaiono conformi alle aspettative sociali.

Il termine “ devianza ” è stato utilizzato per la prima volta negli Stati Uniti durante gli anni ’30 con il preciso intento di raggruppare in un unico concetto una serie di problemi legati al sociale; successivamente introdotto in Italia negli anni ’60, sostituisce classificazioni fortemente negative come quella di pazzia o di criminalità2. In realtà il crimine costituisce solo una specie della più vasta categoria della devianza, suscettibile di comprendere al suo interno ogni tipo di fenomeno sociale contrastante con quelle norme, penali e non, adottate da una comunità per regolare il proprio sviluppo e perseguire le comuni finalità.

Negli anni ’70 questo diffuso orientamento ha tuttavia portato ad una interpretazione non corretta di situazioni molto diverse, non sempre indicative di una radicale contrapposizione a fondamentali valori sociali e, in modo particolare, non suscettibili di censure oltremodo rigide e fuorvianti. Così la mera diversità, la appartenenza ad una classe sociale marginale e squalificata, la protesta giovanile, il vagabondaggio, la tossicodipendenza, la prostituzione e l’alcoolismo sono state semplicisticamente unificate secondo il criterio di distanza dalla norma.

Soprattutto nel settore minorile si riscontra un “ uso qualificato ” della nozione di devianza, grazie al quale è stato possibile individuare le difficoltà inerenti ai processi di crescita e socializzazione del soggetto, sovente manifestatesi in modi di vita caratterizzati da posizioni autodistruttive, piuttosto che in comportamenti propriamente riconducibili all’area del penalmente rilevante.

Gli adolescenti di oggi, forse ancora di più dei loro coetanei del secolo appena concluso, caratterizzato da due conflitti mondiali e dai disagi conseguenti, vivono di frequente situazioni di disadattamento e di disagio frutto dell’enorme difficoltà incontrate nel relazionarsi con gli altri, nell’identificarsi in una società come quella attuale, foriera di dubbi e di contraddizioni.

Disagio e disadattamento non si estrinsecano certo nella violazione di norme fondamentali del vivere civile, ma possono rappresentare i primi passi di un percorso, che sfocia, se non modificato, nella devianza e nell’antisocialità3.

 

 

 

 

 

 

 

1.2 Come si diventa devianti

La devianza e, in particolar modo, quella minorile è da tempo al centro di studi e ricerche di diversi settori delle scienze moderne, prima fra tutte la criminologia che tenta, avvalendosi del modello scientifico positivista consolidatosi verso la fine del 1800, di rintracciare le chiavi di lettura di tale fenomeno complesso e di non sempre facile interpretazione.

Il modello positivista sembra tuttavia aver perso la sua capacità persuasiva, perché si stanno sviluppando e diffondendo in ambito scientifico significative elaborazioni teoriche, in grado di fornire nuove possibilità di svolta nella ricerca di soluzioni al problema della delinquenza giovanile, e non riconducibili alla tradizionale impostazione delle tesi positive, inattuale e spesso fuorviante4.

Infatti, in ambito penale, uno dei capisaldi della scuola positiva è individuato nella personalità dell’autore del reato, centrale nella logica di intervento giudiziario, e ciò ha contribuito ad avvalorare una sorta di identificazione fra comportamento deviante e personalità deviante; invece fra le due categorie non esiste alcun tipo di automatismo, anzi è riduttiva e deresponsabilizzante la tesi che imputa la devianza e la delinquenza adolescenziale a disturbi della personalità.

E’ riduttiva, perché la personalità è frutto di un processo continuo di costruzione, maturato attraverso l’esperienza sociale e non può essere il mero prodotto del semplice combinarsi di fattori genetici; è invece deresponsabilizzante, perché interpretando la devianza come predisposizione ereditata in base al codice genetico, risulta illogico attribuire al soggetto la colpa del suo stato al quale non può opporre resistenza5.

Questo particolare tipo di impostazione legata al modello medico, secondo il quale ad un sintomo corrisponde una causa sottostante, è ancora viva e prevalente nella cultura della nostra società, nonostante il suo abbandono da parte di illustri esponenti del mondo scientifico.

Qualcuno ha più volte ricordato che da almeno vent’anni i ricercatori si sono arresi all’evidenza che la personalità non spiega in via prioritaria il comportamento, e questo perché la devianza o le trasgressioni attuate dall’adolescente sono contro un ordine morale e non contro un ordine biologico6.

Chi afferma il contrario è purtroppo vittima di una persistente confusione tra causa e colpa, in quanto quest’ultima rappresenta un giudizio di valore dato da una realtà sociale, presente in uno spazio e in un tempo determinati, e in nessun modo collegabile con una caratteristica psichica o biologica di un determinato soggetto.

Risulta dunque poco opportuno, per comprendere il fenomeno della devianza giovanile, utilizzare la tesi in base alla quale l’agire criminale andrebbe correlato con elementi presenti nel passato dei protagonisti di quell’agire. Tale criterio, anche detto “ delle evidenze”, creerebbe una sorta di ponte fra la vita presente e passata di un individuo e spiegherebbe il comportamento non conforme alla norma penale in termini di deprivazioni fisiche e sociali, ambientali e famigliari, subite ed evidenti nel vissuto di una persona7.

Quando si parla di minori e si osservano alcuni di loro, avvezzi   “all’arte del crimine”, si nota come determinati tratti della loro personalità, quali l’insicurezza, aggressività, narcisismo, insoddisfazione ecc. siano largamente diffusi anche fra i coetanei non devianti8. E questo dimostra quanto semplicistico ed illusorio sia stato il tentativo di rintracciare le cause del comportamento, non conforme alla norma, nelle qualità caratteriali di un soggetto ancora in formazione.

Con tale nuova impostazione gli studiosi del settore, hanno utilizzato categorie concettuali diverse, e fra tutte quella che ha avuto più successo è la cosiddetta carriera deviante.

La carriera deviante è costruita come una sorta di percorso, all’interno del quale è possibile individuare tre momenti principali: la commissione del reato, l’essere riconosciuto deviante dalla società e l’adesione ad un gruppo deviante organizzato. In buona sostanza, si tratta di una sorta di evoluzione, un complesso sviluppo psicosociale che porta il giovane ad assumere progressivamente le caratteristiche del delinquente9.

Il modello sequenziale è stato applicato a molti casi concreti, e ciò ha permesso si estrapolare dati importanti per comprendere meglio le dinamiche sottese al comportamento deviante. E’ stato dimostrato che per la maggioranza degli adolescenti forme diverse di devianza non costituiscono occasioni episodiche, ma rappresentano la norma in senso statistico10.

Spesso si inizia “ per caso ”, spinti dal desiderio di sperimentare nuove emozioni, oppure per scacciare la noia di una vita troppo piatta e priva di stimoli positivi, ma più frequentemente si segue il gruppo, che rappresenta per molti adolescenti il vissuto quotidiano, fatto di leggi, di simboli, e di ruoli ben precisi. E’ stato rilevato che il contatto con gruppi diversi fa emergere nello stesso soggetto pulsioni differenti e specifiche, da lui stesso non prevedibili, tali da farlo apparire dissociato in differenti personalità; inoltre repentini cambiamenti caratteriali potrebbero essere una conseguenza di mutamenti ambientali ed economici11.

Se il primo momento di contatto con l’antisocialità è occasionale e non vincolante rispetto ad una definizione di sé come delinquente, il secondo passo è accompagnato dalle attribuzioni negative da parte della società e la reazione del giovane, violenta e rabbiosa, sarebbe il preludio al terzo e definitivo passaggio, nel quale la costruita identità delinquenziale troverebbe una sorta di stabilizzazione.

Il comportamento deviante è un comportamento appreso, composto da meccanismi analoghi a quelli del comportamento conforme, fatto di codici, di simboli, significati e rituali; tuttavia affinché una condotta sia deviante è necessaria non solo la contrarietà alla norma, ma occorre che gli altri la percepiscano come tale.

In ultima analisi, la devianza scaturisce quindi dall’incontro tra un comportamento e la reazione sociale conseguente, reazione che varia a seconda delle norme esistenti in un territorio e in un tempo determinati, perché ciò che è tollerato in un’epoca o in un luogo può essere proibito in un altro e viceversa12.

A conclusione di questo difficile percorso interpretativo è dunque possibile affermare che in una società come la nostra, complessa ed autoreferenziale, dominata da modelli culturali vuoti e superficiali, diffusi a mezzo stampa e televisioni, ogni adolescente è costantemente sottoposto al rischio di sviluppare una personalità distorta, contraddittoria e deviante.

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                                                                                                                                                             

 

 

 

 

 

 

 

1.3 La criminalità minorile: notizie storiche

La criminalità dei minori non è un fenomeno di recente formazione, perché le cronache storiche e le statistiche penali delle diverse regioni del mondo ne conservano le tracce, a partire da epoche anche molto lontane dalla nostra.

Prova indiscutibile di una delinquenza minorile presente nel tessuto sociale è, ad esempio la condanna nel 1833, da parte della Corte centrale criminale di Londra, di un ragazzo di 9 anni ad essere giustiziato tramite impiccagione, perché responsabile di aver rotto con un bastone una vetrina13.

Verso la fine del XIX secolo negli Stati Uniti d’America si sviluppa il movimento dei Child Savers ( cioè salvatori del minore ), costituito da un gruppo di riformatrici femministe allo scopo di migliorare le condizioni dei minori disadattati, grazie alla promulgazione di leggi speciali e attraverso la creazione di strutture a cui affidare la rieducazione degli sfortunati fanciulli14.

Negli anni successivi si assiste ad un cambiamento nelle risposte giudiziarie e sociali attuate nei singoli Stati e un esempio lo rinveniamo nella nascita della prima Juvenile Court ( Tribunale dei minori ) a Chicago, Illinois, nel 1989.

Ben presto anche in Europa si diffondono le idee maturate oltre oceano sul problema minorile, sorgono diversi Tribunali dei minori e il primo è quello di Birmingham, in Inghilterra nel 1904.

Anche l’Italia si mostra favorevole al nuovo approccio nei confronti del minori, infatti nel 1934 viene approvata la legge istitutiva di un tribunale specializzato per i minori, sia pur inizialmente previsto come sezione specializzata del tribunale ordinario. La stessa legge istitutiva regolamenta anche le strutture destinate ad accogliere i minorenni quali gli istituti di osservazione, le case di rieducazione, i riformatori giudiziari e le carceri minorili, in una logica di continuità graduabile fra misure penali restrittive della libertà e misure non repressive.

Il panorama si trasforma in seguito all’entrata in vigore della Carta Costituzionale e il conseguente affermarsi dei diritti fondamentali del singolo ( artt. 2, 3 Cost. ), nonché il profilarsi del principio di rieducazione a cui le pene devono necessariamente tendere, in ossequio all’art. 27 della Costituzione.

Alla nuova ideologia rieducativa, posta al centro del trattamento e delle misure di riabilitazione del minore, si ispira anche la legge n. 888 del 1956 di riforma dell’ordinamento penale minorile.

La normativa italiana in tema di giustizia minorile è il frutto della reazione dell’ordinamento di fronte ad un fenomeno, come quello della delinquenza giovanile, che si è modificato nel tempo, cambiando la propria fisionomia.

Per capire quale è stato il suo sviluppo e quali sono le tipologie passate e presenti occorre far riferimento ad una serie di dati statistici, elaborati per valutare le dimensioni oggettive della delinquenza minorile dal dopoguerra fino ai giorni nostri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.4 Evoluzione della delinquenza minorile nell’ultimo secolo di storia italiana

 

L’indagine sui numeri e sulle caratteristiche della criminalità minorile relativa agli ultimi cento anni di storia italiana, mostra come il fenomeno sia cresciuto fino a raggiungere soglie di forte allarme sociale, e spinge ad alcune doverose considerazioni sul modello educativo tradizionalmente adottato nel nostro paese.

Mentre i primi trent’anni del XX secolo hanno registrato una percentuale di criminalità minorile pari all’ 11 – 14% del totale, nella prima metà degli anni ’50 il numero dei minori denunciati mantiene un andamento decrescente, eccettuata qualche piccola oscillazione15.

Dal 1939 al 1945 il paese è sconvolto dal II Conflitto Mondiale e gli anni successivi, quelli della ricostruzione, risentono dei disagi e dei disordini provocati dalla guerra, ben evidenziati nelle statistiche ufficiali che mostrano un apparente aumento delle denunce a carico di minori; si parla di apparenza in quanto si attribuisce il brusco incremento al disorientamento generale del periodo postbellico.

I nati durante la guerra sono cresciuti e hanno raggiunto l’adolescenza, ma con la crescita si sono manifestati i sintomi di disadattamento e di sofferenza causati dalle condizioni critiche in cui hanno vissuto durante il conflitto, e le cronache di allora riportano episodi di teppismo gravi e sconcertanti. Le città italiane sono percorse da piccole bande, le gangs, responsabili di atti di vandalismo e di delitti di gratuita violenza a palese imitazione dei cugini americani, i famosi Teddy boys.

Siamo nel 1954 e la delinquenza minorile manterrà un costante aumento almeno fino al 1963, imponendo una nuova attenzione pubblica e giudiziaria.

Grazie alla legge 888/1956 si diffonde la nuova ideologia rieducativa in campo penale minorile e lo strumento della prevenzione attenua il numero delle condanne attraverso l’utilizzo dei nuovi istituti del perdono giudiziale e della mancanza di imputabilità.

Cambia nel frattempo il panorama relativo al tipo di reato perpetrato: diminuiscono gli episodi delittuosi di eccezionale gravità, ma cresce il numero di omicidi e di lesioni colpose, determinato probabilmente dal diffondersi della motorizzazione.

Per ciò che concerne i reati contro il patrimonio, si registra un aumento di furti di oggetti di modico valore, mentre nel Nord del paese le rapine appaiono selettive e meglio organizzate.

Lasciati alle spalle gli anni ’60 con la loro ideologia strettamente ancorata al dato della prevenzione, si arriva agli anni ’70 e per il primo periodo del nuovo decennio la situazione sembra stabilizzarsi: le istituzioni mantengono saldamente la rotta verso l’ordine e il consolidamento del sistema educativo, considerato infallibile. Ma tale periodo di relativa calma e tranquillità muta improvvisamente, infatti a partire dalla metà degli anni ’70 l’Italia è investita da un pericoloso disorientamento generale: sono gli anni dell’occupazione delle scuole, della grande e diffusa turbolenza sociale e le istituzioni sembrano vacillare di fronte alla contestazione giovanile imperante.

Proprio il numero delle detenzioni mostra una flessione più marcata dopo il 1975, che rappresenta il momento in cui la criminalizzazione dei minori raggiunge le sue massime punte: i minori entrati in carcere, in attesa di giudizio raggiungono circa le 9000 unità16.

Tutto il sistema educativo è ormai fatalmente in crisi e l’ingresso negli anni ’80 non migliora la situazione già così compromessa; il numero di minori sottoposti a procedimento penale mantiene livelli significativi, soprattutto per reati legati al patrimonio.

Nuove forme di delinquenza, legate in particolare ai fattori droga e tossicodipendenza e allo sviluppo del terrorismo ( si ricordino gli anni bui delle stragi e degli attentati dinamitardi ) sono in pericolosa ascesa, mentre si conferma il progressivo calo dei reati più gravi contro la persona. E’ tuttavia riscontrabile una discrepanza tra tale diminuzione e il crescente allarme sociale, espresso anche a livello politico, giustificabile secondo alcuni per la mancata rilevazione da parte delle statistiche ufficiali di quello che viene definito “ numero oscuro ” della devianza minorile. La devianza sommersa, non quantificabile per l’estrema difficoltà di reperirne le cifre, costituisce secondo uno studio del CENSIS del 1982 il 91% dei dati ufficiali, e ciò significa che per ogni minore denunciato 91, magari autori di reati particolarmente violenti, non vengono segnalati dall’autorità giudiziaria17.

Secondo l’elaborazione dei dati ISTAT, compiuta dall’Ufficio Centrale per la giustizia minorile all’inizio degli anni ’90, le tendenze in atto e le previsioni per il futuro non sono molto confortanti.

Nel rapporto si parla di un << vivissimo allarme per il segnale di gravissima sofferenza del mondo dei più giovani che l’aumento della criminalità contribuisce a mettere in evidenza >>18.

Infatti il numero delle denunce per reati commessi da minori è salito progressivamente dalle 19728 unità nel 1986 alle 44977 unità del 1991, con un aumento quasi costante, nell’arco di cinque anni, dei minori denunciati alle Procure presso i Tribunali per i minorenni. Anzi, se consideriamo che i dati raccolti evidenziano nel 1995 il raggiungimento delle 46051 unità, possiamo senza indugio affermare che la delinquenza minorile è più che raddoppiata nel nostro paese nell’arco di un decennio19.

E’ interessante notare che in coincidenza e successivamente all’introduzione del nuovo Codice di Procedure minorile, nel biennio 1988 – 1990 si è registrato il più forte incremento percentuale dal +15,3% / +18,7% nel 1988 – 1989 al +36,5% nel 199020.

Sembra tuttavia confermata l’ipotesi che spiega questo brusco aumento come effetto del “ periodo di assestamento ” dovuto alle novità procedurali in campo minorile e dunque il fenomeno non è riconducibile ad un ipotizzato fallimento della nuova filosofia permeante il nuovo codice di rito, chiaramente ispirata all’intervento penale come estrema ratio e al riduttivismo carcerario.

Un aumento si registra infine, per quanto concerne la particolare gravità del reato commesso: è salito infatti il numero degli omicidi consumati e tentati, e desta ancora più preoccupazione l’incremento del reato di lesioni personali volontarie, senza poi tener conto della percentuale in costante ascesa delle rapine, estorsioni e sequestri di persona21.

 

1.5 Il “ male minore ”

Le statistiche ufficiali assolvono solo in parte il delicato compito di dare un volto alla criminalità minorile, per ricostruire il quale è indispensabile far riferimento alle ricerche svolte sulla devianza sommersa e all’opinione pubblica, alimentata dagli organi di informazione.

In questo modo è possibile ricostruire un quadro generale piuttosto inquietante che pone problemi nuovi e gravi per la giustizia minorile italiana, abituata a gestire una devianza minorile “ domestica ” e di tipo tradizionale22.

La prima constatazione è relativa alla precocità dei contatti con il mondo del crimine, infatti è molto alto il numero di infraquattordicenni segnalati per reati anche di una certa gravità. A questo proposito “ la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali ad essa equiparate ” aveva segnalato nel 1991, la persistente cooptazione da parte di nuclei criminali di minori dodicenni e tredicenni per la commissione di quelli che vengono definiti street crimes ( lotto clandestino, spaccio di stupefacenti, rapine, furti, ecc. ) e il ripetuto utilizzo dei minori come sicari. Inoltre l’aumento delle denunce per reati legati alla violazione delle leggi sulle armi, da parte di minori soprattutto nel territorio siciliano, sembrerebbe da attribuirsi alla abitudine, molto frequente fra i boss di livello intermedio, di non circolare armati preferendo farsi scortare da “ bambini ”, ai quali vengono affidati mitra e pistole allo scopo di superare le perquisizioni della polizia, potendo poi commettere indisturbati delitti e soprusi23.

Le organizzazioni criminali fagocitano in maniera massiccia una larga parte della delinquenza minorile presente sul territorio italiano, e l’area maggiormente interessata viene individuata nel meridione, precisamente nelle regioni della Campania, della Puglia, della Calabria e della Sicilia, dove le organizzazioni malavitose detengono il controllo quasi incondizionato degli uomini e delle risorse.

Tuttavia è difficoltoso reperire i dati relativi al numero reale di minori militanti in dette associazioni, e ciò a causa delle complesse problematiche tecnico giuridiche che impediscono l’imputazione ad un minore del reato di partecipazione ad attività criminosa organizzata.

Non ci si può infatti basare, per l’applicazione dell’art. 416 bis c.p. anche a soggetti minorenni, sui requisiti dallo stesso previsti e fondanti la categoria penalmente rilevante quale è l’associazione di tipo mafioso. E’ necessario operare utilizzando strumenti e tecniche magari scientificamente poco apprezzabili, ma sicuramente utili per produrre risultati convincenti.

Si è allora ragionato in questo modo: posto che all’interno dell’associazione criminale, di cui all’art 416 bis c.p., “ vivono e si sviluppano ” altre tipologie di reato, quali la produzione, lo spaccio e la detenzione di stupefacenti, l’estorsione e il contrabbando spesso imputabili ai minori, risulterebbe da tali attività collegate la riconducibilità di quest’ultimi alla fattispecie onnicomprensiva della delinquenza organizzata24.

Se il mezzogiorno è interessato dal coinvolgimento dei minori nella criminalità organizzata, il nord italiano non vive certo una situazione più confortante, trovandosi a dover fronteggiare la devianza minorile straniera, composta in modo particolare da nomadi jugoslavi e ragazzi immigrati, per lo più clandestinamente, dalla Tunisia, dal Marocco, dall’Algeria e da altri paesi del Nord Africa.

Questi soggetti e, in particolare gli zingari provenienti dalla Ex – Jugoslavia, sono indotti al crimine anche in tenera età e sono dediti, per lo più, a piccoli furti e a reati contro il patrimonio in genere25.

Negli ultimi anni tuttavia la “ manodopera ” minorile straniera è stata utilizzata in altri settori, ad es. per lo spaccio di sostanze stupefacenti e si è riscontrato un lieve aumento del numero dei reati contro la persona, compiuti per la maggior parte dagli slavi, considerati più violenti rispetto agli altri extracomunitari.

Come è stato brillantemente sintetizzato26, l’Italia conosce due tipi di delinquenza ben distribuita geograficamente: quella dei giovani italiani collegati alla criminalità organizzata del Sud del paese, e quella dei giovani stranieri, autori in larga parte di delitti legati al mondo dello spaccio di stupefacenti, concentrati nel Nord d’Italia.

Purtroppo sta emergendo in maniera sempre più pregnante una tipologia di devianza minorile che desta grave preoccupazione nelle istituzioni, chiamate a fronteggiare la nuova emergenza.

Tali nuovi fenomeni, meglio noti come bullismo e baby – gang, sono legati da uno stretto vincolo di comunanza di cause e contenuti.

Il bullismo è un fenomeno proprio dell’età giovanile, caratterizzato dalla mancanza assoluta di regole che si manifesta con comportamenti aggressivi e violenti e con forme di prevaricazione sui più deboli27.  

A proposito delle gangs, delle bande, questa forma di devianza nasce dalla convinzione che la vita deve essere dominata dal rischio, cioè dalla necessità di affrontare con coraggio situazioni rischiose, osare imprese talvolta impossibili, insomma assumere un comportamento da “ duri ” 28.

Il 18 Gennaio 2000 il procuratore Antonio la Torre ha rilanciato, in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno giudiziario, le forti problematiche relative all’acuirsi, nell’ultimo periodo, di fatti criminali ad opera di bande di minorenni. << Le attuali dinamiche della criminalità minorile – ha avvertito il procuratore generale – non sono più spiegabile soltanto nell’ottica di degrado famigliare o della soggezione ad adulti senza scrupoli >>. A conferma di questo dato sono giunte da alcuni distretti giudiziari testimonianze dirette che chiariscono, al di là di ogni ragionevole dubbio, come le imprese delittuose delle baby – gangs siano da attribuire ad ambienti borghesi, estranei a fenomeni di marginalizzazione sociale ed economica29.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.6 Riflessioni

La società italiana del terzo millennio appare profondamente trasformata rispetto a cinquanta anni fa quando, all’indomani della affermata democrazia, si affacciava sul panorama mondiale desiderosa di ricostruire quello che la guerra aveva sconvolto e di attuare gli ideali di uguaglianza e di solidarietà, patrimonio di tutte le nazioni civili e liberali.

Purtroppo i costumi severi e tradizionali di un tempo sono stati gravemente deteriorati a causa di una eccessiva liberalità, subentrata con la democrazia.

Il presente invece, è caratterizzato da conflitti individuali e di gruppo, l’inciviltà e una certa rilassatezza nei costumi e nel comportamento sono entrati a far parte del nostro vivere quotidiano, enfatizzati dai mezzi di comunicazione di massa.

Di conseguenza nel nostro paese la delinquenza, e in special modo quella dei minori è notevolmente aumentata, raggiungendo soglie di giustificato allarme sociale.

I nostri ragazzi sono costretti a crescere in un enorme “ vuoto etico ”, riempito solo dai messaggi convulsi e violenti, provenienti da una società in cui l’incertezza esistenziale sembra aver preso il sopravvento. I ragazzi molte volte si trovano da soli ad affrontare le contraddizioni di un mondo che non capiscono, e contro il quale si scontrano in maniera drammatica ed imprevedibile.

Questi adolescenti sono ammalati di benessere e di monotonia, e in genere, pochi si accorgono della loro inquietudine, del loro modo violento e tragico di attirare l’attenzione, salvo poi rammaricarsi quando è troppo tardi.

La società odierna mostra scarso interesse per questi giovani virgulti, le stesse famiglie non comprendono i comportamenti dei loro figli, anzi spesso non riescono a conoscerli e a comunicare con loro.

Se riflettiamo un momento, ci accorgiamo di quanta poca considerazione lo stato abbia dimostrato nei confronti delle nuove generazioni; basti pensare ai tardivi interventi con continui rinvii nell’applicazione di nuovi percorsi curricolari nella formazione scolastica e professionale.

Il desolante quadro è infine completato dalle cronache cittadine che riportano fatti gravissimi quanto feroci ed immotivati di cui sono protagonisti gli adolescenti. Tali episodi, purtroppo non più isolati, hanno creato una sorta di reazione collettiva e la richiesta di un intervento forte ed esemplare da parte delle istituzioni.

Atti di violenza e di intimidazione perpetrati da ragazzi, poco più che adolescenti, nei confronti di adulti o di coetanei si ripetono con cadenze troppo frequenti per non destare stupore e paura.

Dunque è importante trovare, pur nella comprensibile indignazione generale, le giusta via legislativa di riconsiderazione dell’impianto normativo di interventi atti ad affrontare l’emergenza per quei soggetti in cui la maturazione fisica non corrisponde a quella morale ed intellettiva.

Secondo l’opinione comune il carcere risolverebbe la situazione in maniera definitiva, in virtù della sua riconosciuta capacità deterrente, e forse, di fronte a certi episodi di efferatezza da parte di adolescenti, si sarebbe tentati di reagire in maniera irrazionale ricorrendo anche a misure non proprio ortodosse di correzione.

E’ necessario invece che gli adulti, la comunità e la scuola siano responsabilizzati nel senso di una maggior e più costante presenza nella vita dei ragazzi e, secondariamente la giustizia minorile è in grado di trovare gli strumenti e le soluzioni per recuperare questi minori, beneficiando di modelli più idonei già sperimentati con successo in altri paesi europei.

 

 

 

 

 

CAPITOLO II

 

Le Convenzioni internazionali e l’interpretazione della giurisprudenza costituzionale.

 

 

La delinquenza minorile non interessa solo il territorio italiano, ma costituisce un fenomeno tristemente noto in ogni paese del mondo; appare tuttavia inutile tentare un confronto circa le tecniche e le soluzioni normative esistenti a livello mondiale, in quanto esistono stati in cui le garanzie giurisdizionali sono assenti e la prassi conosce interventi solo di tipo poliziesco[1].

Conviene invece, per un’analisi più mirata del problema, restringere il “ campo d’azione ” ai confini europei dove, pur nella diversità dei linguaggi tecnici, si può scoprire una identità di senso per ciò che concerne le regole e gli strumenti utilizzati in campo penale minorile[2].

Le numerose convenzioni internazionali fiorite intorno alla delicata problematica offrono la possibilità di capire quali sono le vie percorribili in futuro per la giustizia minorile.

 

 

2.2 Fonti internazionali sulle pene previste per un minore

L’infanzia e l’adolescenza rappresentano fasi  molto delicate della vita di un individuo e quindi la crescita del bambino e del ragazzo deve essere assistita da cure e attenzioni, che ne garantiscano il corretto sviluppo fisico ed intellettuale. Il percorso “ obbligato ” che conduce all’età adulta è tuttavia caratterizzato, per opinione unanime, da difficoltà di accettazione di nuove dimensioni e di comportamenti conformi ad un determinato assetto sociale. E’ naturale dunque che il fanciullo risenta in maniera più o meno accentuata di questi cambiamenti e sempre più frequentemente manifesti sintomi di  ribellione  alla nuova realtà e alle nuove regole da rispettare.

Per questi motivi la comunità internazionale ha sentito più volte la necessità di ribadire quanto sia importante per ogni Stato l’impegno legislativo, per assicurare ai suoi cittadini “ in erba ” una protezione rispettosa della loro fragilità e particolarmente attenta alle loro naturali potenzialità, affinché possano essere preparati ad affrontare un percorso di vita, spesso ricco di problematiche non indifferenti.

Non è certamente possibile ricordare qui tutte le convenzioni che hanno impegnato gli Stati Europei al tavolo delle trattative, ma è quanto meno interessante prendere in considerazione alcuni documenti internazionali, che simboleggiano il cammino compiuto nell’intento di applicare al minore un trattamento penale ragionevole e proporzionato alla sua giovane età.

Il percorso culturale che ha condotto gli Stati a formulare una base comune di regole in materia di giustizia penale minorile ha presentato difficoltà per due tipologie di problemi: le contraddizioni insite nella percezione sociale del minore delinquente, e la non agevole impresa di trovare regole valevoli per il maggior numero di nazioni[3].

L’intervento su di un minore che trasgredisce la legge innesca una serie di conseguenze di non poco conto, quali ad esempio la perdita di credibilità dell’apparato giudiziario nella applicazione delle norme, l’esigenza di dare risposte concrete alla vittima del reato, la necessità di una difesa sociale contro un aggressore pericolosamente  adultizzato[4].

E’ facile comprendere come ci fossero contrastanti movimenti all’interno della comunità degli Stati, e all’interno degli stessi in cui convivevano e si alternavano una durezza eccessiva negli interventi contro il crimine minorile, con forme più umanitarie che puntavano sulla scommessa del recupero e della risocializzazione.

Nell’arco di quaranta anni, dal 1920 al 1960, gli Stati Europei hanno studiato e lavorato per sviluppare idee comuni, prendendo coscienza del “ superiore interesse ” di trovare un adeguato assetto normativo che finalmente considerasse come la interiorizzazione delle regole del vivere civile da parte di un giovane sia dipendente dalla capacità delle nazioni di assicurargli stimoli culturali e pedagogici in linea con la sua maturazione[5].

Le Regole di Pechino, regole minime per l’amministrazione della giustizia, approvate a New York il 29.11.1985 costituiscono la prima compiuta enunciazione di principi concernenti il diritto e la procedura minorile.

Il documento in esame affronta il problema con riferimento alle varie fasi del percorso giudiziario a cui può essere sottoposto un minore, non trascurando la necessità di ribadire l’importanza di una idonea e sviluppata prevenzione << che incoraggi un processo di maturazione capace di tener lontano il più possibile il minore dalla criminalità e dalla delinquenza durante il periodo di vita in cui è più esposto ad un comportamento deviante >>[6].

L’art. 2 invita gli Stati ad azioni sinergiche per la creazione in ogni paese di un corpo di leggi specificamente valido per i minori e la creazione di agenzie che sappiano vigilare sulla loro applicazione effettiva, garantendo una pronta capacità di risposta alle esigenze dei loro  “affidati ”[7].

Gli obiettivi caldeggiati nella presente convenzione sono chiari: tutela del giovane e insieme protezione e mantenimento della pace e dell’ordine sociale ( art. 1 ), dunque previsione di misure sanzionatorie proporzionate alle circostanze del reato e all’autore dello stesso (art. 5).

Ma un sistema caratterizzato da risposte penali varie, suscettibili di un’applicazione differenziata, richiede la presenza e l’esercizio responsabile di un potere discrezionale appropriato ai diversi livelli dell’amministrazione della giustizia minorile, sia nell’istruttoria che nel processo penale e nella fase esecutoria ( art. 6 ).

Gli artt. 17, 18, 19, 20 enunciano dei criteri guida per la scelta da parte del giudice del percorso da seguire nei confronti di un minore riconosciuto colpevole, e che possono così sintetizzarsi:

-         proporzionalità e personalizzazione delle pene;

-         restrizione della libertà individuale ai soli casi di violenza alla persona, di recidiva e inevitabilità;

-         non applicabilità della pena capitale e delle pene corporali;

-         possibilità di sospensione in ogni tempo del processo;

-         possibilità di concludere il giudizio con formule il più possibile diversificate e flessibili;

-         ricorso estremo al collocamento in istituzione e per il periodo più breve possibile:

-         estrema rapidità nell’esecuzione del trattamento stabilito.

Concludono il quadro le previsioni di una sollecita e frequente applicazione del regime di liberazione condizionale ( art. 28 ) e di un largo ricorso a forme di semidetenzione, specie se espiabili in luoghi diversi dagli istituti penali ( art. 29 ).

Il 17 Settembre 1989 a Strasburgo il Consiglio d’Europa ha individuato, con la Raccomandazione n. ( 87 ) 20 sulle risposte sociali alla delinquenza minorile, tre aree di interesse sulle quali concentrare gli interventi  e cioè la prevenzione, l’uscita dal circuito giudiziario – ricomposizione del conflitto, giustizia dei minori[8].

In ordine al primo punto sembra che l’Unione Europea propenda per un potenziamento delle strutture scolastiche e sociali ( organizzazioni sportive, circoli di ricreazione ecc. ) per poter offrire nuovi orizzonti ai giovani ed impegnarli in attività che ne favoriscano l’inserimento sociale e li allontanino da pericolose occasioni di “ smarrimento” ( art. 2 ).

L’uscita dal circuito giudiziario deve essere, su indicazione del Consiglio d’Europa, affrontata attraverso l’impiego di tecniche flessibili: da una parte utilizzando forme di sottrazione ( diversion ) alla rigidità degli schemi processuali penali e, dall’altra ripristinando il patto sociale grazie ad una ricomposizione del conflitto ( mediazione) facente affidamento sulla spontanea adesione del minore e sulla collaborazione della sua famiglia, nel pieno rispetto dei diritti della vittima ( art. 3 ).

Il terzo punto sostanzialmente accoglie gli indirizzi  già formulati a New York nel 1985; tuttavia è di basilare importanza concentrare l’attenzione su due enunciati molto significativi: l’art 15 e l’art. 16.

La prima regola, riprendendo la prospettiva, precedentemente enunciata, circa la necessità di eliminare progressivamente il ricorso alla detenzione e di moltiplicare le misure sostitutive ( art. 14 ), palesa l’utilità di ricorrere alle forme che meglio favoriscono l’inserimento del giovane, sorveglino sul suo comportamento grazie ad un’azione educativa intensiva ( trattamento intensivo intermedio ), prevedano la riparazione del danno causato dal minore reo, e la possibilità del giovane di adoperarsi per l’interesse della comunità.

Ma l’art. 16 rappresenta la vera novità nei principi informatori della materia, in quanto prospetta l’opportunità di disegnare un autonomo sistema delle pene minorili, che si caratterizzi non solo per le modalità di esecuzione e di applicazione più favorevoli rispetto a quelle previste per gli adulti, ma soprattutto per eccleticità  e flessibilità[9].

Conclude l’esame delle fonti internazionali la Convenzione sui diritti del fanciullo, approvata dall’O.N.U. il 20.11.1989 a New York. Si tratta di una convenzione che si occupa in generale dei diritti del minore, ma sottolinea una volta di più come il fanciullo sia un soggetto di diritti e dunque portatore di esigenze diverse che ne giustifichino una considerazione specifica.

L’art. 37 esclude, per coloro che ebbero a delinquere nel corso della minore età ( quindi anche per colui diventato ormai maggiorenne) pene e trattamenti crudeli, inumani, degradanti, bandendo dal novero delle possibili misure la pena capitale e l’ergastolo. << La pena deve essere eseguita tenendo conto dell’età del soggetto, ed essere pedagogicamente orientata e finalizzata alla reintegrazione sociale, promovendo il senso di dignità e di valore del minore >> proclama l’art. 40 della Convenzione, elencando di seguito le garanzie fondamentali di cui deve beneficiare il minore accusato, imputato o condannato[10].

Le indicazioni scaturite da questo breve, ma mirato esame delle più importanti norme internazionali, sono chiare e portano in un’unica direzione, quella cioè di creare in ogni Stato un sistema capace di offrire strumenti vari e credibili al fine di fronteggiare gli episodi di devianza minorile più frequenti e di complessa problematicità; strumenti che permettano il recupero nel minore reo, anche nei casi più gravi, di modelli di vita e di riferimento capaci di dar stabilità e responsabilità al soggetto, evitando di schiacciarlo sotto il peso della colpa con l’uso di una giustizia penale negativa, arroccata fra il paternalismo e la repressività.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2.3 La giustizia penale dei minori fra passato e presente

Il percorso da cui è scaturita l’attuale impostazione della giustizia minorile non è stato agevole, in quanto un diffuso atteggiamento di poca considerazione per la materia e non sempre condivisibili scelte politiche hanno contribuito a rallentare ulteriormente il cammino di riforma.

Nel 1865, anno di formazione della legge di ordinamento giudiziario, si realizza il primo tentativo di unificare il sistema penale e di renderlo operativo in tutti i territori del regno, all’indomani dell’Unità d’Italia. In questo corpus di norme non è dato rintracciare alcuna disposizione che ipotizzi la commissione di un reato da parte di un minore, con la previsione di trattamenti differenti rispetto agli adulti.

Nel 1889 il codice penale Zanardelli, la cui introduzione è ben accolta per la chiara matrice liberale e per l’abolizione della pena di morte, detta invece alcune norme specifiche circa l’imputabilità del minore. Inoltre prevede che << fosse tenuta presente, in caso di giudizio, la personalità del piccolo imputato >>. Tuttavia << manca una magistratura ad hoc; i ragazzi vengono giudicati dagli ordinari organi>>[11].

Il primo segno di un cambiamento si palesa attraverso una circolare nel 1908 del Guardasigilli pro-tempore V. E. Orlando, il quale invita a considerare l’opportunità di una competenza specializzata, e almeno sommariamente psicologica, del giudice nei procedimenti a carico di minorenni. Il medesimo documento introduce la previsione di speciali indagini volte ad individuare le cause della condotta antisociale e a predisporre i provvedimenti più idonei[12].

L’idea sottesa al codice penale del 1889 e alla Circolare Orlando è quella di una giustizia retributiva nella prospettiva della correggibilità, tramite l’utilizzo di interventi, per così dire, di “ bonifica ” sui piccoli turbatori dell’ordine pubblico, conseguiti attraverso il loro allontanamento da ambienti o famiglie insane e il collocamento in luoghi di protezione, correzione, isolamento.

Sul fronte carcerario troviamo il primo organico tentativo di riforma con l’emanazione del Regolamento generale del 1891 sugli stabilimenti carcerari e sui riformatori governativi. Tale regolamento, che trova il suo presupposto nel codice Zanardelli, non riesce tuttavia a realizzare il principio del cosiddetto sistema misto recepito dal codice penale, e a rendere concreta la differenziazione del trattamento dei reclusi in relazione al tipo di pena e all’età.

Famosa in materia minorile è poi la Commissione di studio presieduta dall’onorevole Quarta ( 1909 ) che, pur non avendo avuto un seguito legislativo, ha certamente contribuito ad orientare le future scelte di politica criminale verso la necessità per i minori di un trattamento peculiare e di competenze specialistiche[13].

Con l’avvento del regime fascista nel 1930 viene varato un nuovo codice penale, più noto come codice Rocco, all’interno del quale viene riservata una ritrovata attenzione alla materia minorile, apprezzabile grazie alle disposizioni degli artt. 97 e 98.

Si interviene sul problema dell’imputabilità minorile, subordinandone l’esistenza a due fattori fondamentali, uno di carattere cronologico, l’altro di tipo medico – psicologico e psichiatrico. L’art 97 c.p. infatti prevede l’assenza di imputabilità fino a 14 anni, mentre l’art. 98 c.p. introduce un motivo ulteriore di esclusione o riduzione della capacità d’intendere e di volere sempre collegato all’età, ma da accertare caso per caso nei minori fra i 14 e i 18 anni. Ipotesi, quest’ultima, che costituisce solo una possibilità e non realizza invece un giudizio di irresponsabilità esteso a tutti gli adolescenti[14].

Finalmente nel luglio del 1934 vede la luce il primo organismo giudiziario solo per minori; il r. d. l. n. 1404 istituisce il Tribunale per i Minorenni con tre competenze volte all’assistenza e al controllo del minore degli anni 18: per le questioni attinenti la sua tutela in situazioni di problematicità famigliare ( competenza civile ); nei casi in cui << per abitudini contratte, dia manifeste prove di traviamento e appaia bisognevole di correzione morale >> ( competenza amministrativa ); per i procedimenti che lo riguardino come autore di reato ( competenza penale )[15].

La stessa legge prevede inoltre il funzionamento dell’istituto presso ogni sede di Corte d’Appello o di sezione di Corte d’Appello e disciplina la composizione del collegio giudicante, affiancando ai due magistrati togati un giudice benemerito con competenze specifiche in ordine alla antropologia, biologia e alle più importanti scienze positive. Il suo intervento è reso indispensabile vista la circostanza di dover giudicare un minore autore di un illecito penale[16].

Accanto al Tribunale si sviluppano nuove forme istituzionali di contenimento quali gli istituti di osservazione, case di rieducazione, riformatori giudiziari, carceri minorili ecc. rinvenibili negli artt. 1 e 8 del r.d.l. 1404.

Ci troviamo di fronte ad un nuovo modo di concepire la giustizia minorile, enfatizzato anche dalla ideologia del regime in auge in quegli anni. Le misure amministrative non repressive destinate a situazioni di abbandono e marginalità costituiscono una sorta di scala progressiva che conduce alle misure propriamente limitative della libertà e perciò penali. Come facilmente si evince dalla normativa tutte le condotte, anche non perseguibili penalmente hanno un esito segregativo[17].

Il trattamento dei minori disadattati e delinquenti è impostato su metodi correzionali, densi di autoritarismo e paternalismo severo, con un primo cauto approccio alle scienze psicosociali, attraverso la previsione di una osservazione scientifica del soggetto per una valutazione prognostica dei rimedi da adottare.

In ambito penitenziario il Regolamento n. 787 del 1931 ospita al suo interno alcune previsioni sparse dedicate ai minori internati, senza peraltro alcun tentativo di un raggruppamento quanto meno formale.

Il passaggio dal regime autoritario a quello democratico comporta la radicale trasformazione di una società rigidamente plasmata sulla logica autoritaria del Fascismo, in un sistema dove coesistono differenti interessi e idee politiche.

Espressione del cambiamento sono le leggi 888/ 1956 e 1085/1962 che proclamano le parole d’ordine della  rieducazione e del  trattamento individuale.[18] La prima, di più ampia portata riformatrice, introduce nuovi istituti meno contenutivi sul piano fisico ma ugualmente idonei a sopperire alle carenze affettive e psicosociali del soggetto, enfatizzando l’osservazione della personalità prevista per legge. La seconda disciplina le funzioni e l’organizzazione dell’Ufficio di servizio sociale per minorenni, formalmente previsto con la l. 1956 e plaude in tal modo ad una prassi di volontariato già attiva dal 1948[19].

Tali nuovi interventi legislativi spostano l’attenzione dal reato alle deficienze psicologiche interne del soggetto, inaugurando la tendenza ad intervenire sul minore << prima del raggiungimento del traguardo del delitto >>[20].

L’istruzione, l’apprendimento professionale e religioso, l’utilizzo di spazi chiusi ai condizionamenti esterni continuano ad essere prevalenti negli interventi di recupero sia amministrativi che penali.

In particolare la possibile risposta al comportamento penalmente illecito del minore è così articolata: uso di provvedimenti di clemenza ( perdono giudiziale, non imputabilità ) per chi subisce per la prima volta un procedimento penale o amministrativo, successivamente utilizzo di misure in libertà ( affidi ) ed infine internamento per i plurirecidivi[21].

Le forme di detenzione sono graduate da un minimo ad un massimo di afflittività: il riformatorio è la forma più leggera di contenimento, seguono la prigione-scuola e il manicomio giudiziario previsti per soggetti diversi ma equiparate per la loro forte capacità punitiva.

Le trasformazioni avvenute in epoche più recenti nella società italiana hanno lasciato il legislatore sostanzialmente impreparato. Lentamente si è assistito ad un crollo del sistema delineato dalle riforme del ’34 e del ’56, dovuto principalmente all’evoluzione della delinquenza minorile nelle forme e nelle tipologie.

Da segnalare l’intervento operato dal d.p.r. 24/07/1977 n. 166 che, in ossequio al processo di decentramento amministrativo già in corso, distingue i casi a rilevanza penale in cui ricorrere alla istituzionalizzazione dei minori dalla gestione, affidata appunto agli Enti locali, dei semplici casi educativo-assistenziali[22].

E’ del 1975 inoltre la l. 354 di ord. penit. che, innovando in maniera radicale la disciplina pregressa, ha costruito un sistema basato sui principi di legalità, tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive, umanità della pena, osservazione scientifica della personalità tesa ad assicurare trattamento rieducativo personalizzato. Ancora una volta si è però riscontrato quanto scarsa sia l’attenzione della normativa alla condizione del minore detenuto, a cui tuttavia, in virtù dell’art. 79 l. ord. penit., si applicano sostanzialmente le stesse disposizioni previste per i detenuti adulti.

Spostandoci nuovamente sull’aspetto processuale si arriva nel 1988 con il d.p.r. 488 alla riforma del processo minorile contenuto nella scarna disciplina del 1934, sfruttando la più vasta riforma del processo penale ordinario. Le disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, nel rispetto della delega legislativa ( art. 3 d.l. 16/02/1987 n. 81 ), sono espressione di un diritto speciale, parzialmente sostitutivo o integrativo del nuovo codice di procedura penale[23].

La volontà dei riformatori è inequivoca e riassumibile in quattro punti fondamentali[24]:

1.     fare sempre meno ricorso alla giustizia penale nei confronti delle condotte devianti dei minori;

2.     fare sempre meno ricorso alla risposta carceraria e più in generale custodiale come sanzione penale e modalità cautelare nei confronti dei minori condannati ed imputati;

3.     assicurare al minore il diritto al giusto processo;

4.     favorire la presa in carico del giovane delinquente da parte della società.

In sintesi possiamo prendere atto di una sorta di arretramento progressivo del penale-penitenziario in favore di interventi di presa in carico del disagio minorile da parte di strutture pubbliche e private, e la previsione all’art. 28 d.p.r. 488 della figura della Messa alla prova depone in favore di tale tesi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2.4 L’ordinamento penitenziario minorile: la mancata attuazione dell’art. 79

 

Quando si parla di diritto penitenziario si fa riferimento allo studio dell’esecuzione della pena, alle regole di una disciplina che può essere collocata in una zona intermedia tra procedura e diritto sostanziale.

Attualmente l’ord. penit. è regolato dalla l. 26/07/1975 n. 354 e dalle disposizioni di attuazione, dettate con il d.p.r. 29/04/1976 n. 431 e successive modificazioni.

Il problema più urgente di tale articolato sistema di norme nasce dalla circostanza di essere l’unico riferimento normativo anche per una popolazione carceraria, cioè quella minorile, diversa rispetto a quella per cui la l. 354 è stata pensata e strutturata.

All’epoca della sua prima redazione, nel 1960, il disegno di legge di riforma del sistema penitenziario ospita una parte dedicata ai minori sottoposti a misure limitative della libertà, sia di tipo penale che rieducativo. Nel successivo tentativo del 1965 le due materie sono ancora presenti nello stesso progetto. Più tardi invece si procede ad una separazione dei settori, ragionando sulla opportunità di non trattare unitariamente la riforma degli istituti di pena per adulti e la questione minorile.

Purtroppo al varo della riforma si prende coscienza dell’impossibilità di rendere operativi entrambi i progetti, perché “ il minorile ” risulta essere ancora incompleto. L’unica soluzione, per non ritardare l’entrata in vigore del nuovo ordinamento penitenziario, e contemporaneamente non lasciare i minorenni ristretti senza disciplina per effetto della caducazione del vecchio regolamento del 1931, è l’inserimento di una norma di natura transitoria che eviti tali inconvenienti[25].

Si tratta dell’art. 79, capo IV disposizioni transitorie e finali rubricato  Minori degli anni 18 sottoposti a misure penali. Magistratura di Sorveglianza[26].

L’art. 79 avrebbe dovuto garantire la possibilità di applicazione anche ai minorenni reclusi della disciplina più favorevole introdotta dalla riforma del 1975, e in modo particolare l’accesso alle misure alternative alla detenzione ( affidamento un prova al servizio sociale, semilibertà, detenzione domiciliare ecc. ).

E’ anche vero però come questo regime avrebbe dovuto applicarsi ai minorenni per un tempo limitato e cioè << fino all’emanazione di una apposita legge >> come recita il primo comma dell’art. in questione.

Sono trascorsi ormai più di 25 anni e non si è ancora intervenuti sul punto, svuotando in tal modo il significato della stessa lettera dell’art. 79.

L’inerzia legislativa ha per giunta creato le condizioni per frequenti interventi da parte della giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale, come avremo occasione di osservare, ha più volte lanciato un pesante monito al legislatore affinché provveda alla elaborazione di una disciplina esecutiva apposita per minori, sottolineando la pericolosità di ulteriori ritardi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2.5 La giurisprudenza costituzionale: gli interventi, le interpretazioni e gli indirizzi

 

La Corte Costituzionale è intervenuta in numerose occasioni sul punto dolens della mancata attuazione di un ordinamento penitenziario minorile; come è facile immaginare le sue pronunce hanno per oggetto la contrastata norma dell’art. 79 L. 354/1975 e di conseguenza i criteri carenti per l’applicazione delle misure alternative alla detenzione ai minori condannati alla pena carceraria.

Per semplicità di esposizione gli interventi del Giudice delle leggi possono essere compresi in tre distinte fasi temporali che hanno contraddistinto il suo percorso evolutivo nella interpretazione del fenomeno indicato[27].

La prima fase è caratterizzata dalla tendenza, promossa soprattutto dalla giurisprudenza di merito, di annullare in via interpretativa i rigidi confini posti dalla normativa penitenziaria alla possibilità di beneficiare degli istituti alternativi al carcere, in favore di una applicazione più flessibile degli stessi nei confronti di minori, anche quando la loro condanna non fosse ancora divenuta esecutiva.

Esempi esaustivi di tale filone interpretativo sono le:

o       Sent. n. 46 del 1978[28] che ha dichiarato inapplicabile  ai minorenni la cosidetta Legge Reale con la conseguente possibilità di concedere ad essi la libertà provvisoria senza limitazioni in ordine al tipo di reato commesso;

o       Sent. n. 122 del 1983[29] con cui la Corte, ribadendo la specificità minorile, giunge ad estendere la competenza degli organi giurisdizionali designati ad hoc per gli infradiciottenni anche se hanno concorso con maggiorenni alla commissione del reato.

In un secondo momento invece la Corte muta atteggiamento, probabilmente per motivazioni di ordine politico e si limita a pronunce di << rigetto con accertamento di incostituzionalità >>[30].

Nella medesime pronunce tuttavia invita insistentemente il legislatore ad intervenire per rimuovere una ingiustificata equiparazione tra soggetti adulti e minorenni, contrastanti con gli articoli fondamentali della Carta Costituzionale in materia di protezione della gioventù e di uguaglianza.

Tali chiari intendimenti della Corte sono presenti nelle sentenze n. 125/1992 relativa alla richiesta di dichiarare l’illegittimità dell’art. 79 l. ord. penit. e n. 168/1994[31]con cui viene proclamata l’assoluta contrarietà della condanna di un minore all’ergastolo ai basilari principi di umanità, ragionevolezza e proporzionalità della pena, accentuati nel caso di autori di reati non maggiorenni.

In verità questo slancio della Corte viene accolto con qualche perplessità dal momento che ad un solo anno di distanza, precisamente nel 1993, la medesima questione veniva dichiarata non ammissibile con la sentenza n. 140[32].

Di recente invece la Corte Costituzionale si è orientata in maniera differente tramite ripetute pronunce di accoglimento riferite a vari aspetti di una disciplina, quale quella penitenziaria, inadatta ad un minore e bisognosa di una urgente riforma.

Possiamo ricordare dunque la sent. n. 109/1997[33] che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 67 l. n. 689/ 1981 nella parte relativa ai minori, perché esclude l’affidamento in prova e la semilibertà per i condannati la cui pena detentiva derivi da conversione di pena sostitutiva per violazione delle prescrizioni; la sent. n. 403/1997[34] la cui pronuncia ha colpito l’art. 30 ter co. 5 l. ord. penit. ed infine la sent. n. 450/1998[35] sempre sui permessi premio e la sent. n. 436/1999[36] con la quale la Corte dichiara incostituzionale l’art. 58 quater co. 2 L. ord. penit. compiendo un ulteriore passo nel cammino di differenziazione dei condannati minorenni rispetto a quelli adulti[37].

Credo sia utile prendere atto di queste pronunce peraltro portatrici di una forte istanza di cambiamento in un settore, quello penitenziario, in cui si registra la più vistosa lacuna normativa esistente nel sistema penale minorile italiano[38].

Come ha sottolineato giustamente la Corte Costituzionale in una delle sentenze sopra riportate ( 168/1994 ) non è dato alla medesima Corte il potere di sostituirsi al legislatore creando un sistema di pene, adeguato a soggetti ancora in fase di formazione e alla ricerca della propria identità, e nei confronti dei quali sia in grado di promuovere la volontà di accettazione delle regole più importanti del consorzio sociale.

Al momento attuale tuttavia l’ingiustificato silenzio del legislatore non è stato interrotto.

 

 

 

 

 

2.6 Quale è il futuro della giustizia minorile?

Nelle pagine precedenti si è cercato di chiarire come il sistema di giustizia minorile attualmente esistente non sia in grado di operare in maniera ottimale. Pur riconoscendo la portata innovativa del d.p.r. n. 488/1988 non si può fare a meno di auspicare un intervento del legislatore mirato in modo particolare ad un settore, quello penitenziario, rimasto orfano di attenzioni dal lontano 1975.

L’obiettivo primario della riforma del processo minorile del 1989 era l’introduzione nel nostro sistema di un rito penale che non interrompesse “ i processi educativi in atto ”, adeguando le norme alla personalità e alle esigenze educative del minore oltre che alla sua eventuale e necessaria punizione. Deponeva in tal senso l’istituto  della messa alla prova con le sue innovative capacità di coniugare educazione e punizione in contesti non fisicamente contenitivi. Di conseguenza sembrava reale la possibilità di allontanare il carcere per i minori autori di reato, accogliendo le indicazioni della Corte Costituzionale e di vari consessi internazionali.

Oggi si deve purtroppo constatare che le novità introdotte sono per molti versi non concretamente fruibili, per lo meno per quei giovani imputati di origine straniera che costituiscono la maggioranza della popolazione carceraria minorile.

I problemi maggiori sono legati ai contesti socioambientali di questi ragazzi e, all’assenza di mezzi adeguati per impedire certe evidenti disuguaglianze di trattamento. Purtroppo per fronteggiare la crescente criminalità minorile straniera l’unica soluzione alternativa ad un giudizio indulgenziale è proprio il carcere, quando già da qualche anno esperti e studiosi della materia si confrontano e si interrogano sull’utilità della istituzionalizzazione come misura in grado di dare una valida risposta alla devianza minorile. Infatti la tendenza in atto si connota per una progressiva rinuncia del penale penitenziario come sistema egemone di disciplina sociale dei minori.

In tal senso sembrano indirizzare le cosiddette tesi di Brema, presentate al XIV Congresso dell’Associazione internazionale dei magistrati della gioventù e della famiglia ( Aimjf )[39].

Tali enunciati sono chiaramente orientati verso il promuovimento del diritto penale minorile come diritto necessariamente autonomo rispetto a quello previsto per gli adulti ( n. 1).

Inoltre viene auspicato un intervento verso la delinquenza minorile che benefici di un sistema di afflittività progressiva all’interno del quale privilegiare la riparazione dei danni e la composizione del conflitto tra autore e vittima ad ogni stadio della procedura ( 12 ); dunque pene detentive di durata limitata e ricorso al carcere solo nei casi di grave e ripetuta violazione della norma ( 15, 30 ).

Le indicazioni dell’ Aimjf sono precise ed inequivocabili, tuttavia l’Italia stenta ad attivarsi nel senso di una riforma da più parti auspicata. Si possono registrare solo alcuni timidi tentativi in tal senso, senza peraltro alcun seguito a quel che è dato conoscere. Il riferimento è in primis al progetto di legge Martinazzoli su un autonomo ordinamento penale minorile naufragato con il termine della legislatura, e al più recente d.d.l. n. 7225 del 18 Luglio 2000[40]assegnato alla II Commissione Giustizia in sede referente.

Il d.d.l. rappresenta ad onor del vero un tentativo di recepimento delle varie sentenze della Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi in merito all’art. 79 della l. ord. penit., e all’applicazione alquanto problematica delle misure alternative ai minori di età autori di illeciti penali.

All’interno della relazione al d.d.l. si legge chiaramente l’intenzione di un adeguamento delle forme del trattamento che accentui le opportunità di recupero in soggetti dalla evidente fragilità psicofisica insieme ad una verifica costante dell’utilità di una pretesa punitiva da attuarsi attraverso la totale privazione della libertà personale.

L’obiettivo principale del progetto è quello di strutturare, senza il ricorso alla detenzione intramuraria, un sistema di misure adattabili alle opportunità, spesso mutevoli di recupero, offerte dai servizi territoriali e soprattutto alle risposte del minorenne.

Inoltre merita di essere sottolineata la menzione, fatta con riferimento a tali nuove possibilità, di prescrizioni relative all’attivazione di forme di giustizia riparativa attraverso prestazioni a favore della vittima del reato o della collettività.

Quanto allo strumento principe per attuare un tale positivo cambiamento, la relazione prende in considerazione un articolato sistema di norme di carattere regolamentare, dettagliato e di pronta ricezione.

Questo schema ha delle notevoli potenzialità e sembrerebbe in grado di dare finalmente avvio ad una strategia complessiva di presa in carico di un disagio giovanile che assume forme a volte diversissime nelle varie aree del nostro paese, imponendo un intervento che fronteggi il rischio sociale conseguente e offra contemporaneamente un sistema di giustizia e forme di esecuzione interamente ripensati.

 

 

 

 

CAPITOLO III

 

I principi di giustizia riparativa: i nuovi scenari della giustizia penale minorile

 

3.1 Sistema sanzionatorio minorile: è tempo di riforme

La criminalità minorile, come risulta dai dati raccolti e oggettivamente interpretati, è un fenomeno che conosce un forte dinamismo al suo interno, arricchendo la pratica di episodi diversi e di forte impatto sociale. La “ maladolescenza ”, come qualcuno l’ha definita[41], ha cambiato volto e di conseguenza si rende necessario un intervento mirato per abbattere quanto meno la soglia di recidiva, offrendo risposte sanzionatorie più aderenti e funzionali al singolo caso.

Al momento attuale le indicazioni per una riforma vanno verso il settore dell’esecuzione: da molto tempo i giudici e gli operatori minorili discutono sulla possibilità di realizzazione di un ordinamento penitenziario autonomo per i minorenni[42]. E questo, nonostante le recenti tendenze di politica penale internazionale siano contenutisticamente orientate verso un sostanziale rifiuto dell’istituzione totale, universalmente considerata fallimentare dal punto di vista educativo, << produttrice di elevata disgregazione nei suoi utenti, e nettamente passiva in termini economici, politici e sociali >>[43].

Tuttavia è stato giustamente osservato come in assenza di risposte sanzionatorie tipiche per la devianza dei più piccoli, il carcere e dunque la pena detentiva conserva il primato indiscusso[44]. Infatti la legge penale prevede per gli autori di reati, adulti o minorenni, risposte non diversificate e, a parte le recenti modifiche ed innovazioni in tema di misure alternative e sanzioni sostitutive[45], il nostro ordinamento basa la sua reazione all’illecito penale sulle categorie tradizionali della pena detentiva e della pena pecuniaria.

Gli unici correttivi a favore dei minori poggiano sulla eliminazione per gli stessi della pena dell’ergastolo e della pena pecuniaria come sanzione sostitutiva. In caso poi di riconosciuta imputabilità è previsto il solo meccanismo della diminuzione della pena fino ad un terzo[46].

Di conseguenza i minori continuano ad andare in carcere, vanificando le migliori intenzioni che il nuovo rito penale del 1989 intendeva perseguire, con l’introduzione di congegni processuali dai riflessi di natura sostanziale, in grado di rendere il ricorso all’istituzionalizzazione una scelta marginale[47].

Preso atto di tale realtà è indispensabile introdurre una riflessione, in quanto se l’obiettivo da perseguire è una riforma penitenziaria non apparente, occorre in primis individuare il sistema sanzionatorio di riferimento. Tutti i regolamenti penitenziari dell’Italia postunitaria hanno visto la luce in seguito a riforme di natura sostanziale e processuale, eccezion fatta per le leggi di ordinamento penitenziario del 1975 e del 1986, nate autonomamente per l’improponibile intervento anche sul sistema penale[48].

La sola alternativa immaginabile sarebbe quella di procedere ricalcando la strada aperta dalla l. Gozzini, utilizzando la riforma penitenziaria come occasione di intervento anche sul sistema sanzionatorio, con l’accorgimento di collocare le nuove norme sostanziali e procedurali nelle apposite sedi codicistiche, servendosi di quei bis, ter, quater già sperimentati nella nostra legislazione[49].

Comunque si decida di procedere, rimane fermo il fatto che l’attuale sistema sanzionatorio non solo è poco rispettoso del dato costituzionale, ma è distante dalla scelta compiuta da diversi paesi europei che hanno inteso affidarsi, in caso di devianza minorile, a risposte calibrate e adeguate, di valido supporto al reinserimento sociale del soggetto[50].

Naturalmente non è semplice costruire risposte sanzionatorie valide ed efficaci che prevedano il ricorso al carcere solo in via residuale.

Al fine di una loro più puntuale individuazione potrebbe risultare agevole ricordare ciò che la Corte Costituzionale ha affermato riguardo alla giusta configurazione delle pene minorili.

Il giudice delle leggi ha sentenziato che la tutela del minore è un interesse costituzionalmente preminente e dunque, in caso di commissione di reati, il compito della giustizia minorile deve essere improntato al recupero del minore deviante, attraverso la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale[51].

Tale scopo deve essere perseguito in tutti i momenti in cui la giurisdizione si esplica nei confronti dei minori.

Se questo è vero allora anche la fase esecutiva deve essere improntata, nel rispetto dei suoi limiti naturali, ad un intervento positivo sul minore nell’ottica di rieducazione.

Tuttavia un intervento di tale tipo richiede una disciplina specifica e flessibile che tutt’oggi manca, perché il trattamento penitenziario minorile conosce solo le misure alternative e gli istituti premiali previsti per gli adulti.

La Corte ha manifestato il suo pensiero circa la necessità di un trattamento diversificato del minore in occasione della pronuncia con cui ha proclamato la pena dell’ergastolo, incompatibile con la minore età e dunque inaccettabile[52]. La Corte ha così espresso, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’insopprimibile esigenza di mutare il segno del principio immanente alla pena, richiedendo risposte non rieducative, ma educative nel pieno rispetto dell’art. 31² della Costituzione.

Tale conclusione si basa su di una raffinata tecnica interpretativa che vede l’innesto del precetto costituzionale diretto alla tutela dell’infanzia e della gioventù da parte dello Stato sull’art. 27³ della Costituzione.

Il risultato riveste un enorme importanza con riferimento al significato che la pena deve assumere nei confronti dei minori; infatti mentre per gli adulti è sufficiente la predisposizione di congegni sanzionatori rispettosi del precetto dell’art. 27³ Cost., la prospettiva muta quando si tratta di personalità ancora in formazione. Per questi ultimi casi non è sufficiente predisporre pene rieducative, bensì meccanismi educativi che devono trovare nell’art. 31² Cost. il loro parametro di riferimento ideale[53].

Tra le considerazioni in diritto merita di essere considerato il passaggio in cui la Corte sottolinea come l’esistenza di provvidenze nei confronti dei minori, la fruibilità di determinati benefici durante l’esecuzione o la possibilità di accesso alla liberazione condizionale in qualunque momento, abbiano soddisfatto la previsione dell’art. 27³ della Cost. relativamente al trattamento dallo stesso auspicato[54].

o       Ma alla luce delle nuove considerazioni tali istituti non appianano le riserve dal punto di vista dell’art. 31 comma 2 della Costituzione.

Appare dunque lecito leggere in questo sviluppo interpretativo l’intendimento della Corte Costituzionale di indirizzare il legislatore verso percorsi sanzionatori, utilizzabili a fianco del carcere e destinati sempre più a sostituirlo.

In fin dei conti il carcere storicamente non nasce come pena, bensì come strumento per assicurare l’imputato al processo, e solo successivamente è maturata la convinzione della sua efficacia in funzione di castigo e di deterrente per colui che si è reso responsabile di un grave delitto[55].

L’evoluzione della scienza giuridica più recente ha invece confermato quanti e gravi danni l’istituzione totale è capace di produrre su coloro che si trovino a contatto con quel luogo chiuso, fisso ed impenetrabile come le mura che lo circondano.

Un’immagine di tale tipo diventa ancora più esaustiva quando viene trasferita in ambito minorile, essendo forte la convinzione che il carcere sia decisamente inadeguato a provocare positivi cambiamenti. In un ambiente di questo tipo esiste il rischio concreto per il ragazzo di subire condizionamenti e stimoli negativi, alimentati dalla necessità, per sopravvivere, di stringere o subire l’alleanza dei compagni[56].

Ciononostante quando la devianza raggiunge i massimi livelli e diventa una vera e propria condotta di vita, ispirata al pieno disprezzo della legalità e della propria ed altrui esistenza, sembra quasi impossibile trovare delle risposte alternative che risolvano il problema delle esigenze di difesa collettiva e, contemporaneamente, soddisfino attività di recupero del minore deviante[57].

Accanto a tali casi – limite, bisogna tener conto poi della nutrita schiera di minorenni stranieri presenti in carcere in netta prevalenza rispetto all’utenza italiana[58]. Per questi ragazzi occorrono misure ancora più specifiche in considerazione della diversa cultura di appartenenza e alla quasi totale assenza di figure famigliari di riferimento[59].

Inoltre gli attacchi quasi quotidiani di una stampa giornalistica poco obiettiva e talora di parte verso l’opera dei magistrati minorili, accusati di eccessiva benevolenza e troppa disinvoltura nel risolvere complesse e drammatiche vicende che vedono i minori coinvolti come responsabili, non facilita naturalmente il dialogo pubblico sul più classico argomento di contrapposizione di ogni forma di trattamento esterno e, cioè, i legittimi diritti di rivalsa della o delle vittime[60].

I criteri di ammorbidimento e di apertura delle pratiche penitenziarie mal si sposano infatti con i desideri di ottenere giustizia da parte di chi ha subito un danno, morale o materiale, in seguito al reato.

Come si evince da quanto detto, rimane aperto il dibattito sul mantenimento del carcere fra le strutture più rispondenti a perseguire la delinquenza minorile, ma rimane la volontà di molti di scoprire se esistono strade diverse per liberare la punizione dai “ ferri della prigione ”[61]e assicurare la disponibilità di strumenti sanzionatori, accettabili e socialmente legittimati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3.2 Le misure alternative alla detenzione minorile

Oggi è in atto una nuova e fertile osservazione sui temi della punizione della devianza minorile, grazie alla quale è obiettivamente riconoscibile una tendenza ad impiegare in modo esteso tutte le risorse alternative alla pena[62]. Le riflessioni sulla pena vanno in realtà in diverse direzioni, anche se è doveroso sottolineare come l’evoluzione verso una criminologia alternativa consti soprattutto di alcuni punti centrali di riferimento. A titolo di esempio, basta ricordare l’analisi delle istituzioni penitenziarie e la conseguente tendenza a sviluppare forme di trattamento non istituzionalizzanti nei confronti della devianza in genere, nonché lo sviluppo della vittimologia, con una crescente attenzione alla problematica delle vittime del reato e la loro tutela. Tali recenti acquisizioni, insieme al riconoscimento del fallimento dei miti rieducativi sono state di apprezzabile sostegno al concretizzarsi dell’idea di una esecuzione penale alternativa all’istituzione ed ad essa esterna.

Le linee-guida più significative di questi studi, diretti alla concretizzazione di misure sanzionatorie diverse dalle tradizionali, propongono il raggiungimento e la non sempre facile conciliazione dei seguenti obiettivi[63]:

§        far prendere coscienza del fatto illecito, del danno provocato, dell’ esistenza delle vittime;

§        favorire il distacco dall’ambiente criminogeno in cui il soggetto conduce la propria esistenza: in simili circostanze si può e si deve ricorrere anche a misure limitative o privative della libertà, per isolare il minore da un contesto solo apparente di libertà[64];

§        evitare di alimentare il circuito delle identificazione negativa;

§        fornire occasioni in positivo di responsabilità, socializzazione e di rapporto e confronto con adulti credibili. Ad ogni ragazzo deve essere offerta l’opportunità per dimostrare a se stesso di essere capace di “ azioni socialmente utili ”.

Le premesse sono molto ambiziose, tuttavia l’uso corretto delle alternative riserva degli spazi di apertura non indifferenti, anche se la consapevolezza in ordine a tali invitanti scenari non è così diffusa[65].

Prima di esaminare quali variazioni, sul tema delle sanzioni minorili, sono praticabili si rende indispensabile una precisazione circa l’utilizzo del termine alternativa in differenti accezioni.

Nel tentativo di orientarci nel << ginepraio delle distinzioni tra le misure sanzionatorie adottate in conseguenza di un fatto di reato commesso da un minorenne >>[66], possiamo distinguere due tipi di alternative: quelle individuate dalla L. di ord. penit. n. 354/1975 e le pene limitative della libertà personale, anche definite alternative in senso proprio[67].

Le prime si fondano su di un sinallagma, una sorta di scambio: lo Stato cede la sua pretesa punitiva in cambio della “ promessa ”del reo ad impegnarsi in un cammino di risocializzazione e di rinuncia alla sua predisposizione al reato[68]. Tali figure sono riconducibili allo schema del probation, mutuato dalla esperienza dei paesi di origine anglosassone, nonostante sia rilevabile una certa improprietà nelle qualificazione del probation come pena alternativa[69].

Appartengono a detta categoria gli istituti collocati sistematicamente nel Titolo I Capo VI della legge del 1975, trattandosi dell’affidamento in prova al servizio sociale ( art. 47 ), della detenzione domiciliare  (art. 47 ter ), della semilibertà ( artt. 48-52 ) e della liberazione anticipata ( art. 54 ). Completa il quadro la liberazione condizionale disciplinata dagli artt. 176, 177 del c.p., perché introdotta dal codice Zanardelli ( 1889) e apprezzabile ai fini della gestione carceraria e della risocializzazione del detenuto[70].

Tuttavia le misure del Capo VI, a cui per volontà legislativa appartiene il nomen iuris di alternative alla detenzione, non sono le sole ispirate al principio di utilità sociale della pena. Sull’applicazione di tale postulato si basa la funzione delle sanzioni sostitutive introdotte dalla L. 689/1981; la semidetenzione, la libertà controllata e la pena pecuniaria trovano conferma grazie all’esperienza maturata riguardo l’inutilità delle pene detentive brevi.

Le sanzioni definite dalla normativa come sostitutive o alternative nascono in realtà come pene detentive, e assumono una diversa connotazione solo in virtù di una trasformazione della medesima, rispettivamente contestuale e successiva, pronte a riconvertirsi in carcere in caso di inosservanza delle prescrizioni che le caratterizzano[71].

Di contro con l’espressione “ alternative in senso proprio ” si intende far riferimento a pene ontologicamente e sin ab initio diverse dalla detenzione, ma pur sempre incidenti sulle autonome scelte individuali.

Ad avviso di vari autori[72] è proprio quest’ultimo il settore dal quale attingere contributi preziosi per trasferire la reazione penale alla devianza minorile dai rigori della limitazione spazio – temporale ai più responsabilizzanti orizzonti di attivazione personale per rimediare, ancora meglio, riparare all’azione negativa del reato.

Le misure in oggetto si differenziano infatti da quelle conosciute e praticate fino ad oggi nel nostro sistema legislativo, perché con esse non si richiede il cambiamento del soggetto o del suo sistema di vita – operazione troppo pretenziosa e spesso illusoria – bensì, più realisticamente l’esecuzione puntuale di una sanzione diversa dal carcere, ritenuta sufficientemente retributiva e ricca di valenze educative.

Nelle ipotesi di pena comportante un facere, quale ad esempio lo svolgimento di un lavoro di pubblica utilità, l’adoperarsi in favore di determinate categorie di persone deboli e disagiate, la riparazione diretta o indiretta del danno scaturito dalla commissione del reato, deve comunque rimanere fermo un punto fondamentale, ossia è necessario il consenso dell’interessato, senza il quale la misura stessa si svuota di significato[73].

Per fornire una leale rappresentazione dell’odierno stato di salute delle alternative “ ospitate ” nell’ordinamento penitenziario, si deve sottolineare che la normativa ha portato l’esecuzione penale esterna ad una notevole diversificazione. Tuttavia non si può fare a meno di segnalare la persistenza di limiti, ambiguità e contraddizioni nella prassi applicativa degli istituti sopra ricordati[74].

Per essere più espliciti alcune delle figure prese in considerazione ( in particolare l’affidamento ) sono ritagliate su misura per un certo tipo di utenza con problematiche di emarginazione, di disadattamento personale e sociale e di difficoltà di inserimento. Di conseguenza hanno più probabilità di successo se disposte nei confronti dei loro naturali destinatari; malgrado ciò spesso questi ultimi non riescono ad usufruirne per la mancanza di alcuni punti fissi di riferimento a cui è subordinato l’accesso a tali istituti[75].

Occorre mettere in campo ogni risorsa e impiegare tutta la fantasia di cui si è capaci per potenziare queste misure, perché vengano attentamente mirate e differenziate e si aprano a contenuti e prescrizioni che aiutino ad educare e responsabilizzare il minore nei confronti delle vittime della propria violazione in prima battuta, e nei confronti della società nel suo complesso.

E’ stato sostenuto che il diritto penale dovrebbe mantenere nel settore minorile aspirazioni modeste[76], dunque non rimane altro se non concentrare l’attenzione sui quei principi di mediazione e riparazione, così cari a tutti i sistemi avanzati di giustizia dei minori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3.3 La giustizia riparativa e la mediazione come nuovi modelli di giustizia in ambito minorile

 

3.3.1 La giustizia riparativa: origini e sviluppi

L’amministrazione della giustizia ha cambiato spesso volto nel corso degli anni, ispirandosi nella sua applicazione concreta a modelli di intervento divergenti per oggetto, mezzi, obiettivi, e riconducibili a scelte politiche e ad orientamenti filosofici che hanno contribuito, di volta in volta, al loro affermarsi o al loro declino.

L’azione giudiziaria è stata condotta sostanzialmente sulla base di tre forme di composizione dei conflitti: il modello retributivo, quello riabilitativo, e il riparativo37.

Nel primo modello l’attenzione è focalizzata sul reato e, una volta accertata la colpevolezza del soggetto, lo si persegue tramite l’applicazione della giusta punizione, spesso consistente nella privazione della libertà personale. La retribuzione è espressione di una giustizia rigida e repressiva, riconducibile a forme di vendetta privata proprie delle società arcaiche e delle civiltà culturalmente poco sviluppate. Nelle società moderne permane questa volontà di “ far pagare il male con il male ”, ma tale compito viene assunto dallo Stato, attraverso la previsione di riti di risarcimento consistenti in forme di sofferenza da infliggere al reo come retribuzione sociale38.

Il modello riabilitativo invece, si prefigge lo scopo di modificare il comportamento deviante, e dunque oggetto centrale dell’intervento è l’autore del reato sul quale si cerca di agire con l’utilizzo di strumenti e tecniche conseguite dopo l’ingresso delle scienze psicologiche e sociologiche nell’area del trattamento della delinquenza39.

La riparazione rappresenta l’ultimo in ordine temporale dei modelli di giustizia a cui si è fatto appello per tentare di superare la situazione di disagio creatasi nel settore penale a seguito dell’acquisita consapevolezza dell’inefficacia delle politiche precedentemente adottate. La giustizia riparativa è portatrice di una visione nuova del reato, non più considerato come offesa nei confronti dello Stato, quanto piuttosto come lesione dei diritti della persona; grazie a questa costruzione vengono considerati nella giusta prospettiva i danni provocati dal delitto, prevedendo azioni del reo dirette a reintegrare l’offesa patrimoniale e morale inferta con il proprio atto. Di recente elaborazione tale modalità vanta tuttavia origini antiche, riconducibili ad un progetto di comunità pre-statuale in cui le offese erano fatti che riguardavano la vittima e l’aggressore, senza alcuna ingerenza da parte dello Stato.40 Infatti il concetto di restituzione, intesa come forma di risarcimento economico alla vittima da parte di chi le ha ingiustamente provocato un danno, era presente nello schema normativo di grandi civiltà passate; già il Codice di Hammurabi del 1700 a.C. prevedeva la restituzione per alcuni reati contro la proprietà, mentre la Legge romana delle Dodici Tavole ( 449 a.C. ) stabiliva che i ladri condannati pagassero il doppio del valore dei beni rubati, con meccanismi di aumento della sanzione in caso di mancata collaborazione o di ostruzionismo da parte del colpevole41.

Ancora, la Lex Salica del 496 d.C., prima raccolta di leggi tribali germaniche accoglieva per alcuni tipi di reato tale meccanismo sanzionatorio, che ritroviamo anche nell’Inghilterra del 600 dove venivano elaborati appositi sistemi di compensazione con dettagliate tabelle per la valutazione del danno42.

Dunque la riparazione non è sconosciuta come tecnica di giustizia, anche se viene abbandonata, a partire dal Medioevo per ricorrere a modelli basati sulla reazione forte e accentratrice di coloro che governano in quei secoli bui e violenti, scossi da guerre e lotte senza quartiere per la conquista del potere politico, militare ed economico.

Con l’affermarsi dello stato moderno la situazione non muta, anzi si rafforza la convinzione che per rendere il potenziale delinquente rispettoso della legge è necessario agire con pene e sanzioni esemplari, in grado di ridurre la probabilità di futuri crimini, dirette in un primo tempo, alla neutralizzazione e alla deterrenza del soggetto deviato, poi, più recentemente alla sua  rieducazione43.

L’idea di una forma riparativa di giustizia riprese vigore all’inizio degli anni cinquanta, quando alcuni giudici interessati a tale figura emisero sentenze con le quali imposero ai delinquenti il pagamento di una somma di denaro o la prestazione di un servizio a favore della vittima se esistente e consenziente, ovvero alla comunità al fine di riparare simbolicamente o materialmente il danno causato dal crimine44.

Ma quale tipo di riferimento filosofico supporta la convinzione che un modello di giustizia, come quello in esame possa risultare vincente laddove altre tecniche, pur forti di apprezzabili riscontri si sono rivelati inadeguati? La risposta è piuttosto articolata, in quanto l’idea di una giustizia riparativa non è appannaggio di una corrente ben determinata, bensì è presente all’interno sia dei movimenti abolizionisti, sia in quelli maggiormente legati al concetto di riabilitazione45.

Il movimento abolizionista è a sua volta distinto in due correnti: l’abolizionismo radicale e l’abolizionismo istituzionale. Il primo si fa portavoce del progressivo abbattimento di tutte le istituzioni chiuse e segreganti in nome di un controllo sociale esercitato tramite l’uso di formule più morbide e umanizzanti; il secondo propone l’eliminazione delle strutture carcerarie senza rinunciare per questo al sistema di giustizia penale. Proprio a quest’ultima concezione viene ricondotto il modello riparativo, mentre altri autori invece ritengono contrariamente che la riparazione sia il risultato della osservazione empirica condotta dal movimento definito come New Realism, di origine anglosassone. Attraverso le loro ricerche i new realist registrano una maggior propensione alla delinquenza da parte delle classi sociali meno abbienti, da cui provengono però anche forti richieste di difesa sociale contro gli episodi violenti provocati dalla marginalizzazione. Da questo assunto partono le loro proposte di politica criminale, che prevedono misure alternative alla detenzione, programmi di conciliazione vittima – autore, l’organizzazione di servizi di quartiere in ausilio alle forze di polizia, insieme ad altri strumenti riduttivi delle disuguaglianze sociali cause prime dell’avanzata del crimine46.

Ai giorni nostri si cerca di approfondire il concetto di riparazione a seguito dell’esigenza riscontrata da più parti di affidarsi, per l’amministrazione della giustizia, a metodi nuovi, alternativi e più puntuali nella offerta di risposte concrete alle richiesta di difesa sociale e a quelle della vittima, per lungo tempo non considerate.

Spesso la punizione del colpevole ad opera dello Stato, secondo i modelli retributivo e riabilitativo non rende alcuna giustizia alla vittima del reato, ed inoltre frequentemente la potestà repressiva statuale non sortisce neppure l’effetto di scongiurare il pericolo di commissione di futuri crimini. La riflessione in tal senso e il disagio manifestato dalle strutture proprie del Welfare State di far fronte al crescente aumento di forme meno note di delinquenza sembra aver rafforzato la tendenza ad un impiego più puntuale dei principi riparativi.

In più gli assunti della scienza vittiminologica47, più attenta ai bisogni delle vittime dei reati, hanno giocato un ruolo preponderante verso il riconoscimento diffuso delle potenzialità della giustizia riparativa come modalità di risoluzione dei conflitti e di ripristino dell’ordine violato.

Grazie al paradigma riparativo la vittima del reato e il suo autore divengono attivi protagonisti della rielaborazione del vissuto originato dall’atto criminoso; la “ pretesa punitiva ” dello Stato passa in secondo piano, perché il sistema è finalizzato all’individuazione di una soluzione che possa ristorare ( di qui la definizione restorative justice ) materialmente e moralmente la vittima, responsabilizzando allo stesso tempo costruttivamente il reo48.

 Proprio da questo dualismo attivo vittima – autore traspare l’originalità della proposta riparativa che coglie la possibilità di restituire ai protagonisti del fatto illecito il potere, la responsabilità e l’impegno di ristabilire un contatto corretto49.

 La riparazione, inoltre, è capace di sviluppare al suo interno tipologie di attuazione differenziate che le attribuiscono la qualifica di modello onnicomprensivo con più anime50.

 Si è detto, infatti, che la giustizia riparativa corrisponde ad un diverso modo di intendere la pena, la sanzione e fa riferimento ad un modello di società basato sulla riconquista da parte della collettività del ruolo primario nella gestione dei conflitti, sottratto all’azione autoritaria statuale. Ciononostante qualcuno si è domandato se non sia possibile conciliare il concetto di riparazione con quello di pena, se cioè la giustizia riparativa possa realizzarsi anche attraverso modalità alternative di applicazione della pena.

La domanda è nata in seguito alla constatazione, che i principi innovativi contenuti nella figura non abbandonano totalmente l’ideale riabilitativo; anzi da quest’ultimo sono tratti i contesti normativi (quelli regolanti le misure alternative) e le modalità applicative del nuovo modello, quali il risarcimento materiale del danno, il lavoro gratuito di pubblica utilità, la riconciliazione simbolica con la vittima del reato, nonché figure professionali che possano gestire i modi e i contesti prescelti51.

Il pluralismo metodologico e il notevole campo di sperimentazione fanno della riparazione uno strumento assai valido per una ridefinizione del campo della giustizia in generale e di quella minorile in particolare, bisognosa di trovare delle basi costruttive per aiutare i minori, con gravi problemi di accettazione delle regole della civile convivenza, ad evitare un peggioramento delle opportunità di recupero e di integrazione.

E’ vero che l’obiettivo principale della giustizia riparativa è quello di dare il massimo spazio ai bisogni e alle richieste delle vittime di episodi criminosi, ma persegue anche finalità diverse quali, ad esempio, la possibilità di approntare una misura penale percepita come equa dal reo, perché inflitta dal soggetto che ha patito il danno e, inoltre, si connota di una forte valenza educativa per quel senso di vergogna, capace di far comprendere il disvalore dell’atto criminoso a colui che lo ha commesso52.

Molti paesi europei non hanno perso tempo e le sperimentazioni positive hanno sancito a livello legislativo l’utilizzo della riparazione come modello principe di intervento nel circuito della delinquenza minorile, e implicitamente legittimato tutti i percorsi rinvenibili al suo interno. Fra questi si colloca sicuramente la mediazione, considerata appunto una delle tecniche o, meglio dei linguaggi più efficaci della giustizia riparativa53.

 

 

 

 

 

3.3.2 La mediazione

Letteralmente la parola mediazione indica il porsi in mezzo, l’attività di interposizione tra più parti; in linea con questa codificazione si colloca la norma del Codice civile54 che qualifica il mediatore come << colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna da rapporti di collaborazione, di dipendenza e di rappresentanza >> ostativi dell’imparzialità propria del ruolo assunto.

Nel linguaggio corrente per mediazione s’intende invece l’attività di composizione di interessi effettivamente o potenzialmente in conflitto55.

In sintesi la mediazione si presenta dunque come tecnica di incontro – confronto fra due o più parti, allo scopo di risolvere una questione pubblica o privata, riguardo alla quale è sorta una controversia suscettibile di assumere differente rilevanza a seconda del contesto di riferimento.

La tematica riveste una notevole importanza se rapportata alla realtà concreta, spesso teatro di relazioni sociali problematiche e di altrettanti complessi tentativi di gestione dei conflitti che da questi rapporti scaturiscono. Al momento attuale è l’istituzione giudiziaria e l’apparato che la governa, a conservare il ruolo di sede privilegiata per la composizione di interessi contrapposti, nonostante il clima di generale insoddisfazione e le critiche a volte feroci di lentezza e di eccessivo formalismo56.

Rebus sic stantibus è naturale soffermarsi con rinnovata attenzione sulle ultime scoperte della scienza giuridica moderna per tentare di rimediare ad un potere giudiziario ipertrofico, sintomatica espressione di una crisi più vasta che abbraccia l’intero sistema, coinvolgendo le più importanti agenzie sociali. Infatti il crollo delle strutture intermedie fra lo Stato e la società civile mostra che l’intervento della giustizia è invocato sempre più spesso per regolare conflitti che non costituiscono infrazioni penali, e la cui risoluzione discende più da interventi di carattere sociale che da un’azione giudiziaria classica57. Per un esercizio più agile della giustizia e, per allentare la pressione sui vari Tribunali italiani dovuta all’eccessivo carico di contenzioso, è stata introdotta la normativa del d.l. 28 agosto 2000 n. 274 che, con riferimento alle competenze penali del Giudice di Pace, ha ampliato il campo di intervento di tale organo e, nel contempo ha recepito modalità tipiche della filosofia mediativa, creando in questo modo una collocazione trattamentale idonea per quei conflitti di lieve o media entità di cui i Giudici di  Pace di solito si occupano58.

Nella medesima direzione si muovono i tentativi di conciliare il modello riparativo e la mediazione con il settore minorile, maggiormente interessato a tecniche di recupero educative, responsabilizzanti e meno afflittive. In altri termini: il penale minorile può e deve diventare terreno di coltura del diritto mite; la giustizia mite59 si sviluppa lungo i sentieri delle alternative alla pena, se non addirittura delle alternative alla giurisdizione penale, e in questo senso coincide con la giustizia riparativa in tutte le sue forme ed espressioni.

La pratica della mediazione diretta alla ricomposizione del conflitto fra vittima del reato e suo autore si è diffusa, a partire dalla metà degli anni ’70 negli Stati Uniti, nel Canada, in Australia e nel Nord Europa e i programmi fioriti negli ultimi venti anni hanno conosciuto un notevole sviluppo perché favoriti dalla creazione di alcune normative volte a favorire la risoluzione extragiudiziale dei conflitti60.

Il primo articolato programma di mediazione è rappresentato dal VORP ( Victim - Offender Reconciliation Program ) utilizzato per la prima volta in Canada nel 1974 per regolare la condotta di due giovani, accusati di atti vandalici nella città di Kitchener in Ontario. Il giudice in quel caso ha imposto ai soggetti il pagamento di una somma di denaro a titolo di restituzione in favore delle vittime e ha altresì disposto una probation di 18 mesi durante la quale si è svolto un incontro fra autori e vittime del reato. La valutazione globale dell’esperimento è risultata positiva e da lì si è diffusa in tutti gli Stati Uniti fino ad approdare anche in Europa61.

Al fine di meglio comprendere le coordinate fondamentali della figura e gli obiettivi che rendono la mediazione l’esempio più chiaro e rappresentativo della giustizia riparativa, è bene far riferimento ad una definizione coniata nei primi anni ’90 in Francia, dove la ricerca di soluzioni per superare il sistema di regolazione dei comportamenti imperniato sull’esercizio del potere giudiziario è da sempre molto attiva62. La mediazione viene spiegata secondo una brillante sintesi come << il processo, il più delle volte formale, con il quale un terzo neutrale tenta, mediante scambi tra le parti, di permettere a queste ultime di confrontare i loro punti di vista e di cercare, con il suo aiuto, una soluzione al conflitto che li oppone >>63.

La mediazione è un’alternativa conciliativa forte il cui scopo è quello di aprire le persone alla comunicazione, di spingerle al dialogo, perché anche se può apparire paradossale in un’epoca come quella attuale, dominata dai mezzi di comunicazione di massa, si è persa la capacità di parlare, di interagire positivamente con l’altro. La mediazione restituisce questo spazio di incontro fra due soggetti, uniti dal reato concepito qui come vicenda umana relazionabile64.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3.3.3 Potenzialità della mediazione-riparazione nel recupero degli adolescenti da parte del sistema giudiziario

 

La mediazione e più in generale le misure riparative possiedono le caratteristiche e le potenzialità per essere accolte con buone prospettive all’interno del sistema penale minorile.

Difatti i principi guida delle tecniche di giustizia riparativa ben si sposano con gli obiettivi di un intervento penale morbido nel minorile, ricco di ampi margini di flessibilità, come vogliono le direttive nate in vari sedi internazionali65.

La tesi si basa su di una serie di elementi stimolanti che inducono a scommettere sulla mediazione-riparazione come modello d’intervento ad hoc su minori responsabili di reati, essendo in grado di offrire una vasta gamma di contributi per un recupero più concreto dell’adolescente.

Un primo segnale positivo è individuato nella capacità della mediazione di coinvolgere il contesto sociale e di attivarlo per ridurre la delega del problema all’autorità giudiziaria, contemporaneamente supportando l’assunzione di responsabilità da parte della comunità, quasi sempre indifferente o passiva66.

Per ciò che concerne invece i rapporti fra vittima e reo la mediazione permette un avvicinamento delle posizioni; i protagonisti della vicenda penale non hanno mai, nel procedimento tradizionale, la possibilità di incontrarsi, in quanto i ruoli loro assegnati sono concepiti proprio per escludere qualsiasi tipo di contatto. La mediazione ha lo scopo di “ spogliare ” questi soggetti dal ruolo di parti, per restituire loro la possibilità di incontrarsi come persone che condividono una storia di dolore, anche se diversamente vissuta67.

L’incontro con la vittima può aiutare il reo a cogliere gli effetti di un’azione che potrebbe essersi rappresentato come inanimata, cioè non diretta ad una persona in carne ed ossa. Il confronto con la vittima reale che esprime la sua sofferenza, e le emozioni provate in relazione alla violenza o all’abuso subito restituisce una dimensione umana al gesto commesso, suscitando nel minore un sincero senso di colpa e di vergogna indispensabili per comprendere l’errore/orrore del comportamento tenuto.

In questa occasione si può cercare con l’adolescente di dare un nome a ciò che ha fatto, la turbolenza che ha portato il ragazzo al reato può essere aiutata a passare da uno stato indefinito ad una maggior chiarezza68.

La mediazione gioca un ruolo fondamentale nel trattamento di adolescenti che commettono reati, perché, pur essendo pericoloso operare generalizzazioni in questo contesto, l’adolescenza è per comune ammissione un periodo della vita molto conflittuale e di certo la società odierna non fornisce ai ragazzi impulsi positivi, spesso abbandonandoli a loro stessi.

Inoltre questo percorso comporta benefici anche e soprattutto per la vittima, esclusa dalla scena da un procedimento penale minorile chiuso ad una tale eventualità.

La vittima non ha talvolta l’opportunità di conoscere il volto del suo aggressore e in questo modo non è in grado di riordinare quello che è successo, trovare un senso all’episodio, riuscire almeno in parte a comprendere le ragioni che hanno indotto il ragazzo a strattonarlo per strada per rubargli il portafoglio o magari a penetrare nel suo appartamento per impossessarsi di oggetti di sua proprietà. Tale sintomatologia colpisce tutte le vittime, indipendentemente dall’età, e dal sesso e provoca un senso di paura così forte da indurle a rivedere ogni gesto quotidiano; il semplice passeggiare per strada o il salire su di un autobus vengono vissuti come nuove occasioni per subire un’altra aggressione69. Invece vedere il volto della persona che ha procurato loro disagio e sofferenza significa riconoscere il proprio malessere e avere la possibilità di rendere partecipe il reo di quelli che sono gli effetti del suo insano atteggiamento. Guardare in faccia l’autore del fatto può anche aiutare le vittime a comprendere che non tutti gli adolescenti sono violenti, e a non sentirsi predestinate o alla mercè della delinquenza altrui.

Il ragazzo, di contro può avere la possibilità si scusarsi e di rimediare in qualche modo, adoperandosi ad una serie di attività riparatorie suggerite dalla stessa vittima e consistenti, nella maggioranza dei casi, in attività di pubblica utilità o di servizio nel sociale. Viene data così al minore una occasione per dimostrare di essersi veramente pentito, creando le condizioni affinché la vittima possa considerarsi in qualche modo risarcita e per restituirle quella fiducia indispensabile per continuare a vivere70.

Le attività di mediazione-riparazione sono per il ragazzo ipotesi concrete di confronto con una società e una autorità in grado di punirlo, utilizzando però il linguaggio riparativo per una giustizia più pratica che teorica in cui la parola responsabilizzazione ricorra a buon titolo.

 

 

 

 

 

 

3.4 Aspetti, problematiche e prospettive della mediazione penale minorile nell’esperienza italiana

 

Nonostante i programmi di mediazione trovino incoraggiamento nella normativa internazionale71 e siano consolidati  a livello legislativo in diversi paesi europei, la tradizione italiana nel settore sconta una pratica sperimentale ancora incerta e ricca di zone d’ombra.

Naturalmente non è semplice avallare tecniche di mediazione, in mancanza di definizioni normative, e in presenza di  tanti nodi ancora da sciogliere riguardo alla sua previsione come pratica autonoma all’interno dell’ordinamento, senza poi trascurare il fatto che essa si presenta come un intervento complesso, bisognoso di un’attenzione e una cautela particolari. Infatti permane ancora incertezza circa la rilevanza giuridica, la collocazione e la tecnica operativa della mediazione, ed inoltre è forte il pericolo che premature scelte legislative possano incidere su fondamentali categorie e garanzie del diritto penale.

Si tratta dunque di individuare soluzioni ragionevoli, che tengano conto delle caratteristiche della figura e, al contempo, ne permettano l’inserimento all’interno di spazi normativi appositi, senza danneggiarla o snaturarne il significato e la portata, ma armonizzandola con le regole e i meccanismi già presenti.

Come è facile intuire ci troviamo di fronte a decisioni importanti, che richiedono una ponderata valutazione delle esperienze condotte sul campo, affinché i dati raccolti siano in grado di essere interpretati e utilizzati per la preparazione di solide basi normative.

La verifica della attuabilità della mediazione in campo penale ha visto la luce nel settore minorile, in considerazione dell’urgenza di nuove misure per combattere la delinquenza dei minori, e per le indubbie potenzialità dinamiche degli interventi condotti secondo il modello riparativo – riconciliativo, a cui la mediazione stessa si ispira.

Per tali motivi l’Ufficio centrale per la Giustizia minorile72, in accordo con il Ministero di Grazia e Giustizia, ha promosso in diverse regioni l’avvio di iniziative a carattere interistituzionale, allo scopo di raccogliere materiale significativo per i progetti di mediazione e per una verifica della disponibilità dei soggetti coinvolti, quali Tribunali per i minorenni, Servizi della giustizia, ambiente ecc., a costruire una prassi sufficientemente ampia, che possa sostenere e fondare un intervento legislativo ordinatore della figura73.

L’iniziativa ha preso le mosse da una ricerca curata dall’Ufficio centrale agli inizi degli anni ’90, con l’obiettivo di individuare gli strumenti tecnici e conoscitivi indispensabili per attivare pratiche di mediazione all’interno dell’area penale minorile. La ricerca, dal titolo “ Analisi del rapporto tra minore deviante e vittima: ipotesi per una strategia d’intervento ”, ha evidenziato come, per la realizzazione di progetti di recupero nel campo della devianza minorile, la vittima rappresenti un referente preliminare alla costituzione di qualsiasi iniziativa volta a ristabilire un contatto positivo con il minore, isolato nella gravità del suo gesto da una prassi giudiziaria, che vive con lontananza, diffidenza ed ostilità.

Dalla ricerca è anche emersa la necessità di accompagnare la vittima lungo tutto il percorso giudiziario e, anche se in partenza il suo atteggiamento può apparire ostile, in seguito può manifestare maggior disponibilità ad un incontro chiarificatore con il suo aggressore, gestito da una terzo imparziale74.

I risultati di quest’analisi hanno creato le condizioni, per testare più concretamente la validità di questi apporti scientifici e le stesse sollecitazioni dell’Ufficio centrale, espresse con alcune circolari75 sulla fattibilità operativa della mediazione con gli strumenti già disponibili, hanno dimostrato che un significativo cammino resta da percorrere prima di intervenire normativamente. Così, a partire dal 199576, sono stati avviati dei progetti pilota in alcune città sedi di Tribunali minorili. Sono nati centri di mediazione presso Torino, Milano, Roma, Bari e successivamente a Trento e a Catanzaro, che hanno coinvolto a vario titolo, rappresentanti dei Servizi territoriali e di giustizia minorile, docenti universitari, professionisti del privato sociale e della magistratura minorile. Inoltre sono stati redatti alcuni Protocolli d’Intesa tra la regione ospitante e gli organi giudiziari competenti con i quali è stata ufficialmente sancita l’istituzione di Uffici per la mediazione giudiziaria in materia minorile77.

Pur nella differente operatività organizzativa e metodologica degli interventi realizzati, dovuta alla varietà delle risorse presenti, e nella non sempre concorde interpretazione dei presupposti teorici dell’istituto, queste esperienze hanno tuttavia confermato come la mediazione debba essere inserita a pieno titolo fra i possibili interventi della giustizia minorile. Ed è indiscutibile che tale risultato sia elemento di sostegno e di grande spessore nella continua ricerca di percorsi alternativi basati sulla mediazione, allo scopo di promuovere nel minore una rivisitazione delle proprie scelte.

Le sperimentazioni curate dai centri di mediazione hanno anche fornito l’opportunità di focalizzare meglio determinati aspetti e tracciare un primo bilancio dei risultati ottenuti.

E’ stato rilevato, ad esempio, che la mediazione non solo assume un ruolo decisivo nel caso di buona riuscita della medesima, ma anche nell’ipotesi di esito non positivo è dato rintracciare utili risorse grazie al processo comunque innescato dall’ intervento 78.

Proseguendo nella rielaborazione delle indicazioni pervenute in sede di verifica delle azioni intraprese79, la problematica più urgente è risultata essere l’utilità di pervenire ad un testo di legge che, tenendo in debita considerazione le diverse linee d’indirizzo maturate negli ultimi anni, fornisca una base comune di riferimento e delle strategie per rimuovere gli ostacoli incontrati dagli operatori. E, purtroppo le questioni ancora aperte non sono poche, perché la costruzione di regole condivise per l’attivazione della mediazione nel sistema penale richiede uno sforzo ed un impegno non indifferenti.

Il penale è un settore particolarmente articolato ed anche il minorile, apparentemente più indicato per una maggior flessibilità, è pur sempre governato dalle stesse norme specifiche, difficilmente convertibili a pratiche con obiettivi non sempre conclamati80.

La prima riflessione con cui confrontarsi riguarda il rapporto fra la mediazione e le normali procedure giudiziarie, dovendo stabilire se essa costituisca un percorso autonomo e parallelo al processo penale oppure si innesti sullo stesso in una sequenza privilegiata.

Nel primo caso si dovrebbe concludere per una vera e propria alternatività e ciò significherebbe esclusione reciproca fra mediazione e processo penale. Una volta risolto il conflitto entro lo spazio conciliativo non vi è ragione di risolvere il medesimo attraverso gli strumenti approntati dal processo. Se si può ricorrere alla mediazione, l’interferenza della giustizia penale tradizionale non avrebbe alcun senso e viceversa81.

Una scelta di questo tipo, in un sistema come il nostro, deve però fin dall’inizio confrontarsi con il principio di obbligatorietà dell’azione penale ( art. 112 Cost. ), che impone al pubblico ministero di iniziare il processo ogniqualvolta sussistano elementi sufficienti a sostenere il giudizio e proseguirlo fino al suo esito.

Ma il rispetto dell’art. 112 Cost. non sarebbe il solo ostacolo alla piena affermazione della mediazione come sistema alternativo di giustizia; qualcuno82 ha giustamente avvertito che il nostro ordinamento è fortemente vincolato al principio di legalità ( art. 25 Cost. ), in ottemperanza del quale è richiesta una rigorosa tipizzazione del comportamento illecito e una separazione del fatto costituente reato dalla condotta di vita dell’autore. Ciò comporta che, al fine della determinazione della responsabilità per l’atto in questione, la condotta non produca alcun effetto, incidendo al più sulla comminatoria.

Il ricorso alla mediazione, per contro, comporta un apprezzamento delle vicende personali dell’autore del reato, con ampio margine di discrezionalità in ordine alla loro valutazione. Il mediatore conosce non solo la condotta specifica del reo, ma tutti gli aspetti che lo hanno variamente spinto al gesto criminoso, sui quali basare il proprio intervento.

Al momento una prospettiva simile non è contemplata, a meno che non si decida di intervenire, modificandoli, sui principi di cui si è fatto menzione.

Il secondo scenario ipotizzato invece, appare più realistico e confortato dai dati empirici finora disponibili83, anche se non sono mancate le voci contrarie, specialmente di chi84 ha prospettato il pericolo di insidiose commistioni fra il linguaggio sempre più ricco della pena e il linguaggio alternativo della mediazione.

Le opportunità fornite dal nuovo processo penale minorile consentono infatti di attenuare l’effetto concreto del principio di obbligatorietà dell’azione penale, offrendo spazi di valutazione giuridicamente controllabili attraverso l’esercizio di una discrezionalità vincolata da parte dell’organo di accusa. In pratica questi margini di elasticità consentono al p.m. di esercitare l’azione penale e al giudice di proseguirla, qualora abbiano riscontrato l’impossibilità di ricorrere a modalità conciliative di composizione del conflitto. In tale prospettiva il problema di costituzionalità non investe più l’art. 112 della Cost., bensì rimanda alla individuazione di parametri sulla base dei quali orientare la scelta di avvalersi della mediazione anche nelle ipotesi in cui i meccanismi formali fossero già operativi. Tali criteri, conformi ai principi di uguaglianza e di ragionevolezza, dovrebbero assicurare, al di là del trattamento uniforme dei fatti di reato, la necessaria differenziazione in presenza di situazioni personali diverse permettendo, in tal caso, un adeguamento degli strumenti d’intervento alle circostanze concrete che di volta in volta si presentano85.

L’orientamento verso quest’ultima opzione ha provocato un’ulteriore questione relativa al dove e al quando collocare la mediazione, cioè quali spazi normativi privilegiare al fine di veicolare tentativi di mediazione; e al momento, pur riscontrando alcune variazioni nelle impostazioni delle varie esperienze prese in considerazione, sono stati reputati più idonei gli artt. 9, 27, 28, 32² del d.p.r. 488/1988, l’art. 564 c.p.p. e l’art. 47 della L. di Ordinamento Penitenziario n. 354/197586. Le ragioni, che hanno indotto ad indicare questi contesti normativi per lo sviluppo di percorsi di mediazione, meritano tuttavia una disamina più puntuale al di là del resoconto sintetico proposto in queste pagine.

Inoltre merita di essere menzionato un altro interrogativo ricorrente, relativo all’opportunità di estendere la mediazione a tutte le tipologie di reato, comprendendovi anche le ipotesi particolarmente complesse e scaturenti da situazioni sociali e familiari disagiate, oppure di limitarla a quelli di lieve entità. A tal proposito è stato deciso di non condizionare l’individuazione dei casi a rigide classificazioni, ma di seguire la strada della discrezionalità nella scelta delle situazioni da sottoporre a interventi siffatti87.

Preme poi sottolineare un ulteriore dato comune a tutte le esperienze conosciute, che si sostanzia nell’esigenza di prevedere percorsi di formazione specifica per gli operatori e i professionisti impegnati ai diversi livelli nella mediazione. Una preparazione effettiva è indispensabile per garantire almeno in partenza un risultato soddisfacente in questo campo. E’ infatti necessaria una certa chiarezza in merito a quali debbono o possano essere i possibili mediatori, quale il ruolo dei servizi dell’amministrazione della giustizia, e quale il livello di coinvolgimento dei servizi del territorio88.

Il lavoro compiuto in questi anni dai vari centri ha arricchito il bagaglio di conoscenze in merito alla pratica della mediazione, ma allo stesso tempo ha creato le premesse per il fiorire di nuovi spunti di discussione. L’interrogativo più forte riguarda la definizione stessa di mediazione: si tratta di una misura di tipo riparativo, oppure di una forma prevalentemente conciliativa? Le opinioni non sono concordi; alcuni89 preferiscono considerarla uno strumento molto efficace di giustizia riparativa, altri90 invece affermano che confondere le figure della mediazione e della riparazione potrebbe essere “ pericoloso ”, in quando trattasi di due prospettive non sovrapponibili. In realtà le differenti impostazioni sono frutto del combinarsi di fattori personali e reali, propri di ogni progetto di mediazione che, pertanto risulta essere unico nel suo genere.

Il secondo punto su cui si è riscontrata una certa divergenza di pensiero attiene alla scelta, da vagliare attentamente per una prospettiva futura, di specificare la mediazione per ambiti di intervento ( civile, scolastica, penale, famigliare, ecc. ) e con caratteristiche e metodologie differenti, ovvero disciplinarla unitariamente rendendola applicabile a tutti i contesti in cui essa è chiamata ad operare91.

Come si evince dal quadro riassuntivo tracciato nelle pagine precedenti i problemi con cui confrontarsi non sono pochi, anche se aiuta la consapevolezza di avere realizzato il primo obiettivo individuandoli e vagliandoli grazie al prezioso scambio di contributi ad opera dei vari centri di mediazione.

 

 

3.5 Le fasi della mediazione penale minorile

Prima di esaminare meglio i contesti normativi indicati come possibili scenari di attività di mediazione, è consigliabile dedicare un giusto spazio alle modalità attraverso le quali si svolge il tentativo di riconciliazione fra vittima e autore del reato.

Infatti è di fondamentale importanza conoscere quali sono i tempi della mediazione, al fine di comprendere dove, e in quali circostanze, risulti più utile tentare di promuovere un momento di riflessione e di riparazione, che esuli da una realtà giudiziaria poco attenta ai risvolti personali della vicenda criminosa.

Fin dall’inizio delle esperienze, ogni operatore ha dimostrato di prendere seriamente atto della complessità della materia da trattare e, in particolare, della necessità di una buona tecnica e di una fattiva collaborazione di tutti i soggetti impegnati nella mediazione. Tali considerazioni hanno spinto all’adozione di modelli procedurali in grado di confortare e di guidare la pratica della mediazione, ottimizzandone i risultati; in generale si tratta di un percorso, articolato in diverse fasi o livelli, comune a tutti i centri, salvo alcune differenze di poco conto.

Di solito l’attività di mediazione non è svolta da un singolo operatore,    ma è appannaggio di un gruppo che costituisce un’èquipe, il cui buon funzionamento è collegato ad una sintonia operativa92. Tutti i componenti del gruppo di mediazione, operatori istituzionali e non, dovranno ricevere una preparazione specifica, attuata da agenzie specializzate e, dal momento che una maggior intesa fra i singoli componenti del gruppo può garantire una miglior riuscita della mediazione, sarebbe auspicabile la loro partecipazione congiunta ai programmi di formazione e/o di approfondimento da svolgere ciclicamente.

Tornando all’iter attraverso il quale si concretizza la mediazione, si distinguono sei fasi93, caratterizzate da passaggi interni piuttosto elaborati, ma necessari per aiutare i mediatori a valutare il singolo caso e capire se esistono i presupposti per un loro intervento.

La prima fase è relativa alla proposta di mediazione: in genere la proposta proviene o dall’autorità giudiziaria, quindi dal Tribunale dei Minori ( p.m. o giudice ) oppure dal Servizio sociale minorile. Inoltre la mediazione può essere chiesta anche dal reo o dalla vittima, sempre con il benestare dell’autorità procedente.

L’invio del caso al Servizio di Mediazione viene di solito effettuato da un operatore del Servizio Sociale, a cui è arrivata precedentemente una segnalazione da parte dell’autorità giudiziaria, oppure può essere  quest’ultima ad attivare autonomamente la Sezione di mediazione; non è escluso l’accesso diretto al Servizio da parte del reo e della vittima. Questa seconda fase, viene definita della acquisizione del consenso, perché la condizione sine qua non dell’invio è, in ogni caso, la manifestazione di quello che potrebbe essere definito un “ consenso informato ”, cioè il minore e la vittima devono essere informati delle finalità generali della mediazione, dei contenuti e dei significati impliciti in una simile opportunità. Ancor più significativa è la circostanza che la raccolta del consenso ( quando non è prestato di fronte al magistrato ) venga spesso affidata ad un operatore della giustizia minorile; infatti, gli assistenti sociali sono percepiti come dalla “ parte del minore ”, e ciò rende discutibile il loro operato con la parte lesa. Invece, come è stato osservato, il loro coinvolgimento in questa fase indica che la mediazione inizia molto prima del momento in cui i confliggenti si incontrano, perché ha origine nella “mente” degli operatori che già ragionano in una prospettiva mediativa; soltanto se l’operatore sente di poter mediare, di riuscire a svolgere con imparzialità il suo incarico, allora è in grado di “ raccogliere ” il consenso della vittima e del suo aggressore 94.

La terza fase è deputata alla verifica della fattibilità della mediazione: l’équipe della Sezione prende visione del fascicolo del caso e, raccolte tutte le informazioni disponibili, si riunisce con l’obiettivo di analizzare la richiesta che ad essa viene posta. L’analisi della domanda consente, nella fase iniziale dell’intervento, di cogliere gli aspetti diversi ed ulteriori alla prestazione del consenso che, in qualche modo, depongano a favore di un esito positivo della mediazione. Si tratta di una sorta di diagnosi prospettica circa le ragioni che rendono necessario e proficuo un intervento dei mediatori, e soprattutto chiarisce a quale livello gli stessi possano intervenire: se con una semplice consulenza sulla fattibilità della mediazione, o con la presa in carico di una sola delle due parti, ovvero di entrambe95. Ad esempio, i mediatori potrebbero rendersi conto dell’improponibilità di condurre tentativi con soggetti psichicamente instabili o emotivamente destabilizzati, oppure in presenza di crimini particolarmente complessi. Proprio riguardo alla tipologia dei reati ammessi alla mediazione fra di essi figurano: lesioni, danneggiamenti, ingiurie, minacce, furti, rapine, atti di violenza sessuale ( lievi ), reati con l’aggravante razziale.

Qualora la Sezione decida per una gestione completa o parziale della mediazione contatta le parti interessate, tramite l’invio di una lettera con la quale vengono spiegati i motivi e rese note le modalità dell’intervento; alla lettera segue sempre una telefonata ( da parte dell’operatore scelto per seguire il caso ) nella quale si concorda con la parte un incontro, e nel caso di un soggetto minorenne ( vittima o reo ), vengono coinvolti anche i genitori o chi ne fa le veci, invitandoli a presenziare.

Sulla base dei riscontri avuti per telefono, l’èquipe ha la possibilità di formulare delle ipotesi di lavoro, con riguardo alle aspettative o alle riflessioni emerse durante il colloquio telefonico. L’incontro individuale successivo, avviene in una sede neutrale, istituzionalmente indipendente dal sistema penale, in un clima di accoglienza e di ascolto per dare modo alla vittima di esprimersi liberamente riguardo agli effetti che il reato ha provocato sulla sua persona. E dal momento che questo passaggio ha lo scopo di verificare la massima disponibilità alla mediazione, è preferibile incontrare prima il reo, affinché renda note le sue intenzioni ( es. conoscere i motivi del suo atteggiamento passivo o di scarso coinvolgimento ) e si possa così evitare di deludere le aspettative di una vittima consenziente96.

A proposito di questi contatti preliminari si deve segnalare la differenza riguardo alla loro durata, riscontrata all’interno della metodologia adottata dai vari centri: in alcune sedi si esauriscono in un'unica seduta sia per il reo che per la vittima, mentre presso altre sezioni occupa l’arco temporale di tre/quattro mesi per un totale di dieci incontri circa97.

Nei primi incontri con il minore autore del reato, dopo aver appreso la sua storia personale e il suo contesto di appartenenza, si tenta di provocare la riflessione del soggetto sui significati relazionali del suo atto e sulle motivazioni all’origine del medesimo. La parte lesa, invece, dopo aver ricevuto il conforto di un primo sfogo emotivo, viene spinta a capire quale possa essere stato il suo ruolo nella dinamica dei fatti e quali significati le ha attribuito98.

I colloqui individuali sono svolti da due mediatori, uno per la vittima e uno per il reo, che hanno il compito di riferire all’operatore a cui inizialmente è stato affidato il caso. Il motivo per cui si è scelto di adottare tale strategia è dovuto all’esigenza di prevenire situazioni di empatia con una delle parti; quindi per scongiurare il rischio di eventuali perdite di imparzialità l’incontro diretto fra i confliggenti sarà seguito da nuovi mediatori in sostituzione di quelli conosciuti agli incontri preliminari99.

Terminata la fase di preparazione, si procede all’invio delle parti ai mediatori che si occuperanno in prima persona degli sviluppi dell’attività di conciliazione. Da questo momento inizia la mediazione vera e propria che, a sua volta, può essere divisa in tre parti100:

o       La prima fase è caratterizzata dalla richiesta fatta dai mediatori alle parti di raccontare come i fatti si sono svolti. Naturalmente le due versioni sono discordanti, perché l’interpretazione data diverge, in quanto l’ottica con cui si guarda alla vicenda è differente. Questa situazione ricorre quando le due parti si conoscono,  come per esempio nel caso di due compagni di scuola o di classe, uno dei quali colpevoli di minacce all’altro. L’autore sostiene di aver agito per uno scherzo, magari di cattivo gusto, mentre la vittima afferma di essersi spaventato e aver veramente temuto per la sua incolumità. I mediatori devono limitarsi a favorire il dialogo fra le parti in occasione di questo scontro di prospettive.

o       La seconda fase invece da ampio spazio ai sentimenti, ai cambiamenti, alla percezione. La vittima ha l’opportunità di rendere partecipe il suo aggressore del male che le ha provocato, delle emozioni che ha vissuto, mentre il reo può finalmente rendersi conto delle conseguenze delle sue azioni, esprimere il suo stato d’animo, tentare una spiegazione.

o       Infine la terza fase prevede l’ammissione dell’errore da parte dell’autore dell’illecito, e la vittima, nonostante abbia dovuto suo malgrado subirne lo sbaglio,  riconosce in lui una persona, accettandone le scuse ed eventualmente suggerendo un modo più concreto per considerarsi risarcita dal danno101.

Terminata la mediazione, il percorso così puntigliosamente tracciato si esaurisce nell’ultima fase in cui viene ripristinato il contatto con l’autorità giudiziaria. L’esito della mediazione viene comunicato all’Ufficio di mediazione, al Tribunale dei Minorenni e ai Servizi sociali di giustizia minorile che hanno segnalato il caso. Non verranno rivelati contenuti, fatti e comportamenti emersi durante la mediazione, ma soltanto l’esito positivo o negativo della stessa. In caso di riuscita della attività conciliativa potrà essere comunicato l’eventuale accordo di riparazione del danno definito fra la vittima e il reo. Non è improbabile poi che la mediazione si concluda con un esito incerto, e ciò si verifica quando il lavoro introspettivo si è svolto correttamente, ma il risultato finale non permetta di pronunciare un giudizio favorevole: probabilmente è rimasto qualcosa in sospeso, oppure le parti non sono riuscite ad affrancarsi dalle proprie iniziali posizioni102.

Il procedimento descritto colpisce per la rigorosità e l’insistente attenzione ad ogni particolare reputato d’interesse al fine di un positivo epilogo della mediazione. Per garantire un impianto operativo così efficiente, è irrinunciabile contare su soggetti qualificati, capaci di mantenere un rapporto costante con il proprio gruppo di appartenenza e con i referenti istituzionali del minore preso in carico.

Lo scambio di notizie ha, per l’appunto, un carattere bidirezionale: gli assistenti sociali continuano il loro rapporto con il minore, rendendo tali contatti occasioni di acquisizioni di informazioni utili all’équipe, che ricambia aggiornando periodicamente i Servizi minorili sui progressi ottenuti103.

I mediatori sanno però che quello che si svolge nella “ stanza ” di mediazione non può essere oggetto di dialogo con le istituzioni; è fondamentale infatti che la mediazione sia condotta con imparzialità, riservatezza e autonomia. Se questi requisiti vengono meno, allora non è dato parlare di attività conciliativa, ma di qualcos’altro che esula da quell’atteggiamento di ascolto neutrale con cui si cerca di ricomporre il conflitto scaturito da un’azione criminosa.

3.6 Il mediatore: un terzo uomo

 

La fase di sperimentazione raggiunta dalla mediazione nell’ambito del  sistema di giustizia minorile impone di considerare con maggior attenzione il ruolo del mediatore, allo scopo di individuare più puntualmente un’identità professionale specifica ed un percorso di formazione ad hoc per colui che è chiamato a ricoprire una funzione di vitale importanza.

Il mediatore, infatti, ha il difficile compito di condurre i soggetti in conflitto verso una ricomposizione dello stesso, promovendo in loro il dialogo e il riconoscimento reciproco; la mediazione può dirsi riuscita  solo quando entrambe le parti riescono a riconoscere l’altro per quello che è: un essere umano portatore di propri vissuti, esperienze, errori104. Egli condivide con la vittima e il reo il percorso, il più delle volte drammatico, che conduce al superamento del fatto reato da un lato e alla presa di coscienza delle conseguenze dannose del proprio gesto dall’altro.

Non è raro che il mediatore si trovi a dover fronteggiare vere e proprie esplosioni di aggressività, durante le fasi di rievocazione dell’evento conflittuale; in questi frangenti deve riuscire a gestire la situazione conservando la propria lucidità, senza perdere il controllo e soprattutto ponendosi in una prospettiva di ascolto verso ciò che le parti hanno da dire. Proprio questa sua propensione ad ascoltare ha favorito l’identificazione dello stesso come facilitatore della comunicazione, anche se probabilmente questo tipo di raffronto potrebbe ingenerare confusioni e poca chiarezza circa le reali funzioni a cui il mediatore è chiamato105.

Il mediatore però non può sostituirsi alle parti, non impone loro di comportarsi in un determinato modo, in quanto non dispone di alcun potere direttivo; non suggerisce soluzioni, non dà consigli e non esprime giudizi, perché egli è un terzo a tutti gli effetti, la cui neutralità deve manifestarsi in ogni momento. Questo operatore deve essere sempre vigile ed evitare di mostrarsi parziale, anche solo con involontarie posizioni che possano ingenerare il sospetto di una minima complicità106.

Assicurare questa neutralità comporta un grosso impegno nella pratica, perché la creazione di servizi specifici per la mediazione provoca una crescita non indifferente dei costi e dei conseguenti investimenti nel settore. Spesso le ragioni economiche hanno pesato sulle scelte di chi ha comunque deciso di “ scommettere ” sulla mediazione, e si è dunque proceduto alla riconversione del personale e delle strutture già esistenti anziché crearne di nuove.

Al momento attuale la funzione del mediatore è coperta da varie figure di operatori sociali ( criminologi, psicologi, ecc. ), ma questa soluzione non convince fino in fondo: l’esercizio della mediazione richiede oltre che un forte impegno umano e personale, anche una preparazione mirata e diversamente impostata rispetto a quella delle tradizionali categorie di assistenza nel sociale. La soluzione ideale potrebbe essere quella di predisporre degli standard formativi per i futuri mediatori che esprimessero una didattica particolare per la costruzione di uno schema mentale lontano dai canoni ordinari degli altri operatori: per meglio intenderci, il mediatore deve essere messo in grado di avere una formazione piena, a 360 gradi107.

Infine è auspicabile che il mediatore sia totalmente avulso dal sistema di committenza, perché solo in questo modo può essergli garantita quell’autonomia funzionale e culturale necessaria per farsi interprete del linguaggio confidenziale della mediazione.

 

 

 

 

 

 

 

3.7 La mediazione giudiziaria nel processo penale minorile: spazi normativi

 

L’arte della mediazione – si è detto – consiste nella capacità del/dei mediatore/i di creare le condizioni per la ripresa di una corretta comunicazione tra i protagonisti del reato. Tuttavia si è anche appreso come tale procedimento, per preparare e favorire una genuina soluzione conciliativa, abbia bisogno di uno spazio autonomo, svincolato dai ritmi e dalle esigenze del processo penale.

La difficoltà maggiore, incontrata nel tentativo di armonizzare l’iter della mediazione con i meccanismi propri dell’attività giurisdizionale, è esplicita nella funzione stessa del processo, che << non costituisce in sé una risposta alla condotta deviante, ma è piuttosto uno strumento per capire se quella condotta è deviante, se è stata commessa dalla persona accusata e per decidere, infine, quale risposta dare al soggetto riconosciuto colpevole >>108.

Questa, in sintesi, la premessa da cui sono partiti i lavori di studio e di ricerca con l’intento di rintracciare spazi di mediazione all’interno dell’ordinamento penale minorile.

Il primo scenario individuato ha ad oggetto la fase dell’indagini preliminari e, più precisamente, la disposizione dell’art. 9 d.p.r. 488 del 1988 secondo cui, come è noto, il pubblico ministero e il giudice acquisiscono elementi sufficienti circa il vissuto personale del minore, al fine di accertarne l’imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto, nonché disporne le adeguate misure penali e gli eventuali provvedimenti civili; il secondo comma prevede poi, che le stesse autorità giudiziarie possano avvalersi della consulenza di operatori specializzati per approfondire la personalità del soggetto109.

Secondo la prassi applicativa suggerita dal Tribunale dei minorenni di Torino, la norma in esame offrirebbe la soluzione compromissoria più favorevole alla natura della mediazione, permettendone una rapida realizzazione e un più sicuro esito positivo. In quella realtà si ritiene che il pubblico ministero possa rivolgersi ai componenti dell’Ufficio di Mediazione, e richiedere il loro parere in ordine all’opportunità di un esperimento di ipotesi mediative. In caso di una loro risposta favorevole si consentirebbe di attivare le potenzialità della mediazione in una fase pre-processuale, avvicinandosi in questo modo ad una prospettiva di alternatività al processo, con conseguenze di non poco conto in ordine al proseguimento dell’ azione penale110.

La scelta di sfruttare lo spazio offerto dall’art. 9 discende dal fatto che il medesimo sottende una concezione dinamica della personalità del minorenne e la disponibilità di quest’ultimo a fare qualcosa in favore della vittima, o a confrontarsi con essa, può costituire un valido criterio su cui basare, eventualmente e in caso di soddisfacente conclusione di tali attività, la decisione di non dar luogo a procedere per irrilevanza del fatto ex art. 27 d.p.r. del 1988111.

Le implicazioni che ipotesi di questo tipo possono ingenerare non sono certo di scarsa rilevanza, e creano inoltre questioni diverse sulle quali si rende inevitabile una disamina più puntuale.

Alcune perplessità sono state espresse circa l’opzione, data al reo e alla vittima, di incontrarsi di fronte ad un organo diverso da quello istituzionale, prima che essi assumano le rispettive posizioni processuali: si realizzerebbe infatti, sin da questo frangente una discrasia fra le regole che governano i due differenti luoghi di risoluzione del conflitto. Il contrasto più grave riguarderebbe la posizione del minore indagato per un certo reato, al quale venisse palesata la possibilità di un colloquio con la parte lesa al di fuori dell’aula di giustizia; il confronto fra le due parti non può prescindere però da una qualche ammissione di responsabilità da parte dell’imputato, ed è proprio questa circostanza a suscitare dubbi e riserve112.

Secondo l’opinione di alcuni esponenti della magistratura minorile, condizione necessaria e sufficiente per ogni tentativo di mediazione sarebbe la colpevolezza almeno “ virtuale ” del minore imputato, o l’esistenza di una situazione obiettiva da cui si desuma chiaramente la responsabilità del soggetto ( sorpresa in flagranza di reato ), nonché la sua parziale confessione del fatto criminoso113.

Poiché il minore ha però diritto al silenzio e alla presunzione di non colpevolezza, le dichiarazioni da lui rese di fronte agli operatori dei servizi saranno sottratte alla disponibilità del magistrato.

In ogni caso, è bene non dimenticare che l’intervento di mediazione presuppone il consenso informato del minore e della parte offesa, indispensabili per poter condurre un valido tentativo di conciliazione.

E’ dunque evidente che l’inserimento dell’istituto riparativo in una fase non ancora processuale, ma ugualmente soggetta ai principi posti a tutela della posizione dell’indagato, comporta la creazione di una sorta di “ zona franca ” rispetto alle regole tradizionali dell’impianto processuale. Ma se un simile meccanismo da un lato impedisce la violazione del diritto al silenzio e della presunzione di innocenza, dall’altro opera una quasi totale impermeabilità fra le due forme di soluzione del conflitto, autoritativa l’una conciliativa l’altra. Alla conclusione delle indagini preliminari il pubblico ministero, in ossequio al principio di obbligatorietà, proseguirà l’azione o chiederà l’archiviazione indipendentemente dagli esiti del tentativo di mediazione; il giudice investito della questione, a sua volta, non potrà far riferimento alla mediazione già eseguita, perché non dispone di strumenti idonei ad effettuare il rinvio ai risultati emersi in quella sede.

La situazione descritta è provocata dalla mancanza di una norma di raccordo che disciplini nuove ipotesi, alla stregua delle quali possano finalmente legittimarsi provvedimenti di archiviazione motivati sulla base della raggiunta conciliazione fra vittima e autore, con il consenso e sotto il controllo dell’organo giurisdizionale114.

Percorsi di mediazione possono essere altresì inseriti all’interno dell’art. 27 d.p.r. 488 del 1988 che contempla la pronuncia del giudice per le indagini preliminari di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, qualora il pubblico ministero, avendo avuto modo di constatare alla conclusione delle indagini preliminari la occasionalità e la tenuità del fatto, si sia convinto della opportunità di non proseguire l’azione.

Secondo il giudizio di alcuni l’istituto previsto dall’art. 27 può essere preceduto o seguito da un tentativo di mediazione in grado di svolgere in tale contesto un duplice ruolo: evitare l’uso spesso automatico e strumentale dell’irrilevanza del fatto ai fini della deflazione del carico giudiziario da un lato e, in seconda battuta, aiutare il minore a prendere coscienza dell’atto antigiuridico perpetrato, seppure di tenue gravità115.

Altri, con riferimento alla mediazione attuata a posteriori, sembrano concludere per una scarsa utilità di una simile ipotesi: in una simile circostanza il rapporto con il processo penale è “ voluto ” dalle parti, in assenza di qualsiasi rilevanza giuridica116.

Al momento è impraticabile una valutazione più approfondita del fenomeno, perché mancano dati empirici in grado di fornire interessanti spunti di riflessione, salvo dover constatare una volta ancora che i presupposti della mediazione non coincidono con quelli della fattispecie ex art. 27 e, di conseguenza alla mediazione potrebbe non seguire una pronuncia per irrilevanza del fatto.

Allo scopo di una migliore comprensione di quanto affermato è bene procedere all’esame del tentativo di conciliazione disciplinato dall’art. 564 c. p. p. La norma fa riferimento all’ipotesi di reati perseguibili a querela di parte e prevede che il pubblico ministero possa citare entrambe le parti a comparire avanti a sé, per verificare se il querelante è disposto a rimettere la querela ed il querelato ad accettare la remissione.

In questo caso l’attività di mediatore/facilitatore del dialogo è svolta dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, investiti di funzioni molto diverse rispetto a quelle degli operatori dei servizi, inoltre l’eventuale esito positivo del loro tentativo ha un riscontro immediato nell’archiviazione per estinzione del reato a seguito della rimessa querela.

Il numero dei reati perseguibili a querela di parte è molto esiguo, ma si sono chiari segnali di apertura verso l’attuazione di vere e proprie pratiche di mediazione ex art. 564 c.p.p., posto che la procedibilità di parte è indice di intollerabilità e grande sofferenza del fatto di reato, aspetti a cui solo la mediazione può dare una compiuta risposta117.

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO IV

 

La mediazione nell’esecuzione penale minorile

Gli artt. 28 e 32² del d.p.r. 488 del 1988 e l’art. 47 L. di Ordinamento Penitenziario sono stati indicati dal Ministero di Grazia e Giustizia tra gli ambiti operativi più qualificati per promuovere la pratica della mediazione all’interno del sistema di giustizia minorile1.

Le disposizioni in oggetto costituiscono validi strumenti in grado di offrire all’adolescente, incappato nelle maglie della giustizia, la possibilità di “ riconvertire ” se stesso attraverso la sperimentazione di regole ed obiettivi concreti. Si tratta, più precisamente, di istituti che obbediscono alla logica della decarcerazione e dunque respingono l’utilità di trattamenti puramente afflittivi nei confronti dei minori che delinquono, promuovendo invece il ricorso a tecniche meno invasive, attente all’evoluzione della personalità del soggetto e dirette ad una reale responsabilizzazione del medesimo.

 

 

 

 

4.1 L’esperienza riconciliativa nella sospensione del processo e messa alla prova

 

La sospensione del processo e messa alla prova, ex art. 28 d.p.r. 488, rappresenta sicuramente una delle innovazioni più significative del nuovo processo penale minorile; l’originalità che la contraddistingue deriva dal fatto di essere un modello di probation processuale, mentre nella maggior parte dei paesi europei il modello adottato presuppone la pronuncia di una sentenza di condanna 2.

Nell’esperienza italiana la messa alla prova viene applicata in sede di udienza preliminare o di dibattimento, ed il provvedimento che la dispone ha l’effetto di sospendere il processo e l’accertamento della responsabilità per un periodo di tempo non superiore a tre anni, in attesa di conoscere gli esiti della prova a cui il minore sarà sottoposto.

Sulla valenza giuridica della figura le opinioni non sono omogenee; alcuni autorevoli esperti3 sostengono la sua affinità con la diversion, contraddicendo il contenuto della relazione al testo definitivo del nuovo processo minorile, dal quale emerge con insolita chiarezza la sua qualificazione come probation e di conseguenza la sua inclusione fra gli istituti diretti ad evitare l’esecuzione di una pena detentiva.

Quale che sia la natura vera o presunta della misura, resta assodato il fatto che essa sia la risposta legislativa alla esigenza, largamente sentita fra i giudici minorili, di modulare gli interventi penali su minori in considerazione della personalità del soggetto, valutata caso per caso. Con la messa alla prova si tenta di anticipare l’intervento trattamentale dall’esecuzione al processo, e di indurre nel giovane positivi cambiamenti, evitandogli, per quanto possibile, contesti emarginanti e stigmatizzanti.

L’art. 28 può essere disposto per qualsiasi tipo di reato e, in assenza di limiti precisi, può essere esteso anche a tipologie gravi come l’omicidio o a ipotesi di reiterazione del fatto criminoso. Questa eccessiva permissività ha esposto la messa alla prova a pesanti critiche, tanto da indurre a riflettere sull’opportunità di una modifica del tracciato normativo, per scoraggiarne l’abuso. In effetti un intervento legislativo potrebbe risolvere alcuni spiacevoli inconvenienti dettati da una pratica a volte distorta dell’istituto, evitando da un lato il suo utilizzo come misura aggiuntiva nei confronti di quei soggetti che potrebbero usufruire di opportunità meno gravose ( perdono giudiziale, irrilevanza del fatto, ecc ), e  dall’altro lato incoraggiandone il ricorso per i minori passibili di una pena detentiva 4.

Come è noto, in base all’art. 28 comma 2 del d.p.r. 488/’88, con l’ordinanza di sospensione “ il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minore con la persona offesa dal reato ”. In quest’ambito è stato evidenziato il ruolo e la funzione complessiva di “ mediazione giudiziaria ” che il legislatore ha assegnato ai servizi minorili: di mediazione perché si tratta di attività specifiche finalizzate a facilitare la comunicazione fra due parti contrapposte; giudiziaria perché gli obiettivi e i risultati a cui mirare, sono definiti nel processo ed esercitano un’influenza sull’andamento e sull’esito del medesimo5.

Nell’ambito dell’art. 28 il fine di mediazione può essere inteso nella sua dimensione più diretta, come incontro fra reo e vittima, sia nella sua accezione più generale di solidarietà verso la comunità, da attuarsi quest’ultima attraverso l’inserimento del soggetto in attività di volontariato o nel risarcimento simbolico del danno.

Il legame fra l’istituto della messa alla prova e le pratiche di mediazione si è creato nel momento in cui le attività per l’elaborazione di un nuovo codice procedurale minorile erano in pieno svolgimento. In quel periodo si preparava a Strasburgo la Raccomandazione europea sulle risposte alla devianza minorile, fra le quali la pratica conciliativa occupava un posto di prim’ordine. Il Governo italiano, per inserire l’innovazione nel progetto e non incorrere in sanzioni di incostituzionalità, forzò il dato normativo e inserì il concetto nell’art. 286.

Una scelta di tale portata avrebbe forse richiesto una riflessione più ponderata, in quanto gli effetti della decisione non hanno tardato a manifestarsi, generando i primi dubbi circa l’opportunità di appesantire il carico di lavoro nella predisposizione dei progetti di messa alla prova con tentativi di mediazione.

La difficoltà di prevedere formalmente la conciliazione reo – vittima è opinione sostenuta da molti, che evidenziano il paradosso di prevedere l’impegno conciliativo, per sua natura basato sul libero arbitrio, fra le prescrizioni con cui il giudice obbliga il ragazzo a seguire un determinato comportamento7.

Accanto a queste moderate osservazioni si deve segnalare l’aperta convinzione di chi8 sostiene vivacemente che la messa alla prova sia una figura atrofizzata e abbia fallito i suoi principali obiettivi, perché costretta ad essere uno strumento di trattamento di una delinquenza segnata sempre più da nette distinzioni, radicalmente diversa rispetto a quella di quindici anni fa, caratterizzata da nette differenze di censo, cultura ed opportunità.

La soluzione migliore per evitare che i contenuti lineari della mediazione vengano irrimediabilmente offuscati è, secondo il parere di questa autorevole fonte8, eliminare dall’art. 28 l’inciso del comma 2 ed introdurre invece una previsione generale in grado di fondare l’attività riparativa come diritto dell’imputato e della vittima del reato e non come oggetto di discrezionali operazioni del magistrato o dei servizi minorili.

Occorre precisare tuttavia che, nonostante le critiche, la messa alla prova è un istituto dotato di un buon taglio pedagogico e la previsione di attività riparative e conciliative può solo aiutare il minore ad una maggiore comprensione del reato da lui commesso.

Inoltre l’istituto della mediazione così come disciplinato dall’art. 28 risulta espressamente disciplinato ex lege e, pertanto armonizzato con i principi che regolano il processo. L’ordinamento infatti riconosce un preciso effetto alla avvenuta conciliazione fra la vittima e il suo aggressore: il giudice con sentenza dichiara estinto il reato e il minore viene prosciolto dai fatti addebitatigli. ( art. 29 d.p.r.) 9.

Il tentativo mediatorio potrebbe venire comunque favorevolmente valutato anche se questa finalità fosse raggiunta in tutto o in parte: bisogna sempre tener presente infatti che la vittima può non essere disponibile ad un incontro con minori devianti, soprattutto in caso di reati gravi. In questi casi il mancato raggiungimento della conciliazione non sarebbe dannoso, perché i ragazzi possono comunque apprendere con maggiore consapevolezza le regole di un corretto modo di rapportarsi agli altri, e confrontarsi con la realtà di un rifiuto che devono imparare a gestire in maniera equilibrata.

In ultima analisi si può affermare che l’inserimento di prescrizioni, miranti alla riconciliazione con la parte lesa nello schema della messa alla prova, ha una chiara valenza educativa, in quanto avvicina la vittima al reo e, nel far ciò favorisce il concretizzarsi della sofferenza della persona offesa 10.

Nonostante l’istituto conosca nella pratica una certa diffusione, la percentuale relativa all’applicazione di prescrizioni inerenti a percorsi mediativi risulta molto esigua.

Nei progetti di messa alla prova realizzati dall’ U.S.S.M. ( Ufficio servizi sociali minorili ) è stato di norma assente l’obiettivo di un’attività di riparazione rivolta alla vittima o di conciliazione con quest’ultima. Gli operatori dell’U.S.S.M. non incontrano la vittima e hanno quindi una visione parziale della relazione, che rende difficile rappresentarsi concretamente questo obiettivo. Quindi è sembrato più utile un riferimento più simbolico che reale alla vittima, invitando il minore a riconoscere il danno arrecato alla società e il dovere di provvedere ad un “ risarcimento ” 11.

La sezione di mediazione di Roma ha agito per la maggior parte dei casi proprio all’interno dell’art. 28; le tipologie di reato, forse per la loro complessità, hanno creato problemi di gestione delle aspettative delle parti. La difficoltà maggiore è stata comunque quella di reperire le vittime e di motivarle alla mediazione.

A Bari la magistratura minorile si è distinta per la creatività nel riempire di contenuti riparativi atipici la norma dell’art. 28. Le modalità riparative sono risultate varie: lettere di scusa alla vittima, versamenti ad enti benefici, incontri di riconciliazione e risarcimenti in denaro12.

Tuttavia, a parte il dato in controtendenza della città pugliese, si deve prendere atto della rara circostanza di imbattersi in progetti di messa alla prova, in cui l’attività conciliativa è espressamente disposta nel progetto. Probabilmente la causa è da ricercarsi nel difetto della normativa, che non esplicita le modalità per effettuare la mediazione, lasciando in tal modo agli operatori di giustizia il compito di occuparsi della valutazione della fattibilità della mediazione, pur non fruendo a tal proposito di alcuna formazione specifica.

Inoltre l’attività svolta dai servizi sociali risulterebbe ulteriormente aggravata dalla predisposizione di eventuali percorsi riconciliativi e, nel cui ambito le esigenze della vittima non sarebbero sempre prese in considerazione; ad esempio non sarebbe verificata la sua disponibilità ad un incontro con il giovane aggressore, né sarebbero fornite spiegazioni circa la funzione di un tentativo in tal senso, deludendo le sue aspettative ed incrementando il senso di ingiustizia13.

Un'altra ragione alla base di un dato empirico così avvilente va ricercata nella scarsa attenzione del legislatore a questi istituti, essendosi limitato ad inserirli nella disposizione dell’art. 28, confondendoli tra le innumerevoli prescrizioni applicabili al minore nel corso della prova14.

 

 

 

 

 

4.2 Sanzioni sostitutive e principi di giustizia riparativa

 

Quando si parla di sanzioni sostitutive all’esecuzione di pene detentive caratterizzate da particolare brevità, si fa riferimento alle misure disciplinate dalla legge 689/1981 che, dopo l’emanazione del d.p.r n. 488/1988 sono state inserite nel testo del nuovo codice di procedura penale minorile e, più precisamente negli artt. 30 e 32². Le sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata possono essere applicate dal giudice quando, tenuto conto delle esigenze educative del minore, si deve applicare una pena detentiva non superiore ai due anni. Queste misure hanno la funzione di non interrompere gli eventuali processi educativi in corso, consentendo la prosecuzione delle attività di studio e di lavoro in una realtà diversa da quella angusta del carcere15.

Le sanzioni sostitutive sono applicate con sentenza di condanna dal giudice dell’udienza preliminare, oppure dal giudice del dibattimento, i quali hanno l’obbligo di motivare le ragioni della scelta e, di specificare la misura che intendono applicare. I contenuti e le modalità di svolgimento sono invece determinati dal giudice di Sorveglianza, che, entro tre giorni dalla comunicazione della sentenza, convoca il ragazzo, la famiglia ed i servizi minorili allo scopo di predisporre un adeguato progetto educativo.

La semidetenzione consente al minore di trascorrere una parte della giornata, almeno 10 ore, in un istituto di semilibertà, separato dal carcere, dal quale si può allontanare esclusivamente per esigenze di studio e di lavoro. Il magistrato dovrà precisare le ore di permanenza  e gli orari in cui il ragazzo potrà allontanarsi dall’istituto, per svolgere le attività utili al suo reinserimento sociale.

La libertà controllata consiste, invece, nel sottoporre il ragazzo ad una serie di prescrizioni limitative della libertà aventi contenuto positivo e negativo e si svolge con modalità affini a quelle dell’affidamento in prova al servizio sociale.

Le misure sostitutive sono state indicate come idonee ad ospitare tentativi di mediazione, soprattutto con riferimento alla libertà controllata, che è stata riconosciuta << capace di configurare  un’azione a maglie larghe, da costruirsi nel progetto educativo che il magistrato di sorveglianza individua con l’aiuto dei servizi minorili e con la partecipazione del minore e dei suoi famigliari  >>16.

Tuttavia al momento pare che l’appello a mettere mano ai testi legislativi per rivalutare detti istituti, specialmente in un’ottica riparativa sia rimasto sostanzialmente inascoltato.

 

 

4.3 La mediazione nell’affidamento in prova al servizio

sociale

 

La promozione di percorsi di riparazione e conciliazione con la parte offesa dal reato allo scopo di sottrarre, in tutto o in parte, il minore alle conseguenze afflittive del suo gesto è un’idea antica, ripresa dal codice di procedura penale minorile in seguito alla diffusione della mediazione come tecnica vincente nel trattamento della devianza dei minori. La fonte di ispirazione diretta va individuata nell’art. 47 della Legge di Ordinamento Penitenziario n. 354/1975, il quale, regolamentando le prescrizioni per la probation disposta con sentenza in alternativa alla pena detentiva, stabilisce a carico dell’affidato ai servizi sociali l’obbligo di adoperarsi << per quanto possibile a favore della vittima del reato >>17.

L’affidamento in prova al servizio sociale è considerato la misura alternativa per eccellenza, in quanto si svolge totalmente nel territorio e mira ad evitare al massimo i danni derivanti dal contatto con l’ambiente penitenziario e dalla condizione di privazione della libertà. L’art. 47 prevede che il reo sia affidato al servizio sociale per un periodo uguale a quello del residuo di pena da scontare, non superiore ai tre anni di reclusione, anche se costituente residuo di maggior pena. Il provvedimento può essere adottato sulla base dei risultati dell’osservazione della personalità, condotta per almeno un mese in un istituto, se concretamente si ritiene che l’affidamento contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati. Il comma 3 dell’art. 47 prevede inoltre la possibilità di concedere la misura anche senza procedere all’osservazione in istituto quando il condannato, successivamente al fatto di reato, ha serbato un comportamento tale da consentire un giudizio favorevole in ordine alla fruibilità del beneficio18.

La legge Gozzini del 1986 ha inciso in maniera significativa sulla previsione relativa ai doveri di solidarietà del reo verso la vittima e la propria famiglia, stabilendo che tale prescrizione sia obbligatoria e non più lasciata alla decisione discrezionale del Tribunale di Sorveglianza. La modifica è stata molto apprezzata, perché in questo modo si è data prova della volontà di trasformare l’impegno del soggetto nei confronti della parte lesa, e verso i famigliari da semplice dichiarazione di intenti in un più espressivo segno di maturazione personale.

Anche l’affidamento in prova mira a decarcerizzare l’autore del reato, e a sottoporlo ad una sorta di prova dalla cui riuscita dipende la conclusione della vicenda penale; questa affinità con la figura della messa in prova potrebbe indurre ad una confusione per cui è bene chiarire, per rapidi cenni, la differenza che esiste fra i due istituti.

La messa alla prova è una forma di probation che trova collocazione sistematica all’interno del processo, l’affidamento, viceversa, appartiene alla fase esecutiva; diversi sono poi gli effetti, in quanto la probation esecutiva positivamente conclusa estingue la pena, mentre la messa alla prova persegue l’obiettivo ben più corposo di estinzione del reato19.

L’art. 47 è stato segnalato più volte come ambito legislativo propizio alla mediazione, in quanto è stato spiegato che si tratta di una norma di carattere sostanziale in grado di dar vita ad un interessante ampliamento della giustizia riparativa, con riduzione della centralità delle sanzioni penali tradizionali20.

In un certo qual modo la mediazione – riparazione si libera di alcuni aspetti di ambivalenza proprio nella fase della esecuzione: qui infatti non c’è più, o comunque è molto attenuata la frizione tra il principio consensuale dell’istituto e l’indisponibilità del processo penale. Il minore è stato condannato ad una pena definitiva e, dunque è venuto meno il profilo di negoziabilità legato al reato e alle sue conseguenze; la condanna rappresenta un punto fermo su cui innestare una fase mediativa diversa da quelle concepibili nella fasi precedenti del percorso penale.

Se ci soffermiamo poi sull’elemento della consensualità delle parti, imprescindibile per procedere alla mediazione, è lecito ritenere che, almeno per quanto concerne il reo, il consenso venga espresso implicitamente nel momento in cui egli chiede la concessione della misura alternativa ex art. 47. Il comportamento attivo del reo nel ricercare modalità per riparare o attenuare le conseguenze del proprio comportamento illecito, può essere interpretato come un modo per esprimere la volontà di incontrare la vittima, sostituendosi al consenso formalmente espresso21.

Per ciò che concerne la vittima invece, nulla impedisce la ricerca del suo consenso, pur non essendone espressamente disciplinata l’acquisizione dalla norma in questione.

I problemi possono invece originarsi con riguardo al ruolo svolto dall’assistente sociale penitenziario, istituzionalmente preposto a rapportarsi con il reo e non con la vittima, la quale potrebbe percepire un suo intervento come di parte e strumentalmente diretto a vantaggio del minore a lui affidato.

Il tentativo di promuovere il contatto con la vittima potrebbe essere comunque svolto dall’Ufficio di mediazione, che, in questo caso si rapporterebbe agli operatori penitenziari per lo scambio di notizie utili in riferimento alla personalità del condannato e al tipo di reato. E’ vero che in questa sede uno degli obiettivi della mediazione, cioè quello di ricomporre il conflitto, da un punto di vista squisitamente giuridico viene meno e dunque l’attenzione è concentrata sull’aspetto più propriamente riparatorio del danno arrecato; ma ciò non significa svilire il significato della mediazione, quanto piuttosto sperimentarne l’enorme potenziale anche in una fase, in cui il risultato da perseguire sia quello di provocare nel reo una riflessione sulle conseguenze negative del suo gesto, accompagnandolo verso la maturazione di un consenso a riparare il danno arrecato.

Un ruolo importante potrebbe essere affidato al volontariato non attivo nel sistema di giustizia, espressione della comunità civile: i volontari potrebbero, ad esempio, avvicinare e preparare la vittima ad acconsentire all’incontro con il suo offensore, informandola sui contenuti, le modalità e gli obiettivi della mediazione; se la vittima non fosse conosciuta o si trattasse di reati ambientali e di danneggiamento di opere pubbliche, sarebbe opportuno pensare ad una forma di volontariato idonea a stabilire il contatto con gli organi rappresentativi della collettività, allo scopo di ottenerne il consenso alla mediazione.

Inoltre, la constatazione relativa alla mancanza di una competenza specifica dei volontari in ordine alle pratiche mediative competenze non osterebbe ad una loro eventuale impiego nel settore, dal momento che il difficile ruolo di mediatore può essere assunto anche da soggetti del privato sociale, in modo da << rappresentare il più possibile ogni sezione della società nelle aree dove si pensa che la mediazione debba

operare. In particolare, i mediatori dovrebbero provenire da tutti i gruppi sociali inclusi i gruppi etnici e minoritari, ed entrambi i sessi dovrebbero essere rappresentati; essi dovrebbero altresì possedere preferibilmente una buona conoscenza di base, anche se cultura e qualificazione non sono necessariamente gli elementi più importanti nella selezione. In quanto poi alle abilità personali è sufficiente un solido giudizio e un alto grado di maturità…Per tutti gli aspiranti mediatori è previsto infine un training iniziale per lo sviluppo di specifiche abilità e tecniche, cui contenuti siano agganciati agli standard del servizio di mediazione >> 22.

In Europa non sono mancate esperienze e programmi rivolti proprio a minori in esecuzione della pena, finalizzati al recupero dei contatti con la vittima del reato, ed a livello internazionale alcuni importanti documenti relativi alla giustizia minorile auspicano la disponibilità della mediazione lungo tutto il percorso penale, anche dopo l’emissione della sentenza23.

Ciò nonostante non sono mancate le voci contrarie, soprattutto di coloro che vedono grossi ostacoli all’ingresso della mediazione nella fase eventuale di esecuzione della pena. Fra gli elementi a sfavore il fattore tempo è probabilmente quello che assume i contorni più netti; in un ordinamento come il nostro l’espansione, forse eccessiva dei tempi processuali per l’accertamento definitivo dei fatti, comporta che la pena detentiva o la misura alternativa si svolgano a notevole distanza dal fatto di reato. Proprio questo lungo intervallo temporale produce nel minore reo una sorta di distacco, di estraneità verso la sofferenza che l’atto criminoso ha prodotto. Una volta entrato in carcere la sua attenzione è assorbita dal tentativo di sopravvivere, perché paradossalmente si realizza un autentico spostamento psicologico: il minore si sente vittima di una punizione, percepita come ingiusta ed eccessiva, la sofferenza dovuta alla privazione della libertà lo rende indifferente a qualsiasi istanza di tipo riparativo. Un altro dato a sfavore è l’esistenza di una condanna inflitta da terzi che frappone difficoltà nuove e diverse a un’ipotetica comunicazione autore – vittima. Infine, è stato osservato che il minore è condannato per dei fatti gravi; e quanto più grave è il fatto tanto più è difficile ottenere il consenso alla mediazione24.

Si può convenire che in alcuni casi un’eccessiva distanza dal fatto possa costituire un problema, in altri casi può viceversa rivelarsi opportuna per preparare un incontro con la parte offesa maggiormente sentito dal minore. Quando il ragazzo viene arrestato non pensa alla riparazione, perché sta affrontando altri problemi che lo assorbono completamente: il processo, la probabile detenzione, ecc.25.

Non è così insolito invece ripensare alle proprie azione e dunque alla vittima del proprio agire, nel momento in cui il soggetto sta per uscire dal carcere in misura alternativa o per aver scontato la pena prevista. Il ragazzo potrebbe desiderare di incontrare la parte offesa, per avere la possibilità di concludere con la riconciliazione una parentesi drammatica della propria esistenza, e potere dimostrare di aver raggiunto una matura consapevolezza dei propri errori. E’ molto importante offrire all’adolescente, protagonista di una vicenda di reato, l’opportunità di scusarsi e, magari, di adoperarsi favorevolmente nei confronti della vittima. Una tale possibilità può rappresentare un modo per riscattare se stesso, ma anche una logica conseguenza del lavoro condotto con il giovane in una prospettiva pienamente educativa.

Nell’ambito dell’art. 47 non è dato conoscere dati empirici rilevanti, anche se si possono segnalare alcuni tentativi informali, troppo sparsi e insufficienti a sostenere al momento una prassi applicativa omogenea nel settore.

Il primo caso riguarda un esperimento svoltosi presso il Tribunale dei Minori di Milano, che ha avuto protagonista un ragazzo riconosciuto colpevole di violenza carnale nei confronti di una vittima a lui conosciuta. La mediazione è stata richiesta dall’autore stesso del fatto, ma non si è conclusa per la situazione estremamente delicata della parte lesa26.

Un altro tentativo noto è stato quello condotto dalla équipe di mediazione penale di Roma: il caso riguardava una giovane nomade affidata al servizio sociale ex art. 47 per un reato contro il patrimonio. L’esperienza si sarebbe certamente conclusa positivamente, ma al momento della conclusione è giunta la notizia di un nuovo reato ascrivibile alla stessa minore, compiuto in uno spazio temporale antecedente al suo affido27.

La scarsa presenza di tentativi di mediazione all’interno della misura alternativa dell’affidamento in prova è probabilmente causata dalla tendenza generale di ancorare la responsabilizzazione del minore ai colloqui con psicologi ed assistenti sociali, e a privilegiare forme di riparazione all’esterno, ricorrendo alle varie forme di lavori socialmente utili disponibili e a corsi di studio, apprendistato ecc.28.

L’analisi concreta dei dati raccolti mostra come la mediazione penale minorile preferisca, almeno in questa prima fase evolutiva a cui certamente ne seguiranno altre, muoversi in un contesto temporalmente vicino al fatto di reato. Ciò non significa che in una prospettiva futura gli spazi offerti dall’art. 47 non si aprano ad una pratica di mediazione più ampia; l’affidamento in prova è in grado di ospitare validi percorsi di conciliazione, e il fatto che sia da poco partito uno studio di approfondimento relativo a questo aspetto29, anche se riguardante nello specifico gli adulti, è un chiaro indice di quanto la discussione nel merito sia ancora aperta.

 

 

 

CAPITOLO V
Cenni alle esperienze straniere

Il sistema penale dei paesi europei ed extraeuropei si connota per l’estrema varietà delle misure, che prevedono oltre al risarcimento economico della vittima del reato, anche forme di riparazione morale e materiale del danno scaturito dalla commissione dell’azione illecita.

Il Consiglio d’Europa indicava in un rapporto del 1987 che, in diversi Stati, quali Francia, Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti e Canada, i programmi di mediazione vittima – autore del reato conoscevano già una prassi applicativa ben congegnata: le attività conciliative potevano essere intese o come risoluzione del procedimento penale, oppure come provvedimento aggiuntivo all’interno dell’applicazione di altre misure a carattere detentivo e non detentivo1.

Mentre in Italia la pratica della mediazione e, più in generale della giustizia riparativa, stenta a diffondersi come modello principe negli interventi sui minori devianti, nel panorama internazionale è oramai una realtà accettata e molto apprezzata a cominciare dall’America e dal Canada, dove ha affondato le radici nei lontani anni ’70, per arrivare fino all’Europa letteralmente conquistata dal linguaggio innovativo della figura. Infatti, specialmente nel Vecchio Continente la mediazione ha fornito lo spunto ideale per ricavare nuove risposte alla criminalità dei minori, più precisamente la spinta a superare la tradizionale reazione all’illecito penale in favore della ricerca di una diversa unità di misura, basata non più sulla centralità dell’obbligo di soffrire per rimediare alla proprie colpe, bensì sulla centralità dell’obbligo di fare. Questo tentativo ha permesso di evidenziare quattro direzioni comuni alla maggior parte dei paesi europei, così riassumibili2:

Lavori di interesse generale → si tratta di uno strumento alternativo alla detenzione o, più precisamente di una sanzione sostitutiva. Vengono destinati ad attività di interesse generale coloro che diversamente non potrebbero evitare la sanzione della reclusione; la misura è applicata solo per i reati non particolarmente gravi ed ha durata contenuta nel tempo. Il rapporto così instaurato è corredato di prescrizioni ed obblighi, la cui inosservanza è oggetto di sanzione. La caratteristica principale è quella di evitare la sofferenza della reclusione, anche se esiste il rischio che questa misura possa essere utilizzata in modo decisamente strumentale3.

La mediazione autore – vittima → come ben sappiamo, la ricerca del confronto fra le due parti del conflitto generato dal reato ha fra i suoi obiettivi più graditi la responsabilizzazione del minore, in quanto permette a quest’ultimo di concentrarsi sull’esperienza concreta dell’azione illecita e sulle sue conseguenze. Molti programmi di mediazione sono strutturati in una serie di passaggi progressivi attraverso i quali il minorenne viene condotto, prima a riflettere sul reato commesso, poi ad incontrarsi con la vittima se disponibile, infine a svolgere vere e proprie azioni positive in favore della stessa, anche indirettamente. E’ quest’ultima fase a rappresentare il momento riparatorio anche dal punto di vista psicologico, sviluppato attraverso attività utili alla vittima o a persone che si trovino in condizioni simili. Il minore ha quindi modo di prendere coscienza dell’offesa arrecata, ma contemporaneamente presenta alla collettività le sue parti buone, sfuggendo all’etichettamento di se stesso come delinquente. L’attività è concepita in una funzione esclusivamente riparatoria e rappresenta la conclusione di un programma fortemente individualizzato e concreto.

La riparazione comunitaria → mentre i lavori di interesse generale sono tipici dell’esperienza francese, la riparazione comunitaria è diventata, in Inghilterra e in Canada, una risposta penale anche per coloro che, normalmente, non sarebbero colpiti da una sanzione alternativa. Questi tipi di programmi  tendono a confrontare il minore con la comunità di cui fa parte e, a coinvolgere la stessa comunità nel ricostituire il legame con il giovane criminale. Un’azione di questo tipo è certamente appropriata quando non ci sono vittime fisicamente individuate, ma si sono in ogni caso verificati dei danni tangibili ( il danneggiamento di un edificio, il furto, ecc ). Il tipo di attività proposte vanno dalla pulizia delle strade a vari e forme di aiuto negli ospedali e nei centri ricreativi o di assistenza, a seconda della fantasia e della disponibilità della collettività. L’obiettivo di queste misure è quello di riuscire a far comprendere al minore, grazie all’utilizzo di metodi a lui comprensibili, il significato delle comuni regole del vivere civile.

Il trattamento intermediario → la misura ha origini molto antiche e trova un buon sostegno in Inghilterra e in Germania. I programmi di questo tipo non hanno una natura riparatoria e sono essenzialmente rivolti alla popolazione minore, che rischia seriamente l’incarcerazione.

Infatti si cerca proprio di evitare l’ istituzionalizzazione attraverso il ricorso a soluzioni, che si collocano a metà strada fra l’inserimento residenziale e attività di puro sostegno educativo, da qui il nome stesso della figura.

In realtà si tratta di misure che mirano a modificare il comportamento sociale del minore, sottoponendolo ad un trattamento fondato su quattro fasi:

-         un lavoro correttivo che coinvolge il minore nelle riflessione del reato, utilizzando giochi di ruolo registrati e proiettati, discussi e commentati;

-         educazione sociale ( relativa all’uso di sostanze stupefacenti, prostituzione, malattie veneree, ecc. );

-         insegnamento per piccoli gruppi;

-         occupazione del tempo libero attraverso attività collettive.

I programmi si diversificano per intensità a seconda delle caratteristiche del minore e durano da 6 ad 8 settimane.

Nel tentativo poi di fornire un fedele quadro d’insieme degli aspetti normativi della mediazione in tutte le modalità e finalità individuate, è sembrato significativo introdurre i percorsi mediante i quali essa si realizza, sintetizzabili in questo modo4:

-         prima dell’esercizio dell’azione penale, su iniziativa della Polizia o del pubblico ministero. Esito: chiusura del caso senza processo;

-         come conseguenza della decisione giudiziaria, su iniziativa del Giudice. Esito: sanzione autonoma, sanzione alternativa, sanzione aggiuntiva alla pena o all’interno di una misura alternativa;

-         durante l’esecuzione della sanzione alternativa, su iniziativa dell’organo dell’esecuzione delle pena. Esito: esecuzione della sanzione alternativa ( probation ).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5.1 Gli Stati Uniti e il Canada

 

L’avvio di forme alternative di gestione dei conflitti generati da fatti di reato avviene, come si è già avuto modo di precisare altrove5, negli Stati Uniti verso la fine degli anni ’70; il modello a cui si fa riferimento è il VORP ( Victim – Offender Reconciliation Program ), nato in Canada e adottato dagli U.S.A. nel 1978, quando nell’Indiana del Nord si costituisce il primo vero staff denominato PACT ( Prisoner and Community Togheter ). L’esperienza acquisita ha reso ben presto questo organo in grado di istituire ed allestire un vero e proprio centro di ricerca e di applicazione del modello riconciliativo, tutt’oggi operativo. I programmi di riconciliazione sono caratterizzati, almeno inizialmente da una forte connotazione religiosa, destinata a scomparire una volta che l’istituto viene trasportato sul terreno più concreto della giustizia. Il VORP può assumere differenti tipologie a seconda degli ambiti in cui è impiegato e degli obiettivi a cui è diretto; infatti il programma può essere utilizzato per operare una risoluzione del conflitto prima dell’inizio dell’azione penale, come procedura alternativa al processo penale vero e proprio, come conclusione del processo con sospensione della pronuncia. Inoltre può essere considerato come elemento aggiuntivo della condanna, oppure inserito fra le prescrizioni previste durante l’esecuzione della probation6.

E’ importante sottolineare che la possibilità di una conformazione così varia è permessa dall’inquadramento del VORP all’interno di un sistema di common law, dove non vige il principio di obbligatorietà dell’azione penale, e dove le condotte penalmente rilevanti possono essere trattate con tecniche di diversion, consentendone in tal modo l’uscita dal settore giudiziario7.

Il controllo compiuto sulla validità del modello è stato positivo, ed ha evidenziato il buon livello di apprezzamento da parte delle vittime dei reati che hanno accettato di sottoporsi alla prova del percorso mediativo. La verifica ha altresì rappresentato l’occasione per fare  maggiormente chiarezza su alcuni aspetti del VORP, ovvero circa la sua prevalente finalizzazione alla restituzione monetaria e la sua pratica attuazione nei casi di reati non violenti contro la proprietà commessi da adulti e minorenni8.

Tuttavia, il modello statunitense punta decisamente sulla probation come misura d’intervento cardine nei confronti dei minori che delinquono. La probation, è bene ricordarlo, sottrae il condannato alla pena detentiva e costituisce dunque una classica misura di decarcerizzazione9.

La probation può essere applicata dalla polizia, dagli organi amministrativi, e dal giudice secondo un meccanismo “ a scalare ” in base al quale i casi meno gravi sono di competenza della polizia che, dopo averlo interrogato, invia il minore all’organo amministrativo gestito da operatori sociali ( probation officers ), liberi di decidere se trattare il caso in autonomia o di riassegnarlo al Tribunale. Quindi si ha la possibilità di una gestione interna e informale, di cui è competente l’organo extra – giudiziario oppure si può privilegiare quella formale affidata all’autorità giudiziaria, alla quale si arriva anche in conseguenza del fallimento della procedura informale10.

Nel primo caso si ha una rinuncia al procedimento penale formale, mentre in caso di scelta del procedimento formale l’autorità procedente sospende la condanna e affida i minori ai probation officers. In ultima analisi può accadere che organi amministrativi gestiscano competenze proprie degli organi giurisdizionali, potendo  far affidamento tuttavia a strumenti correttivi, quali l’ammissione di responsabilità e il consenso del minore, per sfuggire  alla assenza di garanzie giuridico-formali.

In parecchi stati è poi diffusa la c.d. probation rafforzata, il cui scopo dichiarato è quello di difesa della società, anche se in ambito minorile è finalizzata a terapie riabilitative, per esempio è indicata nel caso del trattamento della tossicodipendenza. Il modello intensivo impiega risorse e strutture terapeutiche ed assistenziali, e prevede l’affidamento del minore ad un team di esperti con competenze specifiche in campo correzionale o di mero sostegno.

Per soggetti ad alto rischio criminale esiste un ulteriore modello, basato sul Balanced Approach, con finalità educative e di controllo; la misura cerca di favorire il coinvolgimento della comunità, nonché la responsabilizzazione dei minori chiamati a riparare alle conseguenze del loro operato11.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5.2 La Francia

 

La legislazione francese relativa ai minori delinquenti è contenuta nell’Ordinanza del 2 febbraio 1945, che, malgrado la sua remota promulgazione, viene considerata specialmente dai giudici minorili uno strumento estremamente moderno, grazie alla facoltà riconosciuta agli stessi  di adattarla sia all’evoluzione dei costumi, sia all’interesse del minore12.

Una prima risposta alla delinquenza degli adolescenti è data dall’istituto della sursis, che permette al giudice il rinvio della sua pronuncia, allorquando il pubblico ministero abbia chiesto la condanna ad una pena detentiva. La colpevolezza del soggetto è stata accertata, ma il Tribunale può decidere di fornirgli un’ultima occasione, fissando un periodo di prova in cui il minore dovrà seguire delle obbligazioni specifiche, ad esempio esercitare un’attività o seguire un corso. In questo caso si parla di sursis con sottoposizione a prova, corrispondente alle linee tipiche della probation; la sursis può essere anche semplice e consistere in una sospensione condizionale della condanna13.

Un’altra misura alternativa alla detenzione è costituita dal lavoro d’interesse generale, il Tig ( Travail d’Interét Général ), che, per definizione, è una pena pronunciata dal Tribunale per i minori, a fronte di un reato o di una contravvenzione. Può essere pronunciata, a seconda dei casi, come pena principale o come modalità di una pena detentiva, irrogata con il beneficio della sospensione e con l’obbligo di compiere un Tig 14.

La pena può essere pronunciata solamente in presenza dell’imputato, e dopo che quest’ultimo abbia manifestato il suo consenso all’esecuzione di una misura di questo tipo. Si è detto che il Tig associa lo sforzo di reinserimento con la volontà di riparazione sociale, permettendo al giovane di misurare le conseguenze del suo atto e di scoprire dei punti di riferimento nel processo di socializzazione.

Infine anche la Francia conosce la figura della mediazione riparazione che, quando è organizzata a cura del pubblico ministero, prima dell’inizio dell’azione penale, può evitare al ragazzo di comparire di fronte al giudice; la riparazione può essere diretta o indiretta e, in quest’ultimo caso, effettuarsi a beneficio della collettività. Fra i presupposti dell’istituto è degno di nota quello che limita la misura ai casi semplici e completamente chiariti. Se la misura ha avuto corso dopo l’inizio del procedimento la conseguenza è una sanzione attenuata o la dispensa dalla pena; quando l’attività di riparazione è stata effettuata su iniziativa del pubblico ministero si ha l’archiviazione.15

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5.3 La Germania e l’Austria

 

Nel 1990, in occasione della riforma del diritto minorile tedesco, entrano in vigore le nuove misure cosiddette ambulanti e viene altresì riconosciuto valore giuridico alla mediazione, nella sua duplice  veste di misura educativa e alternativa16.

Le misure ambulanti sono strumenti ad hoc; non fanno parte di una linea operativa mirata, ma obbligano il minore a fare o a smettere determinate attività in conseguenza dei reati commessi. Si definiscono ambulanti, perché permettono di reagire in modo differenziato di fronte alle situazioni di devianza. Tra le misure ambulanti più tradizionali si ricordano: l’obbligo di eseguire lavori non remunerati; pagare una multa a favore di una istituzione sociale; vivere a casa di determinate persone; cominciare un apprendistato o accettare un lavoro; risarcire la vittima e presentarle le proprie scuse ecc. Queste misure sono indicate per i reati meno gravi: ad esse, nella scala delle possibili misure, segue l’arresto17.

Negli ultimi anni si sono invece sviluppate le nuove misure ambulanti che concernono reati più gravi che hanno come conseguenza l’arresto o la reclusione; fra queste sanzioni  il lavoro di pubblica utilità sembra assumere un ruolo preminente dal punto di vista quantitativo18.

L’ultima alternativa da esaminare è la mediazione tra autore e vittima; la mediazione ha conosciuto le prime sperimentazioni a partire dal 1985, e in seguito si è diffusa su tutto il territorio dei vecchi Länder e di quelli nuovi risultando una delle misure proposte dalla Jugendhilfe ( Servizi sociali ), prima o durante un intervento sanzionatorio penale. In Germania i progetti di mediazione hanno come idea di fondo la comprensione delle cause che hanno mosso i protagonisti del fatto – reato, e perseguono tre scopi fondamentali19:

-         la composizione del conflitto tre reo e vittima;

-         la riparazione dei danni materiali e morali per mezzo di prestazioni pecuniarie o simboliche da parte del reo;

-         la valutazione delle prestazioni riparatorie nel procedimento penale al fine di evitare un processo formale o almeno di ridurre la pena.

Dal 1985 in Austria viene applicata la mediazione stragiudiziale, definita dal legislatore con la sigla ATA ( Auβergerichtlicher Tatausgleich ), che trova solo qualche anno più tardi regolare applicazione su tutto il territorio della nazione. Per avviare la mediazione non è necessaria una confessione formale, ma è sufficiente che il minore risponda del reato, e sia disposto a rimediare alle conseguenze del suo gesto, risarcendo i danni secondo le sue possibilità. Quando la mediazione ha esito positivo il pubblico ministero, sulla base della relazione dei Servizi sociali, può decidere di non proseguire il procedimento nei confronti del ragazzo. Il giudizio esclusivo sulla riuscita dell’ATA spetta comunque alla giustizia penale che qui, diversamente dall’esperienza italiana, è messa al corrente di tutti i fatti accaduti in fase di mediazione 20.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5.4 Inghilterra

 

In Inghilterra vige la convinzione, sostenuta da molte scuole di criminologia, della improponibilità del carcere come strumento idoneo nel trattamento della devianza minorile; per questo motivo  esiste un sistema penale minorile denso di pene alternative alla detenzione, considerate ottimi strumenti giuridici per la punizione del minore che delinque. Tra i vari modelli adottati troviamo la probation: dopo la pronuncia di colpevolezza, il giudice, se lo ritiene opportuno, propone al giovane una sorta di periodo di prova, durante il quale, sotto la supervisione di un probation officer, dovrà sottoporsi a determinate restrizioni comportamentali ed eseguire alcune prescrizioni socio-educative. Il programma predisposto per il ragazzo deve basarsi su di una approfondita valutazione della sua vita e della sua personalità ed è aggiornato in relazione ai suoi progressi21.

Al filone delle sanzioni sostitutive appartiene poi il Community service order, caratterizzato dal fatto di essere una misura basata sul lavoro socialmente utile non retribuito; anche in tale contesto il giudice dovrà valutare, sulla base di una relazione degli assistenti sociali, se il soggetto sia idoneo al trattamento. Anche in questa circostanza vengono stabilite prescrizioni ed è richiesta l’osservanza di obblighi specifici, validi per l’intera durata del periodo. Per accedere a questo tipo di trattamento, che secondo le ultime statistiche ha notevolmente ridotto il rischio di recidiva, occorre aver compiuto sedici anni22.

Accanto alla probation e ai lavori socialmente utili si è sviluppata una terza figura, la cosiddetta Supervision applicabile ai minori fra i dieci e diciotto anni; il ragazzo, che beneficia della misura, viene sottoposto alla diretta supervisione di un individuo, a cui viene conferito un potere di controllo sull’operato del soggetto e sulla ottemperanza delle prescrizioni stabilite. Questo servizio ha creato delle credibili alternative alla detenzione, attraverso lo sviluppo di programmi ben strutturati individuati sulla base delle circostanze concrete in cui il minore è coinvolto23.

Per ciò che concerne poi la mediazione fra vittima e autore del reato la Gran Bretagna vanta un notevole bagaglio di conoscenze, grazie alla pratica ormai ventennale nel settore della giustizia riparativa, e la rigorosa tipizzazione delle tecniche di conduzione di tale pratica sono d’esempio anche per l’esperienza italiana24.

 

 

CONCLUSIONI

Quando il disagio adolescenziale si trasforma in devianza, le istituzioni sono chiamate a confrontarsi con una duplice esigenza: la protezione della minore età attraverso l’adozione di misure non invasive, e la doverosità di una risposta adeguata all’atto criminale del ragazzo, in ossequio alle naturali istanze di ordine sociale. La difficoltà di assolvere una funzione così complessa è ulteriormente aggravata dal malessere in cui si dibatte da qualche tempo la giustizia minorile; la crisi in cui versa il settore è dovuta principalmente, per opinione diffusa, alla struttura arcaica e stratificata della normativa sostanziale di riferimento, bisognosa di urgenti interventi riformatori. [vedi, per tutti, L. Pepino, Regole e paradossi del processo penale minorile, in Questione giustizia, n. 1/1986, pag. 400 e ss. ]

In attesa che il legislatore prenda in seria considerazione l’opportunità di metter mano ai testi legislativi, il “ minorile ” ha faticosamente sviluppato un’analisi critica dei propri limiti e delle proprie contraddizioni, inaugurando un cammino di rilievo verso una profonda trasformazione dei meccanismi che lo governano.

Il leit motiv, che ha scandito la ricerca di nuovi orizzonti nel campo del trattamento della delinquenza minorile, può essere condensato in una sola parola: responsabilizzazione. Il minore che si rende protagonista di un atto penalmente illecito, nella maggior parte dei casi non mostra di rendersi conto del significato del gesto e delle dirette conseguenze; inoltre l’iter formale a cui è eventualmente sottoposto non costituisce certo l’occasione per acquisire consapevolezza e sviluppare i presupposti di un impegno morale al rispetto della legge. [ vedi, P. Gaeta, Il processo penale minorile: condanna o messa alla prova?, in Questione giustizia, n. 1/1993, pag. 46 ]

Per questo motivo, c’è stato un rinnovato interesse verso le esperienze europee, dalle quali è stata mutuata, per quanto qui interessa, la tecnica innovativa della mediazione, espressione di una giustizia più attenta alle esigenze educative del minore deviante, ma che finalmente rivaluta la figura della vittima, grande assente dalla scena processuale.

La ricerca condotta presso alcuni centri di mediazione, attualmente operativi nel settore della giustizia minorile, ha permesso di constatare in maniera più diretta i problemi che i percorsi conciliativi fra autore e vittima del reato comportano a livello organizzativo e soprattutto normativo.

Gli ostacoli per applicare in via definitiva la tecnica mediativa sono ancora molti e, forse, il più significativo è rappresentato in Italia dalla difficoltà di diffusione della cultura della mediazione, al di là della stretta cerchia degli addetti ai lavori dell’area penale. Le nuove tendenze, volte a privilegiare l’aspetto riparatorio, non riscuotono in generale molto successo, perché è ancora troppo forte la convinzione che la pena detentiva sia l’unica valida risposta agli episodi di criminalità.

 La sperimentazione fino a questo momento è stata condotta con un criterio selettivo; si è preferito focalizzare l’attenzione su alcuni contesti, ritenuti più corrispondenti alle “ esigenze ” della mediazione, rispetto ad altri abbandonati, a quanto è dato sapere, prima ancora di aver sviluppato una prassi sufficientemente ampia, in grado di stabilire, con il conforto del dato empirico, la loro inidoneità ad un utilizzo in funzione di strumenti propulsivi di percorsi conciliativi.

Inoltre le esperienze condotte hanno rilevato alcuni aspetti di incompatibilità fra la figura della mediazione e il nostro sistema di giustizia minorile; i tentativi collocati in fase di esercizio dell’azione penale trovano un’evidente ostacolo nel principio di obbligatorietà che la contraddistingue. Ciononostante i dati concreti sembrano deporre a favore di un ricorso al linguaggio mediativo in un intervallo di tempo preferibilmente vicino al fatto di reato, in nome della comune volontà di offrire una tempestiva risposta al comportamento illecito del minore. Questo tentativo è apprezzabile, ma resta sempre il fatto che il pubblico ministero non può astenersi dal perseguire quei fatti per i quali si prospetta un utile attività di mediazione, in quanto è la legge che lo obbliga in tal senso.

La ricerca empirica ha invece abbandonato il settore dell’esecuzione, ritenendolo poco adeguato a sviluppare tentativi di riconciliazione vittima – autore. Probabilmente una tale scelta è stata determinata dalla considerazione che la funzione principale della mediazione dovrebbe essere quella di risolvere il conflitto, evitando al minore di transitare per i cancelli del sistema penale.

Tuttavia queste obiezioni possono essere valide fino ad un certo punto, perché la mediazione è una figura poliedrica, capace di estendere il suo potenziale durante tutto l’arco del procedimento penale, compresa la sede esecutiva, nella quale possono sussistere delle buone chances di sfruttamento dei suoi aspetti principali. Non dobbiamo dimenticare poi che nella mediazione è fondamentale il percorso di riconoscimento “ dell’altro ” e, non sempre le vicende originate dal fatto – reato sono risolvibili nel breve periodo. In determinati casi occorre un tempo maggiore, perché reo e vittima riescano a superare le proprie posizioni ed esprimere il loro pieno consenso ad un momento di incontro e di spiegazione.

La mediazione è prima di tutto la ricerca della comunicazione, e in una società ormai multietnica può essere utile come strumento di confronto fra le varie culture di appartenenza: a livello giudiziario, anche nell’esecuzione della pena, avrebbe l’obiettivo di promuovere nel minore colpevole la conoscenza della “ sua vittima ”, apprezzarne l’identità, e allo stesso tempo guadagnare un atteggiamento critico nei confronti del proprio io.

La mediazione applicata, ad esempio, alle prescrizioni previste per le sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata, potrebbe arricchirle di nuovi contenuti, più intensi e sicuramente più responsabilizzanti di quelli attuali.

Il periodo di avvicinamento e di familiarizzazione ha il pregio di mettere in evidenza su quali punti è necessario intervenire per garantire in modo chiaro lo sviluppo adeguato di questo tipo di intervento, che non deve essere ristretto e limitato, ma deve offrire spazi e tipologie differenziate di applicazione. Perciò la circostanza che nella prassi esecutiva, anche in presenza di premesse favorevoli, sia improbabile rintracciare episodi di applicazione di percorsi conciliativi lascia alquanto perplessi.

Da una parte quindi è forte l’esigenza di affidare alla mediazione e, alla giustizia riparativa il compito di rivalutare l’intero sistema di giustizia minorile, amplificando l’operatività delle misure già esistenti, ma dall’altra è evidente che un tal proposito richiede interventi legislativi mirati e precisi investimenti destinati ad indirizzare le professionalità verso una cultura della ricostruzione della relazione interrotta dal fatto illecito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA

 

 

 

 

 

 

Tesi di Laurea

LA MEDIAZIONE NELL’ESECUZIONE

PENALE MINORILE:

TEORIA E PRASSI

 

 

 

APPENDICE

 

 

 

 

 

 

 

Anno Accademico 2000/2001

 

(abstract)

 

La valutazione dell’esperienza della Sezione di Mediazione Penale Minorile di Roma.

(Laura Volpini - Cattedra di Psicologia Giuridica Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Membro dell’équipe della Sezione di Mediazione )

 

 

 

In questo contributo vengono presentate alcune riflessioni relative ai dati significativi emersi dall’analisi del percorso di mediazione penale minorile della Sezione di Roma nel periodo 1997-1999.

Attraverso una ridefinizione del concetto di verifica, per ciò che concerne questo campo applicativo, si rifletterà tra gli altri sugli effetti dell’intervento di mediazione a partire dalla riduzione della conflittualità fra le parti.

Verranno quindi esposti dei dati relativi alla qualità del rapporto degli utenti con gli operatori della sezione di mediazione, il processo penale minorile e il percorso di mediazione dal punto di vista comunicativo relazionale e dei risultati prodotti.

 

 


 

 

La valutazione dell’esperienza della Sezione di Mediazione Penale Minorile di Roma.

(Laura Volpini - Cattedra di Psicologia Giuridica Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Membro dell’équipe della Sezione di Mediazione)

  in (AA.VV) "Cultura e Pratica della Mediazione, (2001) Istituto Carlo Amore, Roma

 

Generalmente la valutazione della mediazione (Umbreit 1994, Umbreit, Warner, Roberts 1996) si basa sui criteri del consenso/rifiuto di soddisfazione/ insoddisfazione rispetto a gruppi sperimentali e di controllo intervistati a breve e medio termine con questionario a risposte chiuse.

Nel nostro caso abbiamo ampliato alcuni criteri di verifica del percorso di mediazione, per adattarli alla nostra impostazione teorico-metodologica di tipo strategico-interazionista (Ciacci, 1983; De Leo,1991; Patrizi,1998) e alla fase di sperimentazione che andavamo verificando. Durante la sperimentazione infatti, abbiamo incontrato una serie di difficoltà legate a una nuova concezione della giustizia e del suo intervento che risultava sconosciuta o poco familiare agli utenti, e che inoltre non era di facile coordinazione con i tempi, gli spazi e le prassi operative del sistema giudiziario minorile attuale.

 Il nodo più rilevante che abbiamo riscontrato è stato il consenso alla mediazione da parte delle vittime di reato. Queste magari svolgevano con noi una fase piuttosto lunga di pre-mediazione, fatta di diversi incontri, ma poi per ragioni diverse non accettavano l’idea di incontrare direttamente o indirettamente l’autore di reato. Nonostante ciò, nei nostri follow-up informali durante i colloqui separati con entrambe le parti e in quelli svolti immediatamente dopo abbiamo osservato che anche se il percorso di mediazione in senso stretto non si era compiuto, il nostro lavoro sembrava avere inciso sul conflitto interpersonale e  su quello del microcontesto socio-familiare delle parti.

Riteniamo infatti che il percorso di mediazione, seguendo un funzionamento sistemico (Cirillo 1990), pur se interrotto, produce comunque dei cambiamenti nella direzione di una riduzione delle tensioni, attivando nuovi significati e nuove aperture rispetto al reato e al danno subito, nella direzione dell’attivazione di responsabilità consapevoli e reciproche e nel senso dell’empowerment (De Leo, 1996;Bruscaglioni, 1994).

La Sezione di Mediazione Penale Minorile di Roma ( Scardaccione G., Baldry, A. C., Scali M., 1998;  Baldry, Scali, Volpini, 1998; Scali, Volpini 1999a, 1999b,) ha svolto quindi una verifica della sua sperimentazione relativa al periodo 97-99 includendo il criterio della comunicazione tra utenti, sistema mediazione e sistema della giustizia; e quello degli effetti del percorso di mediazione.

Attualmente la nostra attività è in una fase di riprogettazione assieme all’USSM, al Comune e al Tribunale per i Minorenni di Roma per l’avvio di una fase di intervento vero e proprio. Anche in funzione di questo, e’ stata condotta una valutazione dei risultati ottenuti fino ad oggi.

Nel presente contributo in particolare verranno brevemente messi in evidenza e commentati alcuni principali criteri utilizzati e alcuni risultati di  ricerca. Innanzi tutto sono stati analizzati 20 fascicoli dei casi inviati alla sezione contenenti una scheda informativa di alcuni dati anamnestici del minore e della vittima, di informazioni relative all'invio del caso, al lavoro di équipe e all'intervento con gli utenti.

I fascicoli sono stati analizzati attraverso l'analisi del contenuto con l'analisi delle frequenze percentuali e con un commento descrittivo.

Dei 20 fascicoli aperti, abbiamo lavorato direttamente su 15 casi, mentre abbiamo fatto consulenza al servizio in 2 casi e in tre situazioni è avvenuta soltanto la presentazione da parte dell' USSM perché successivamente non è stato possibile procedere per irreperibilità delle vittime.

Le vittime inviate sono17 e 20  sono gli  autori di reato. Delle prime il 23,5% (4) sono straniere e dei secondi il 30% (6) degli autori sono stranieri.

La scelta di lavorare con soggetti stranieri è dovuta principalmente al fatto di tentare di offrire un'opportunità a questa tipologia di utenza che non sempre usufruisce delle risorse innovative e promozionali del processo penale minorile (D.P.R. 448/’88).

In questa sperimentazione abbiamo inoltre scelto di lavorare anche con soggetti  recidivi che sono il 35% (7) del totale. La maggioranza delle vittime il 58,8% (10) non ha denunciato e/o subito reati in precedenza.

Autore e vittima si conoscevano nel 37,5% (6) dei casi, ed erano sconosciuti nel 18,75% (3), mentre risultano marginali i reati all'interno dello stesso gruppo dei pari o con rapporto di parentela 13,5% (2). Per quanto riguarda la tipologia di reato la maggior parte dei casi  sono lesioni gravi  nel 37,5% dei casi (6), mentre i furti sono il 18,75% (3). I tipi di provvedimento all'interno del quale abbiamo prevalentemente lavorato sono stati l'art. 28 d.p.r. 488/1988, art.30 d.p.r. 488/1988, art.47 L. Ord. Penit. Il momento processuale in cui è avvenuto l'invio è in prevalenza in funzione del rinvio a giudizio, il 53,3% (8) mentre il 40% (6) è stato inviato in fase di esecuzione della pena.

I criteri utilizzati per la  griglia di analisi dei fascicoli comprendono 1) la qualità del rapporto instaurata tra utenti ed operatori della sezione, 2) la qualità del rapporto instaurata con i servizi della giustizia, 3) la percezione del percorso di mediazione,  4) l’elaborazione del reato 5) i risultati ottenuti

1) Questo livello è stato ulteriormente scomposto in :

 

analisi della domanda dell’utenza:

 

a)      sostegno psicologico

b)      ascolto

c)      riflessione sul senso e il significato della mediazione

d)      i mediatori come “ intermediari ” con il sistema di giustizia

relazioni instaurate con i mediatori :

a)      senso di accoglienza degli operatori verso gli utenti

b)      chiarezza e soddisfazione per le informazioni ricevute

c)      emozioni legate al rapporto con gli operatori per il lavoro svolto

Le aspettative nei confronti degli operatori dell’équipe non sono mai espresse in modo esplicito e chiaro, ma emergono implicitamente nella domanda degli utenti.

Uno spazio in cui parlare è ritenuto rilevante, in particolare da parte delle vittime e le loro famiglie.

Alcuni familiari degli autori di reato ritengono invece utile un ascolto del figlio che gli permetta di non irrigidirsi rispetto ai fatti commessi.

Nella domanda degli utenti emerge l’esigenza di essere informati e di riflettere sul senso della mediazione rispetto alla possibilità di incontrare per esempio l’autore di reato per avere spiegazioni sul reato subito. Nel caso degli autori di reato questo tipo di riflessione permette di approfondire la loro disponibilità e motivazione per questo intervento.

Un altro ruolo importante attribuito ai mediatori è quello di potere essere dei referenti che pongono domande all’altra parte, o che sondano la disponibilità dell’altro ad un incontro di mediazione.

Gli aspetti relazionali che le vittime hanno colto degli operatori sono di disponibilità all’ascolto, espressa in tre casi esplicitamente, e negli altri casi rilevabile dal bisogno manifestato dalle vittime di parlare dell’accaduto.

Molto apprezzata è stata la chiarezza espressa rispetto al “contratto” di percorso, anche se non sempre condiviso dalle parti.

 I vissuti riguardanti il rapporto con i mediatori sono per lo più impliciti. In tre casi gli utenti hanno riferito di essere stati sostenuti per affrontare più serenamente il processo, oppure di avere recuperato uno stile di vita nuovamente “normale” . In un altro caso, viene espresso il dispiacere per la conclusione del rapporto con le mediatrici.

2) Il rapporto degli utenti con il Tribunale per i Minorenni e con l'Ufficio di Servizio Sociale della Giustizia minorile è stato scomposto:

Per la vittima:

- vissuti legati al momento processuale

- richiesta di assistenza alle udienze

- garanzia di risposte adeguate al reato subito

 -valutazione positiva e negativa nei confronti del processo penale minorile

Per l'autore di reato:

- vissuti legati al processo

 -sicurezza della risposta giudiziaria

Le vittime esprimono in larga maggioranza una forte domanda di giustizia, con aspettattive rispetto al processo minorile, anche se c’è la consapevolezza di un minor peso della vittima rispetto all’autore di reato nel sistema minorile.

Quasi tutte le vittime sono piuttosto sfiduciate verso il processo minorile soprattutto rispetto alla risposta giudiziaria. Il momento dell’udienza risulta particolarmente delicato per questi soggetti perché è in questo momento processuale che sentono di non essere né sostenute né ascoltate rispetto al danni subiti.

Gli autori di reato, in particolare se di origine straniera, temono la sanzione e ne hanno paura, anche per il dispiacere (in un caso) di lasciare i propri familiari.

Nei gravi reati come omicidio o lesioni gravi, il minore si affida alla giustizia per avere una risposta certa rispetto ai fatti commessi. In questi casi, almeno due i minori hanno rifiutato la messa alla prova a favore di una risposta che fosse più accettabile per la  vittima e il suo senso di giustizia.

3) Il rapporto degli utenti (vittima e autore di reato) con la mediazione è stato analizzato dal punto di vista della mediazione come strumento per avere dei vantaggi :

Per la vittima

-         essere maggiormente informati sul processo minorile ed assumervi un ruolo attivo 

-         ottenere risposte alle proprie domande legate al reato

-         ristabilire una comunicazione anche indiretta con il reo

-         avere un senso di garanzia e legittimazione maggiore

Per l'autore di reato

-         favorire la buona riuscita del processo e dell'intervento penale

-         responsabilizzare l'autore di reato rispetto all'azione commessa

Le vittime generalmente non hanno una percezione differenziata e immediatamente consapevole dei vantaggi che può produrre il percorso di mediazione. La maggior parte di loro considera in particolare i vantaggi rispetto al processo minorile, piuttosto  che rispetto al reo.

Gli autori di reato, non hanno espresso particolare utilità della mediazione sul piano della legittimazione o del senso di giustizia, mentre erano molto interessati alla possibilità di riconciliazione con la vittima di reato, in particolare nei casi di gravi reati dove è più forte il bisogno di scusarsi per il danno causato.

4a) L'elaborazione dell'azione reato da parte della vittima:

a)      Vissuti

b)      Riconoscimento di un proprio ruolo attivo nella dinamica del reato

c)      Cambiamento del proprio stile di vita dopo il reato

d)      Coinvolgimento della famiglia e della comunità a seguito del reato

e)      Cambiamento del proprio stile di vita

f)        Capacità di riflessione sul reato

g)      Richiesta di riparazione e risarcimento

Spesso sono le famiglie, in particolare le madri delle vittime a farsi portavoce dei vissuti relativi al danno subito dai figli. Le emozioni prevalenti sono la rabbia e il dolore, che in almeno tre casi, permangono per molto tempo. Il vissuto di chiusura è presente per i fatti sentiti come gravi, anche se non sono tali da un punto di vista del codice penale.

Nella nostra esperienza, in nessun caso le vittime si rendono disponibili ad una riattivazione della comunicazione con i minori autori di reato, almeno esplicitamente. In  particolare sono curiose e bisognose di avere delle spiegazioni in merito ai fatti da parte di chi li ha commessi direttamente, anche se non sono stati tali da richiedere un incontro di mediazione diretta.

La capacità di riflettere sul reato viene osservato direttamente dalle vittime, che si rendono conto di avere raggiunto un maggior senso di sicurezza e di non avere più paura del reo.

4b) L'elaborazione dell'azione reato da parte dell'autore.

a)      vissuti legati al reato

b)      coinvolgimento della famiglia e della comunità dopo il reato

c)      consapevolezza del danno

d)      desiderio/rifiuto di svolgere attività riparatorie nei confronti della vittima

e)      maggiore capacità di riflessione del reato commesso

Il reato e le sue conseguenze produce vissuti diversi che variano anche a seconda della tipologia dei fatti commessi.

Il coinvolgimento dei sistemi significativi di riferimento del minore, comporta una sorta di gruppo di auto aiuto (Madanes,1997) nel senso dell’apertura e dell’elaborazione dei fatti.

A differenza di quanto evidenziato per le vittime, gli imputati, si aspettano di incontrarle anche se ciascuno con motivazioni diverse. In un caso un reo considera l’incontro diretto come un momento per esporre le proprie ragioni. In altri casi incontrare la vittima significa avere la possibilità di spiegarsi e scusarsi per l’accaduto.

4) Il livello dei risultati della mediazione è stato scomposto in:

a)      consenso alla mediazione

b)      nodi critici del percorso di mediazione

c)      effetti della mediazione

Il consenso alla mediazione è stato dato da la maggioranza dei rei e da una parte esigua della vittime su cui si è lavorato in termini di mediazione indiretta.

La fase di pre-mediazione ha riscontrato dei livelli critici che in molti casi ha portato ad interrompere il lavoro di mediazione.

I nodi critici principali hanno riguardato nel 23,6% (4)la non disponibilità della vittima alla mediazione, la gravità del reato nel 17, 6% (3), la presenza di un procedimento amministrativo di risarcimento da parte della vittima, parallelo al lavoro di mediazione 11,8% (2).

In fase di pre-mediazione abbiamo riscontrato una articolata tipologia di effetti: effetti sulla relazione tra le parti 20% (3), effetti sulla dinamica processuale 13,3% (2), effetti sull'autore del reato 40,0% (6), effetti sulla vittima nel 13,3% (2) dei casi, ed effetti sulla dinamica inter e intrafamiliare nel 14,4% (2). Tutti gli effetti vanno nella direzione di una riduzione della conflittualità fra le parti direttamente coinvolte e fra i sistemi allargati di cui fanno parte. Nel caso di  due autori di reato stranieri, gli effetti della mediazione hanno avuto  un effetto anche all’interno della propria famiglia, si è potuto così parlare del reato e considerare i “danni” indiretti che hanno coinvolto le relazioni sociali delle famiglie di quei minori

Per concludere, ci sembra utile sottolineare che la mediazione è un percorso complesso che include dei vantaggi e produce degli effetti non solo per coloro che concludono il percorso attraverso un incontro diretto, ma anche per coloro, che per differenti ragioni e complesse ragioni che non sono oggetto di questo contributo (De Leo, 1998), non si sentono di intraprendere quest’ultima fase di lavoro.

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1 Cfr. A. Castejon, Protezione e devianza minorile. Controllo sociale e socializzazione,Torino, 1990, pag. 434

2 Cfr A. C. Moro, Manuale di diritto minorile, Bologna, 1996, pp. 356-357

3 Cfr. A.C. Moro, cit., pag. 359

4 Cfr. G. De Leo, L’interazione deviante, Milano, 1981, pp. 3-9

5 Cfr. N. Giordani, L’abuso del concetto di personalità nella devianza minorile: la << messa alla prova >> quale occasione da non sprecare, in Rass. it. Crim,, 1999, nn. 3-4, pp. 453 e ss.

6 Così si è espresso il prof.re A. Salvini, emerito docente di Psicologia della personalità e delle differenze individuali presso l’Università di Padova, in N. Giordani,cit., pag. 455

7 Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, Trattare con adolescenti devianti, Roma, 1999, pp. 21-22

8 Cfr. N. Giordani, cit., pag. 455

  Cfr. G. De Leo, cit., pag. 9

9 Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, cit., pp. 27-32

10 Cfr. G. De Leo, cit., pag. 9

11 Cfr. N. Giordani, cit., pag. 456

12 Cfr. N. Giordani, cit., pag. 458

13 Cfr. A. Longo, S. Cappuccio, D. Mollica, Dai muschilli ai baby killer. Indagine sulla criminalità minorile, a cura di Eurispes con il contributo dell’Ufficio centrale per la giustizia minorile e il Ministero di Grazia e Giustizia, Roma, 1988

14 Cfr. G. De Strobel, Analisi critica della statistica giudiziaria e criminale in tema di giustizia minorile dal 1947 ad oggi, in AA.VV., Potere giudiziario, enti locali e giustizia minorile, a cura di L. Bergonzini, M. Pavarini, Bologna, 1985, pp. 235 e ss.

15 Cfr. G. De Strobel, Analisi critica della statistica giudiziaria…,cit., pp. 237 e ss.

16 Cfr. G. De Leo, La devianza minorile. Metodi tradizionale e nuovi modelli di trattamento, Roma, 1990, pag. 119

17 Cfr. G. De Strobel, Analisi critica della statistica giudiziaria…..,cit., pag. 250

18 Cfr. A. C. Moro, Manuale di diritto minorile, cit., pp. 359 e ss.

19 Cfr. A. C. Moro, cit., M. Bouchard, Dal coprifuoco al carcere per adulti, in Questione giustizia, n. 4/1998, pag. 961, I. Merzagora Betsos, Ampiezza, andamento, tipologie della delinquenza minorile e giustizia riparativa, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale, a cura di L. Picotti, Padova, 1998, pag. 166, F. Occhiogrosso, Minorenni e criminalità in Italia, oggi, in Minori e giustizia n. 2/1994, pp. 92-97

20 Cfr. I. Merzagora Betsos, cit.

21 Cfr. A. C. Moro, cit.

22 Cfr. F. Occhiogrosso, Minorenni e criminalità in Italia, oggi, cit., pag. 90

23 Cfr. I. Merzagora Betsos, Ampiezza, andamento, tipologie.. …,cit., pp. 174 - 175

24 Cfr. I. Merzagora Betsos, Ampiezza, andamento , tipologie…..,cit., pag. 172

25 Cfr. I. Merzagora Betsos, Ampiezza, andamento, tipologie….., cit., pp. 175 - 176

26 Così M. Bouchard, Dal coprifuoco al carcere per adulti, cit., pag. 965

27 Cfr. F. Occhiogrosso, Scuola, bulli e ragazzi della mafia, in Minori e giustizia, n. 2/2000, pag. 9

28 Cfr. A. Castejon, Protezione e devianza minorile… , cit., pag. 434

29 Cfr. Relazione del procuratore generale. Allarme baby gang, in Notiziario speciale per la Presidenza del Consiglio, a cura di Settimana Legislativa, Anno IX, n. 3/2000, in www.minori.it

[1] Cfr M. Bouchard, Dove va la delinquenza dei giovani, dove va la giustizia minorile?, in Minori e giustizia, n. 4/1994, pag. 11

[2] Cfr. M. Bouchard, cit., pag. 10

[3] Cfr. S. Di Nuovo, G. Grasso, Diritto e procedura minorile. Profili giuridici, psicologici,sociali, Milano, 1999, pag. 31

[4] Cfr. S. Di Nuovo, G. Grasso, cit.

[5] Cfr. S. Di Nuovo, G. Grasso, cit., pag. 50

[6] Cfr. M. Dogliotti, A. Figone, F. Mazza Galanti, Codice dei minori, Torino, 1999, pag. 658

[7] Cfr. M. Dogliotti, A. Figone, F. Mazza Galanti, cit.

[8] Cfr S. Di Nuovo, G. Grasso, cit., pag. 51

[9] Cfr. S. Di Nuovo, G. Grasso, cit., pag. 53

[10] Cfr. M. Dogliotti, A. Figone, F. Mazza Galanti, cit.

[11] Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, Trattare con adolescenti devianti, cit. pag. 43

[12] Cfr. G. De Leo. P. Patrizi, cit., pag. 44

[13] Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, cit., pag. 45 e N. Nosengo, Il processo minorile, Conferenza del 4 aprile 2000, Facoltà di Giurisprudenza, Pisa

[14] Cfr. M. M. Correra, P. Martucci, Elementi di criminologia, Padova, 1999, pag. 77

[15] Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, cit.

[16] Cfr. N. Nosengo, cit.

[17] Cfr. M. Betti, M. Pavarini, La giustizia minorile e modello correzionale. Le ragioni profonde della crisi, in AA.VV, Potere giudiziario, enti locali, giustizia minorile, a cura di L. Bergonzini, M. Pavarini, Bologna, 1985, pag. 55

[18] Cfr M. Betti, M. Pavarini, cit., pag. 69

[19] Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, cit., pag. 48

[20] Cfr. M. Betti, M. Pavarini, cit., pag. 50

[21] Cfr. M. Betti, M. Pavarini, cit., pag. 72

[22] Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, cit., pag. 51

[23] Cfr. M. Pavarini, Il rito pedagogico, in Dei delitti e delle pene, n. 2/1991, pag.111

[24] Cfr. M. Pavarini, cit., pag. 113

[25] Cfr. G. Di Gennaro, M. Bonomo, R. Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative, Milano 1980, pag. 377 e G. La Greca, Commento art. 79, in AA.VV. Ordinamento penitenziario, Commentario, a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Padova, 2000, pag. 841

[26] Rubrica così modificata dall’art. 12 della Legge 12/01/1977 n. 1

[27] Cfr. D. Cibinel, Il sistema penale minorile, in DigDPen, XIII, Torino, 1997, pp. 340 e ss. e M. Dogliotti, A. Figone, F. Mazza Galanti, Codice dei minori, cit., pp. 558 e ss.

[28] Cfr. Corte Cost., sentenza 20 aprile 1978, n. 46, in Foro it., 1978, I, 1, pp. 1073-1074

[29] Cfr. Corte Cost., sentenza 21 luglio 1983, n. 222, in GCos, 1983, pag. 1319

[30] Cfr. R. Pinardi, Discrezionalità ed efficacia temporale delle dichiarazioni di incostituzionalità: la sentenza n. 125/1992 come decisione di <<incostituzionalità accertata, ma non dichiarata>>, Commento alla sentenza 25 marzo 1992, n.125, in GCos, 1992, pag. 1086

[31] Cfr. Corte Cost., sentenza 28 aprile 1994, n.168, in GCos, 1994, pag. 1254

[32] Cfr. D Cibinel, cit., pag. 345

[33] Cfr. Corte Cost., sentenza 22 aprile 1997, n. 109, in GCos., 1997, II, pag. 2019

[34] Cfr. Corte Cost., sentenza 10-17 dicembre 1997, n.403, in GD, in 1998 (2), pag. 73

[35] Cfr. Corte Cost., sentenza 30 dicembre 1998, n. 450, in GCos, 1998, III, pag. 3738

[36] Cfr. Corte Cost., sentenza 1 dicembre 1999, n. 436, in GCos, 1999, III, Pag. 3829

[37] Cfr. V. Ferraris, Ancora una supplenza della Corte Costituzionale a lacune normative della disciplina penitenziaria minorile, in LP, n. 1/2000, pp. 89 e ss.

[38] Cfr. D. Cibinel, cit.

[39] Le tesi sono state elaborate dal prof. dr. Frieder Dűnkel, docente di Criminologia all’Università Ernst-Moritz-Arndt, Greifswald, membro autorevole del comitato esecutivo dell’Aimjf. Cfr. F. Dünkel, Le tesi di Brema per un avanzamento della giustizia minorile, in Minori e giustizia, n. 4/1994, pp. 19 e ss.

[40] Cfr. Progetto di legge n. 7225, Disposizioni relative all’applicazione ai minori delle misure penali, Camera dei deputati, Luglio 2000, in www.giustizia.it

[41] Cfr F. Imposimato, Un impegno forte per una realtà difficile, in AA.VV. Le nuove criminalità, a cura di M. Cavallo, Milano, 1995, pag. 71

[42] Cfr L. Pepino, Linee generali di una riforma dell’ordinamento penitenziario per i minorenni, in AA.VV. I minori e il carcere, a cura di P. Pazè, Milano, 1989, pag. 169

[43]Cfr  E. Fassone, La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma penitenziaria, Bologna, 1980, pag. 265

[44] Cfr. S. Larizza, Profili sostanziali della sospensione del processo minorile nella prospettiva della mediazione penale, in AA.VV., La mediazione nel sistema penale, a cura di L. Picotti, Padova, 1998, pp. 98-99

[45] Vedi rispettivamente L. 663/1986 e la L. 689/1981

[46] Vedi artt. 98 co. 1 e 65 c.p.

[47] C. Scivoletto, Per i minori stranieri solo accoglienza in carcere, in Minori e giustizia, n. 1/2000, pp. 24-25

[48] Cfr. L. Pepino, op., cit., pp. 168-169

[49] Cfr. L. Pepino, op., cit.

[50] Cfr.S. Larizza, op., cit., pp. 99-100

[51] Corte Cost., sentenza 25 marzo 1992, n. 125, in GCos 1992, pag. 1073 e Corte Cost., sentenza 28 aprile 1994, n. 168, in GCos 1994, pag. 1254

[52] Cfr. Co. Cost., sent. 28 aprile 1994 cit.

[53] Cfr. S. Larizza, op., cit., pp. 104-105

[54] Cfr. S. Larizza, op., cit.

[55] Cfr. L. Pepino, op., cit.

[56] Cfr. D. Scatolero, Il carcere negato. Considerazioni sulla decarcerizzazione in ambito minorile, in I minori e il carcere, pag. 108

[57] Cfr. M.V. Randazzo, L’inserimento di minori nella criminalità mafiosa a Palermo, in AA.VV. Le nuove criminalità, pag. 57

[58] Negli istituti penali italiani e, prima ancora, nei centri di prima accoglienza entra un numero stabile di minori, ma la composizione di questo numero sta cambiando, poiché è sempre più alta la percentuale di minorenni stranieri. A conferma diretta di questo dato l’avvocato penalista, dott.sa Sibilla Santoni, patrocinante presso il Tribunale di Firenze ha evidenziato come attualmente, nel carcere minorile del capoluogo toscano gli italiani ivi detenuti raggiungano le 2 unità e in più non appartengano anagraficamente all’area della Toscana.

[59] Questi ragazzi spesso giungono in Italia soli e privi di mezzi si sostentamento attratti dal nostro benessere, per venire poi convogliati all’interno di organizzazioni malavitose e sfruttati come manovalanza a basso costo.

[60] Cfr. D. Scatolero, op.cit.,pag.116

[61] Cfr D. Scatolero, op., cit., pag. 112

[62] Cfr. M. Bouchard, Alcune riflessioni sulle linee di politica giudiziaria dell’Ufficio centrale per la giustizia minorile, in Dei delitti e delle pene, n. 2/1993, pag. 144

[63] Cfr. C. Losana, Risposte possibili al comportamento deviante, in AA.VV. P. Pazè, op.,cit., pag. 133

[64] Può sembrare quasi un paradosso ma, specialmente per quei minori inseriti in contesti famigliari ad alto rischio di criminalità, il più delle volte di tipo mafioso, diventa impossibile iniziare un percorso di ricostruzione di legami sociali autentici, se non si provvede ad allontanare il ragazzo dall’ambiente di provenienza.

[65] Cfr. D. Scatolero, op., cit.

[66] Cfr. M. Bouchard, Le nuove tendenze di diritto penale minorile, in Minori e giustizia, n. 1/1997, pag. 121

[67] Cfr. L. Pepino, op., cit., pag. 174

[68] Cfr. L. Pepino, op., cit., pag. 170

[69] <<Il termine “misura alternativa” è, in effetti, appropriato per il probation solo in larga approssimazione, perché esso consiste in una verifica circa la possibilità o meno di prescindere dalla pena detentiva, non in qualcosa di contrapposto alla stessa.>> Così L. Pepino, op., cit., pag. 183

[70] Cfr. L. Bresciani, Corso di diritto penitenziario. Anno Accademico 1999/2000, Pisa, maggio 2000

[71] Cfr. L. Pepino, op., cit.

[72] Solo per citarne qualcuno fra i tanti, M. Bouchard, M. Cavallo, L. Picotti, C. Scivoletto, S. Larizza

[73] Cfr. M. Bouchard, Vittime e colpevoli: c’è spazio per una giustizia riparatrice?, in Questione giustizia, n. 4/1995, pag. 889

[74] Cfr. S. Nasca, Le alternative alla detenzione tra crisi del Welfare State e dell’ideologia del trattamento, in Marginalità e società, n. 26/1994, pp. 96-98

[75] Cfr. S. Nasca, op., cit., pp. 100-101

[76] Si tratta della trentesima ed ultima delle c.d, Tesi di Brema, presentate al 14º Congresso Internazionale della AIMJF, vedi pag. 60

37 Cfr. G. Scardaccione, A. Baldry, M. Scali, Mediazione penale: ipotesi di intervento nella giustizia minorile, Milano, 1998, pag. 4

38 Cfr. G. Garena, Una riflessione sul modello riparativo  finalizzata allo sviluppo della comunità, in Minori e giustizia, n. 2/1999, pag. 51

39 Cfr. G. Scardaccione, A. Baldry, M. Scali, cit., pag. 2

40 Cfr. U. Gatti, M. I. Marugo, La vittima e la giustizia riparativa, Relazione presentata al X Congresso Nazionale della Società Italiana di Criminologia, La criminologia e la psichiatria forense di fronte alla vittima, Gargnano del Garda, 13-15 Maggio 1994

41 Cfr. U. Gatti, M. I. Marugo, La vittima e la giustizia riparativa, in AA.VV. Tutela della vittima e mediazione penale, a cura di G. Ponti, Milano, 1995, pag. 87

42 Cfr. U. Gatti, M. I. Marugo, La vittima e la giustizia riparativa, cit.

43 Cfr. U. Gatti, M. I. Marugo, La vittima e la giustizia riparativa, cit., pag. 88

44 In realtà il suggerimento in tal senso provenne da Margery Fry, emblematica figura della Howard League for Penal Reform, e contenuto nel suo celebre libro Arms of Law, e l’applicazione che ne seguì fu condotta a livello sperimentale.

45 Cfr. S. Ciappi, A. Coluccia, Giustizia criminale. Retribuzione, riabilitazione e riparazione: modelli e strategie di intervento a confronto, Milano, 1997, pag. 103

46 Cfr. S. Ciappi, A. Coluccia, Giustizia criminale…, cit. pag. 104

47 La vittimologia è tradizionalmente fatta risalire al 1948, quando viene pubblicato il primo saggio, ad opera di H. Von Hentig sui complessi rapporti che si creano fra le vittime di un atto criminale e il loro aggressore. Lo studio di allora è ancora impostato nella prospettiva del reato, nell’intento di chiarire il ruolo della vittima nella commissione del reato. Solo successivamente saranno oggetto di ricerca gli effetti del reato e i bisogni della vittima. Vedi U. Gatti, M. I. Marugo, Verso una maggior tutela dei diritti delle vittime: la giustizia ristorativa al vaglio della ricerca empirica, in Rass. It. Crim., n. 4/1992, pag. 487

48 Cfr. S. Ciappi, A. Coluccia, Giustizia criminale..., cit., pag. 105

49 Cfr. M. Bouchard, Vittime e colpevoli: c’è spazio per una giustizia riparatrice, cit., pag. 894

50 Cfr. G. Scardaccione, A. Baldry, M. Scali, Mediazione penale: ipotesi di intervento…, cit., pag. 8

51 Cfr. G. Scardaccione, A. Baldry, M. Scali, cit., pag. 7

52 Cfr. M. Pavarini, Decarcerizzazione e mediazione nel sistema penale minorile, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale, cit., pag. 10

53 Cfr C. Scivoletto, C’è tempo per punire, Milano, 1993, pp. 24-30

54 Art. 1754 del Codice Civile

55 Cfr. M. Bouchard, Mediazione: dalla repressione alla rielaborazione del conflitto, in Dei delitti e delle pene, n. 2/1992, pag. 191

56 Cfr. M. Bouchard, Mediazione: dalla repressione…, cit., pag. 192

57 Cfr. J.P. Bonafé-Schimitt, Una, tante mediazioni, in AA.VV La sfida della mediazione, a cura di G.V. Pisapia, Padova, 1997, pag. 24

58 Cfr. E. Esposito, Per una nuova cultura del conflitto tra giurisdizione, riconciliazione e riparazione: una lettura psico-sociale del Decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, in Diritto & Diritti -rivista giuridica on line, gennaio 2001, pag. 2

59 Cfr. M. Bouchard, Spunti di riflessione per un diritto penale mite, in Questione giustizia, n. 2/2001, pag. 207

60 Le tecniche di ristorative justice trovano posto anche in altri settori, per esempio in ambito civile dove costituiscono un valido strumento di salvaguardia dei diritti del minore, quale soggetto maggiormente colpito dagli effetti negativi della separazione o del divorzio dei genitori, spesso non consensuali. Vedi G. Pisapia, La scommessa della mediazione, in AA.VV La sfida della mediazione, cit., pag. 7

61 Cfr. S. Ciappi, A. Coluccia, Giustizia criminale…, cit. pag. 117

62 Cfr. M. Bouchard, Mediazione: dalla repressione…, cit., pag. 193

63 La definizione appartiene a Jean-Pierre Bonafé-Schimitt, ed è contenuta nel famoso testo La Médiation: une justice douce, pubblicato a Parigi nel 1992 e di cui è autore lo stesso Schimitt.

64 Cfr. M. Mattè, Una giustizia per parlarsi, in Il Regno, n.2/1998, pag. 46

65 Vedi Le tesi di Brema per un avanzamento della giustizia minorile (art. 30 ), cap. II

66 Cfr. A. Orsenigo, La mediazione come strumento dell’intervento sociale con gli adolescenti. Una riflessione critica su alcune dimensioni problematiche, in AA.VV La mediazione nel sistema penale, cit., pp. 259-260

67 Cfr F. Cantalupi, mediatrice penale del S.A.E.D. ( Servizio educativo adolescenti in difficoltà ), presso l’Ufficio di Mediazione penale, Milano

68 Cfr. A. Orsenigo La mediazione come strumento dell’intervento sociale, cit., pag. 260

69 Cfr, F. Cantalupi circa l’esperienza personale di mediatrice.

70 Cfr. F. Cantalupi, cit.

71 Si fa riferimento in particolare alla raccomandazione n. R (99)19 adottata dal comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 15 Settembre 1999. Tale documento ribadisce l’importanza dello sviluppo tra gli Stati membri dell’impiego della mediazione in ambito penale come opzione complementare o alternativa alle procedure penali anche in ottemperanza di obiettivi social preventivi.

72 L’Ufficio centrale per la Giustizia minorile è l’istituzione che ha il compito di organizzare e coordinare gli interventi esecutivi penali della giustizia minorile. E’ nato come organo operativo del ministero di Grazia e Giustizia con il compito di rendere effettivi alcuni istituti giuridici e alcune funzioni basilari del nuovo rito minorile del 1989. L’intenso lavoro svolto in molteplici direzioni, grazie alla distribuzione sul territorio nazionale di sezioni decentrate, ha incontrato la generale approvazione e nel 1992 l’Ufficio ha finalmente raggiunto la sospirata autonomia dagli altri settori del Ministero di Grazia e Giustizia, raddoppiando inoltre la propria dotazione organica.

Di recente l’Ufficio centrale (l’aggettivo centrale fa riferimento alla nuova veste di centro dotato di autonomia) ha predisposto un programma dal quale emerge chiaramente la sua funzione di generale protezione dell’infanzia e dell’adolescenza e di promozione dei diritti dei minori. Per un maggior approfondimento: M. Bouchard, Alcune riflessioni sulle linee di politica giudiziaria dell’Ufficio centrale per la giustizia minorile, in Dei delitti e delle pene, n.2/1993, pp.146-147

73 Cfr. L. Viggiani, E. Ciuffo, in AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive, a cura dell’Ufficio centrale per la giustizia minorile, cit., pp. 13-16

74 Cfr. L. Viggiani, E. Ciuffo, cit.

75 Si tratta delle circolari 14 dicembre 1995, prot. 44109 e 1 aprile 1996, prot. 40469 a cura del Ministero di Grazia e Giustizia, Ufficio centrale per la Giustizia minorile. Le due circolari hanno ad oggetto Ipotesi di sperimentazione di un servizio di mediazione giudiziaria penale e di riconciliazione della vittima ed autore del reato ( l’ultima corredata dal documento: Ipotesi di attuazione di programmi di mediazione nell’ambito del d.p.r. 488/1988 ). Cfr. L. Picotti, La mediazione nel sistema penale minorile: spunti per una sintesi, cit., pag. 311

76 Cfr. L. Viggiani, Mediazione penale fra esperienze e progetto, in AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile…, cit., pag. 59

77 Cfr. Documenti, in Minori e giustizia, n. 2/1999, pp. 163-185

78 Cfr. L. Viggiani, E. Ciuffo, cit., pag. 15

79 Si è svolto a Roma nei giorni 17 e 18 dicembre del 1998 un seminario di studio, nel corso del quale sono state confrontate le esperienze dei vari Uffici di Mediazione sorti sul territorio italiano.

80 In particolare margini seri di ambiguità esistono in merito alla questione cruciale se la mediazione debba essere centrata sui bisogni della vittima o sulle esigenze riabilitative del reo, oppure sulle funzioni primarie di giustizia. Per un maggior approfondimento del tema, U. Gatti, M. I. Marugo, La vittima e la giustizia riparativa, in AA.VV. Tutela della vittima e mediazione penale, cit. pag. 20

81 Cfr. L.  Picotti , La mediazione nel sistema penale minorile: spunti per una sintesi, in AA.VV. La mediazione…cit., pag. 295

82 Cfr. M. Bouchard, La mediazione: una terza via per la giustizia penale?, cit., pp. 775-776

83 Cfr. I. Merzagora Betsos, Ampiezza, andamento, tipologie della delinquenza minorile e giustizia riparativa, in AA.VV. La mediazione…, cit., pp. 165 e ss.

84 Cfr. M. Pavarini, Decarcerizzazione e mediazione nel sistema di giustizia penale minorile, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit., pp. 17-18

85 Cfr. F. Ruggeri, Obbligatorietà dell’azione penale e soluzioni alternative nel processo penale minorile, in AA.VV. La mediazione…, cit., pp. 192-194

86 Cfr. Commissione consultiva e di coordinamento per i rapporti con le regioni e gli enti locali, L’attività di mediazione nell’ambito della giustizia penale minorile. Linee di indirizzo, Roma, 1999, in www.giustizia.it studi e rapporti, pp. 7-8 e C. Mazzucato, L’esperienza dell’Ufficio di mediazione a Milano, in AA.VV., La mediazione penale in ambito minorile…., cit., pp. 150-151

87 Cfr. L. Viggiani, Mediazione penale fra esperienza e progetto, in AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile…, cit., pag. 58

88 Cfr. G. Scardaccione, A. Baldry, M. Scali, La mediazione penale. Ipotesi di intervento nella giustizia minorile, cit., pag. 6

89 Cfr. C. Scivoletto, C’è tempo per punire, cit.

90 Cfr. A. Ceretti, Progetto per un Ufficio di mediazione penale presso il Tribunale dei minorenni di Milano, in AA.VV. La sfida della mediazione, cit., pp. 96-98

91 Cfr. L. Viggiani, E. Ciuffo, in AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile…, cit., pag. 16

92 Cfr. Commissione nazionale e consultiva e di coordinamento per i…., L’attività di mediazione nell’ambito della giustizia minorile, cit., pag. 6

93 Cfr. A. C. De Vanna, L’Ufficio di mediazione civile e penale presso Procura e Tribunale per i minorenni di Bari, in AA.VV. Il progetto riparazione. Atti del percorso formativo, a cura del Centro di Giustizia minorile del Piemonte e della Valle d’Aosta, Torino, 2-3-4 Giugno 1998, pp. 18-30

94 Cfr. A. C. De Vanna, Il progetto di riparazione.Atti del percorso formativo, cit. pag. 26

95 Cfr. M. Scali, L. Volpini, Le principali caratteristiche dell’intervento della Sezione di mediazione penale minorile di Roma, in Minori e giustizia, n. 2/1999, pp. 156-159

96 Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, Mediazione e conciliazione con la vittima, in Trattare con adolescenti devianti, cit., pp. 161-163

97 Una differenza di questo tipo è stata rilevata per esempio, comparando l’attività di mediazione svolta dalla sezione di Milano con quella di Roma. La dott.sa Cantalupi  ha chiarito che in quel di Milano la prassi conosce un unico incontro diretto fra vittima e reo la cui durata può raggiungere anche le sette ore. L’unica eccezione a questa regola si data dal caso in cui ci siano più parti coinvolte nell’illecito.

98<< Spesso la vittima è molto restia a partecipare a simili iniziative; è ancora scossa da quanto si è verificato a suo danno e si rifiuta di incontrare il suo aggressore. Il mediatore allora cerca di convincerla nel suo stesso interesse a non perdere questa opportunità per riuscire ad ordinare quello che le è accaduto>>. Così si espressa Federica Cantalupi, mediatrice S.A.E.D. di Milano.

99 Cfr. Federica Cantalupi, S.A.E.D. di Milano

100 Cfr. Federica Cantalupi

101 La mediazione può comprendere anche un progetto di riparazione del danno, svolto dal reo in favore della vittima. L’accordo se riesce è opera dei protagonisti.

102 Cfr. Federica Cantalupi

103 Cfr. L. Volpini, M. Scali, Le principali caratteristiche dell’intervento della Sezione di mediazione penale minorile di Roma, cit., pag. 161

104 Cfr. F. Buniva, L’esperienza di mediazione penale nell’area torinese, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit., pag. 242

105 Cfr. M. Abrate, La mediazione nell’ambito penale minorile: il progetto., pag. 2 in www.minori.it

106  Cfr. M. Bouchard, Vittime e colpevoli: c’è spazio per una giustizia riparatrice?, cit., pag. 906

107 Cfr. E. Esposito, La mediazione penale minorile: aspetti, problemi e prospettive in una visione di tipo sistematico, cit., pag. 5

108 Cfr. L. Fadiga, intervento riportato in La mediazione penale minorile:applicazioni e prospettive, cit., pag. 232

109 Cfr. articolo 9 d.p.r. n. 488 del 1988

110 Cfr. M. Bouchard, Mediazione: diritto e processo penale, in AA.VV. La mediazione penale minorile: applicazioni e prospettive, cit., pag. 208

111 Cfr. M. Pavarini, Decarcerizzazione e mediazione nel sistema penale minorile, in AA.VV. La mediazione penale minorile, cit., pag. 16

112  Cfr. F. Ruggeri, Obbligatorietà dell’azione penale e soluzioni alternative nel processo penale minorile, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit., pp. 194-195

113  Cfr. M. Bouchard, Vittime e colpevoli: c’è spazio per una giustizia riparatrice?, cit. pag. 900

114 Cfr. L. Picotti, La mediazione nel sistema penale minorile: spunti per una sintesi, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit., pag. 298

115 Cfr. C. Mazzucato, La mediazione nel sistema penale minorile, in AA.VV. Minori, giustizia penale e intervento dei servizi, cit., pag. 145

116  Cfr. D. Scatolero, intervento orale nel dibattito sul tema della mediazione nel sistema penale minorile tenutosi a Bolzano il 31 gennaio e il 1 febbraio del 1997.

117 Cfr. C. Mazzucato, Ufficio per la mediazione di Milano, Giugno 2000

1 Cfr. i documenti dell’Ufficio centrale per la giustizia minorile del 10/11/95, 14/12/95, 1/04/96

2 Cfr. C. Scivoletto, C’è tempo per punire, cit., pag. 58

3 Cfr. R. Ricciotti, La giustizia penale minorile, Padova, 2001, pag. 57

4 Cfr. U. Gatti, A. Verde, Il sistema della giustizia minorile alla riconquista dei territori perduti: osservazioni sulla riforma della procedura penale minorile, in AA.VV. I minori e il carcere, cit., pag. 85

5 Cfr. F. Palomba, Commento all’art. 28, in Esperienze di giustizia minorile, nn. 1-4/1989, pag. 204

6 Cfr. L. Fadiga, intervento, in AA.VV. La  mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive, cit., pp. 231-232

7 Cfr. P. Patrizi, Potenzialità e rischi operativi del nuovo codice processuale minorile, in Nel segno del minore, a cura di L. De Cataldo Neuburger, Padova, 1990, pag. 134

8 Cfr. M. Bouchard, Mediazione: diritto e processo penale, in AA.VV. La mediazione penale minorile: applicazioni e prospettive, cit., pag. 210

8 Cfr. M. Bouchard, La mediazione: diritto e processo penale, in AA.VV. La mediazione penale minorile: applicazioni e prospettive, cit.

9 Cfr. F. Ruggeri, Obbligatorietà dell’azione penale e soluzioni alternative nel processo penale minorile, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit., pag. 197

10 Cfr. S. Santoni, L’esperienza della sospensione del processo e della messa alla prova nell’ambito del Tribunale per i minorenni di Firenze, in www.l’altrodiritto.it

11 Nel 1998 sono stati registrati complessivamente 1249 casi di messa alla prova; di questi solo in 403 casi il giudice ha impartito al ragazzo una o più prescrizioni. Le più frequenti riguardano attività di studio, volontariato, lavoro; frequentemente si chiede al ragazzo di aver contatti con il servizio sociale e di avvalersi del sostegno di uno psicologo, in alcuni casi è prescritta la permanenza in comunità. Il giudice ha impartito solo in 29 casi le prescrizioni di tipo riparativo – conciliativo: in particolare è stata prescritta la riconciliazione con la parte lesa in 23 casi e nei restanti 6 si è avuto il risarcimento simbolico del danno. Cfr. USSM di Milano, L’applicazione della messa alla prova: bilancio e prospettive, Milano, Giugno 2000

12 Cfr. A Mestitz, M. Colamussi, Messa alla prova e restorative justice, in Minori e giustizia, n. 2/2000, pp. 252-253

13 Cfr. A. C. Baldry, Conciliazione nell’ambito della giustizia penale minorile, in Critica penale I-II, 1997, pag. 77

14 Cfr. S. Larizza, Profili sostanziali della sospensione del processo minorile nella prospettiva della mediazione penale minorile, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit., pag. 113

15 Cfr. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 1996, pp. 295 e ss.

16 Cfr. I. Mastropasqua, I minori e la giustizia. Operatori e servizi dell’area penale, Napoli, 1997, pag. 62

17 Cfr. P. Martucci, La conciliazione con la vittima nel processo penale, in AA.VV Tutela della vittima e mediazione penale, cit., pag. 159-160

18 Cfr. R. Ricciotti, Gli strumenti della giustizia penale minorile, Padova, 1998, pag. 94

19 Cfr. M.M. Correra, P. Martucci, G. Scardaccione, L’applicazione dell’istituto della sospensione del giudizio con messa alla prova nell’attività giudiziaria dei Tribunali per i Minorenni di Roma e di Trieste, in Rivista di Polizia, n. 1/1992, pp. 523-524

20 Cfr. C. Mazzucato, L’esperienza dell’Ufficio di mediazione a Milano, in AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive, cit., pag. 151

21 Alcuni Tribunali di Sorveglianza stanno sperimentando, con riferimento a persone maggiorenni, la predisposizione di un progetto di riparazione da parte del reo richiedente l’affidamento in prova che, se valutato idoneo, viene inserito tra le prescrizioni della misura. Per un maggior approfondimento vedi L. Monteverde, Mediazione e riparazione dopo il giudizio: l’esperienza della magistratura di sorveglianza, in Minori e giustizia, n. 2/1999, pp. 88-89

22 Cfr. Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. R ( 99 ) 19, in materia di mediazione penale relativa al capo V, Attività dei servizi di formazione, punti n. 22, 23, 24, pp. 25-26

23 Cfr. Raccomandazione n. ( 99 ) 19, Commento all’appendice. Principi generali, punto n. 4, pag. 20 e F. Dűnkel, Le tesi di Brema per un avanzamento della giustizia minorile, in Minori e giustizia, cit., pag. 22

24 Cfr. M. Bouchard, Mediazione: diritto e processo penale, in AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive, cit., pag. 212

25 Cfr. S. Ciavattini, intervento, in AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive, cit., pp. 224 -225

26 Cfr. Colloquio con un Magistrato di Sorveglianza del Tribunale dei Minorenni di Milano

27 La minore è infatti scappata con la famiglia, temendo di dover ritornare in carcere e, in questo modo ha vanificato l’esito sicuramente favorevole della mediazione con lei condotta. La fonte di questo esempio è la dott.ssa Laura Volpini della sezione di mediazione di Roma.

28 La dott.ssa Stefania Ciavattini, vice – direttrice pedagogica del Carcere Beccaria di Milano, mi ha riferito che in quel di Milano i ragazzi rimangono in detenzione per un periodo massimo di 9 mesi, eccezion fatta per i casi più gravi. I progetti trattamentali da loro effettuati prevedono attività di tipo riparatorio, che possono consistere in attività di interesse sociale come la pulizia delle spiagge o dei litorali, oppure in attività che abbiano più in generale un contenuto istruttivo e risocializzante.

29 Cfr. dott. Adolfo Ceretti, professore di Criminologia presso l’Università di Milano.

1 Cfr. G. De Leo, G. Scardaccione, Esperienze di riconciliazione vittima – autore del reato ed ipotesi di applicabilità nel processo penale minorile, in Tutela della vittima e mediazione penale, cit., pag. 150

2 Cfr. M. Bouchard, Le nuove tendenze di diritto penale minorile, in Minori e giustizia, n. 1/1997, pp. 121-125

3 In Italia la giustizia minorile fa frequentemente ricorso all’impegno lavorativo del reo, soprattutto con riguardo all’istituto della Messa alla prova, o nel contesto delle misure sostitutive ed alternative alla detenzione. La natura di queste attività riveste, di volta in volta, le finalità più disparate ( affittiva, risocializzante, promozionale ) di modo che non è possibile nessun tipo di comparazione con i lavori di interesse generale dell’esperienza straniera.

4 Cfr. G. Scardaccione, A.C. Baldry, M. Scali, Mediazione penale. Ipotesi d’intervento nella giustizia minorile, cit., pag. 15

5 Cfr. al capitolo III, pag. 82

6 Cfr. C. Scivoletto, C’è tempo per punire, cit., pp. 26-30

7 La diversion è una procedura amministrativa di natura informale, orientata al recupero dell’autore del reato tramite un’attività di assistenza psicologica, medica o sociale che si pone come alternativa al processo. In sintesi è una misura di de-giurisdizionalizzazione. Per un maggior approfondimento vedi  S. Ciappi, A. Cosuccia, Giustizia criminale. Retribuzione, riabilitazione e riparazione…, cit., pp. 74-75

8 La ricerca che ha portato a formulare tali riflessioni si è svolta soprattutto in Canada. Vedi M.S. Umbreit, Victim – Offender Mediation with violent Offenders: implications for modification of the Vorp model, in Viano E., The Victimology Handbook, London, 1990, pag. 337

9 Cfr. S. Ciappi, S. Coluccia, cit., pag. 30

10 Cfr. U. Gatti, M. I. Marugo, La vittima e la giustizia riparativa, in Tutela della vittima e mediazione penale, cit., pp. 89-91

11 Cfr. C. Scivoletto, cit., pp. 65-67

12 Cfr. C. Kulyk, Le misure alternative alla detenzione dei minori in Francia, in Le nuove criminalità, cit. pp. 269-270

13  Cfr. C. Scivoletto, cit., pag. 59

14 Cfr. J. Biegel, Il Lavoro d’Interesse generale. La mediazione-riparazzione, in Il progetto di riparazione. Atti del percorso formativo, cit., pag. 51

15 Cfr. C. Kulyk, Le misure alternative alla detenzione dei minori in Francia, cit., pp. 276-277

16 Cfr. F. Dunkel, La mediazione in Germania, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit., pag. 117

17 Cfr. D. Vieten-Gross, Le misure alternative nel diritto penale minorile tedesco, in AA.VVLe nuove criminalità, cit., pag. 279

18 Cfr. F. Dunkel, La mediazione in Germania, cit., pag.135

19 Cfr. F. Dunkel, Le legislazioni sui minori in Europa: attuali tendenze di politica penale, cit., pag. 115

20 Cfr. B. T. Kaufmann, Esperienze di mediazione in ambito austriaco: suggerimenti, modelli, metodologie, strumenti, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit. pp.152-159

21 Cfr. P. Pepe, Il trattamento della delinquenza minorile in Inghilterra, in Rass. It. Crim., 1998, pag. 337

22 Cfr. J. Curran, La criminalità minorile e giovanile in Gran Bretagna, in AA.VV. Le nuove criminalità, cit., pp. 284-285

23 Cfr. P. Pepe, Il trattamento della delinquenza minorile in Inghilterra, cit., pag. 341

24 Cfr. M. Umbreit, A.W. Roberts, La mediazione penale : valutazione dei centri di Coventry e Leeds, in AA.VV. La sfida della mediazione, cit., pag. 66