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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI
PISA
Tesi di Laurea
PENALE MINORILE:
Alessandra
Giunchi
INDICE
Capitolo I: La devianza
minorile………………………….1
1.1 Devianza
e minore………………………………………………..1
1.2 Come si
diventa devianti…………………………………………2
1.3 La
criminalità minorile: notizie storiche………………………..10
1.4 Evoluzione
della delinquenza minorile nell’ultimo secolo di storia
italiana…………………………………………………………..13
1.5 Il “ male
minore ”……………………………………………….18
1.6 Riflessioni……………………………………………………….23
Capitolo II: Le convenzioni
internazionali e l’interpretazione della giurisprudenza costituzionale….26
2.1 Fonti
internazionali sulle pene previste per un minore…………27
2.2 La
giustizia penale dei minori fra presente e passato…………..34
2.3
L’ordinamento penitenziario minorile: la mancata attuazione
dell’art. 79………………………………………………………44
2.4 La
giurisprudenza costituzionale: gli interventi, le interpretazioni
e gli indirizzi……………………………………………………47
2.5 Qual
è il futuro della giustizia minorile?……………………….51
Capitolo III: I principi di
giustizia riparativa: i nuovi scenari della giustizia penale
minorile…………………..55
3.1
Sistema sanzionatorio minorile: è tempo di riforme……………55
3.2 Le
misure alternative alla detenzione minorile…………………64
3.3 La giustizia riparativa e la mediazione come
nuovi modelli in ambito minorile……………………………………………...71
3.3.1 La giustizia riparativa:
origini e sviluppi…………………….71
3.3.2 La
mediazione………………………………………………...80
3.3.3 Potenzialità della mediazione – riparazione nel recupero degli
adolescenti devianti ………………………………………….85
3.4 Aspetti, problematiche e prospettive della
mediazione penale minorile nell’esperienza italiana……………………………….89
3.5 Le
fasi della mediazione………………………………………..100
3.6 Il
mediatore: un terzo uomo……………………………………109
3.7 La mediazione giudiziaria nel processo penale
minorile: spazi normativi……………………………………………………...112
Capitolo V: La mediazione
nella fase dell’esecuzione..119
4.1 L’esperienza conciliativa nella sospensione del
processo e messa alla prova……………………………………………………...120
4.2
Sanzioni sostitutive e giustizia riparativa………………………128
4.3 Percorsi di mediazione nell’affidamento in prova
al servizio sociale…………………………………………………………130
Capitolo VI: Cenni alle
esperienze straniere…………..140
5.1 Gli
Stati Uniti e il Canada……………………………………...146
5.2 La
Francia………………………………………………………150
5.3 La
Germania e l’Austria………………………………………..153
5.4
L’Inghilterra……………………………………………………156
Conclusioni………………………………………………158
Bibliografia………………………………………………164
Appendice………………………………………………..177
CAPITOLO I
La devianza minorile
1.1 Devianza e minore
Il
termine devianza proviene dal tardo latino deflexere ( deflectere
) cioè deviare e vuol dire allontanarsi dal giusto, dalla norma, costituisce
ciò che i Romani chiamavano assenza del criterium, ovvero mancanza di
giudizio, di assennatezza e di buon senso1.
Nel
linguaggio comune la devianza indica la difficoltà se non l’impossibilità che
incontra l’individuo nell’adattarsi alle norme etiche e comportamentali
dell’ambiente nel quale vive, o a quelle del gruppo dominante; tale incapacità
di uniformazione a dette norme comporta come conseguenza l’emarginazione del
soggetto stesso da parte dell’ambiente o del gruppo.
Dal punto
di vista sociologico, invece, la devianza è caratterizzata da comportamenti e
da atteggiamenti, che si allontanano dalle norme socialmente prescritte o che
non appaiono conformi alle aspettative sociali.
Il
termine “ devianza ” è stato utilizzato per la prima volta negli Stati Uniti
durante gli anni ’30 con il preciso intento di raggruppare in un unico concetto
una serie di problemi legati al sociale; successivamente introdotto in Italia
negli anni ’60, sostituisce classificazioni fortemente negative come quella di
pazzia o di criminalità2. In
realtà il crimine costituisce solo una specie della più vasta categoria della
devianza, suscettibile di comprendere al suo interno ogni tipo di fenomeno
sociale contrastante con quelle norme, penali e non, adottate da una comunità
per regolare il proprio sviluppo e perseguire le comuni finalità.
Negli
anni ’70 questo diffuso orientamento ha tuttavia portato ad una interpretazione
non corretta di situazioni molto diverse, non sempre indicative di una radicale
contrapposizione a fondamentali valori sociali e, in modo particolare, non
suscettibili di censure oltremodo rigide e fuorvianti. Così la mera diversità,
la appartenenza ad una classe sociale marginale e squalificata, la protesta
giovanile, il vagabondaggio, la tossicodipendenza, la prostituzione e
l’alcoolismo sono state semplicisticamente unificate secondo il criterio di
distanza dalla norma.
Soprattutto
nel settore minorile si riscontra un “ uso qualificato ” della nozione di
devianza, grazie al quale è stato possibile individuare le difficoltà inerenti
ai processi di crescita e socializzazione del soggetto, sovente manifestatesi
in modi di vita caratterizzati da posizioni autodistruttive, piuttosto che in
comportamenti propriamente riconducibili all’area del penalmente rilevante.
Gli
adolescenti di oggi, forse ancora di più dei loro coetanei del secolo appena
concluso, caratterizzato da due conflitti mondiali e dai disagi conseguenti,
vivono di frequente situazioni di disadattamento e di disagio frutto
dell’enorme difficoltà incontrate nel relazionarsi con gli altri, nell’identificarsi
in una società come quella attuale, foriera di dubbi e di contraddizioni.
Disagio e
disadattamento non si estrinsecano certo nella violazione di norme fondamentali
del vivere civile, ma possono rappresentare i primi passi di un percorso, che sfocia,
se non modificato, nella devianza e nell’antisocialità3.
1.2 Come si diventa devianti
La
devianza e, in particolar modo, quella minorile è da tempo al centro di studi e
ricerche di diversi settori delle scienze moderne, prima fra tutte la criminologia
che tenta, avvalendosi del modello scientifico positivista consolidatosi verso
la fine del 1800, di rintracciare le chiavi di lettura di tale fenomeno
complesso e di non sempre facile interpretazione.
Il
modello positivista sembra tuttavia aver perso la sua capacità persuasiva,
perché si stanno sviluppando e diffondendo in ambito scientifico significative
elaborazioni teoriche, in grado di fornire nuove possibilità di svolta nella
ricerca di soluzioni al problema della delinquenza giovanile, e non
riconducibili alla tradizionale impostazione delle tesi positive, inattuale e
spesso fuorviante4.
Infatti,
in ambito penale, uno dei capisaldi della scuola positiva è individuato nella
personalità dell’autore del reato, centrale nella logica di intervento
giudiziario, e ciò ha contribuito ad avvalorare una sorta di identificazione
fra comportamento deviante e personalità deviante; invece fra le due categorie
non esiste alcun tipo di automatismo, anzi è riduttiva e deresponsabilizzante
la tesi che imputa la devianza e la delinquenza adolescenziale a disturbi della
personalità.
E’
riduttiva, perché la personalità è frutto di un processo continuo di
costruzione, maturato attraverso l’esperienza sociale e non può essere il mero
prodotto del semplice combinarsi di fattori genetici; è invece
deresponsabilizzante, perché interpretando la devianza come predisposizione
ereditata in base al codice genetico, risulta illogico attribuire al soggetto
la colpa del suo stato al quale non può opporre resistenza5.
Questo
particolare tipo di impostazione legata al modello medico, secondo il quale ad
un sintomo corrisponde una causa sottostante, è ancora viva e prevalente nella
cultura della nostra società, nonostante il suo abbandono da parte di illustri
esponenti del mondo scientifico.
Qualcuno
ha più volte ricordato che da almeno vent’anni i ricercatori si sono arresi
all’evidenza che la personalità non spiega in via prioritaria il comportamento,
e questo perché la devianza o le trasgressioni attuate dall’adolescente sono
contro un ordine morale e non contro un ordine biologico6.
Chi
afferma il contrario è purtroppo vittima di una persistente confusione tra causa
e colpa, in quanto quest’ultima rappresenta un giudizio di valore dato
da una realtà sociale, presente in uno spazio e in un tempo determinati, e in
nessun modo collegabile con una caratteristica psichica o biologica di un
determinato soggetto.
Risulta
dunque poco opportuno, per comprendere il fenomeno della devianza giovanile,
utilizzare la tesi in base alla quale l’agire criminale andrebbe correlato con
elementi presenti nel passato dei protagonisti di quell’agire. Tale criterio,
anche detto “ delle evidenze”, creerebbe una sorta di ponte fra la vita
presente e passata di un individuo e spiegherebbe il comportamento non conforme
alla norma penale in termini di deprivazioni fisiche e sociali, ambientali e
famigliari, subite ed evidenti nel vissuto di una persona7.
Quando si
parla di minori e si osservano alcuni di loro, avvezzi “all’arte del crimine”, si nota come determinati
tratti della loro personalità, quali l’insicurezza, aggressività, narcisismo,
insoddisfazione ecc. siano largamente diffusi anche fra i coetanei non devianti8. E questo dimostra quanto semplicistico
ed illusorio sia stato il tentativo di rintracciare le cause del comportamento,
non conforme alla norma, nelle qualità caratteriali di un soggetto ancora in
formazione.
Con tale
nuova impostazione gli studiosi del settore, hanno utilizzato categorie
concettuali diverse, e fra tutte quella che ha avuto più successo è la
cosiddetta carriera deviante.
La carriera
deviante è costruita come una sorta di percorso, all’interno del quale è
possibile individuare tre momenti principali: la commissione del reato,
l’essere riconosciuto deviante dalla società e l’adesione ad un gruppo deviante
organizzato. In buona sostanza, si tratta di una sorta di evoluzione, un
complesso sviluppo psicosociale che porta il giovane ad assumere
progressivamente le caratteristiche del delinquente9.
Il
modello sequenziale è stato applicato a molti casi concreti, e ciò ha permesso
si estrapolare dati importanti per comprendere meglio le dinamiche sottese al
comportamento deviante. E’ stato dimostrato che per la maggioranza degli
adolescenti forme diverse di devianza non costituiscono occasioni episodiche,
ma rappresentano la norma in senso statistico10.
Spesso si
inizia “ per caso ”, spinti dal desiderio di sperimentare nuove emozioni,
oppure per scacciare la noia di una vita troppo piatta e priva di stimoli
positivi, ma più frequentemente si segue il gruppo, che rappresenta per molti
adolescenti il vissuto quotidiano, fatto di leggi, di simboli, e di ruoli ben
precisi. E’ stato rilevato che il contatto con gruppi diversi fa emergere nello
stesso soggetto pulsioni differenti e specifiche, da lui stesso non
prevedibili, tali da farlo apparire dissociato in differenti personalità;
inoltre repentini cambiamenti caratteriali potrebbero essere una conseguenza di
mutamenti ambientali ed economici11.
Se il
primo momento di contatto con l’antisocialità è occasionale e non vincolante
rispetto ad una definizione di sé come delinquente, il secondo passo è
accompagnato dalle attribuzioni negative da parte della società e la reazione
del giovane, violenta e rabbiosa, sarebbe il preludio al terzo e definitivo
passaggio, nel quale la costruita identità delinquenziale troverebbe una sorta
di stabilizzazione.
Il
comportamento deviante è un comportamento appreso, composto da meccanismi
analoghi a quelli del comportamento conforme, fatto di codici, di simboli,
significati e rituali; tuttavia affinché una condotta sia deviante è necessaria
non solo la contrarietà alla norma, ma occorre che gli altri la
percepiscano come tale.
In ultima
analisi, la devianza scaturisce quindi dall’incontro tra un comportamento e la
reazione sociale conseguente, reazione che varia a seconda delle norme
esistenti in un territorio e in un tempo determinati, perché ciò che è
tollerato in un’epoca o in un luogo può essere proibito in un altro e viceversa12.
A
conclusione di questo difficile percorso interpretativo è dunque possibile
affermare che in una società come la nostra, complessa ed autoreferenziale,
dominata da modelli culturali vuoti e superficiali, diffusi a mezzo stampa e
televisioni, ogni adolescente è costantemente sottoposto al rischio di
sviluppare una personalità distorta, contraddittoria e deviante.
1.3 La criminalità minorile:
notizie storiche
La criminalità dei minori non è un fenomeno di recente formazione, perché le cronache storiche e le statistiche penali delle diverse regioni del mondo ne conservano le tracce, a partire da epoche anche molto lontane dalla nostra.
Prova indiscutibile di una
delinquenza minorile presente nel tessuto sociale è, ad esempio la condanna nel
1833, da parte della Corte centrale criminale di Londra, di un ragazzo di 9
anni ad essere giustiziato tramite impiccagione, perché responsabile di aver
rotto con un bastone una vetrina13.
Verso la fine del XIX secolo
negli Stati Uniti d’America si sviluppa il movimento dei Child Savers (
cioè salvatori del minore ), costituito da un gruppo di riformatrici femministe
allo scopo di migliorare le condizioni dei minori disadattati, grazie alla
promulgazione di leggi speciali e attraverso la creazione di strutture a cui
affidare la rieducazione degli sfortunati fanciulli14.
Negli anni successivi si
assiste ad un cambiamento nelle risposte giudiziarie e sociali attuate nei
singoli Stati e un esempio lo rinveniamo nella nascita della prima Juvenile
Court ( Tribunale dei minori ) a Chicago, Illinois, nel 1989.
Ben presto anche in Europa
si diffondono le idee maturate oltre oceano sul problema minorile, sorgono
diversi Tribunali dei minori e il primo è quello di Birmingham, in Inghilterra
nel 1904.
Anche l’Italia si mostra
favorevole al nuovo approccio nei confronti del minori, infatti nel 1934 viene
approvata la legge istitutiva di un tribunale specializzato per i minori, sia
pur inizialmente previsto come sezione specializzata del tribunale ordinario.
La stessa legge istitutiva regolamenta anche le strutture destinate ad
accogliere i minorenni quali gli istituti di osservazione, le case di
rieducazione, i riformatori giudiziari e le carceri minorili, in una logica di
continuità graduabile fra misure penali restrittive della libertà e misure non
repressive.
Il panorama si trasforma in
seguito all’entrata in vigore della Carta Costituzionale e il conseguente
affermarsi dei diritti fondamentali del singolo ( artt. 2, 3 Cost. ), nonché il
profilarsi del principio di rieducazione a cui le pene devono necessariamente
tendere, in ossequio all’art. 27 della Costituzione.
Alla nuova ideologia
rieducativa, posta al centro del trattamento e delle misure di riabilitazione
del minore, si ispira anche la legge n. 888 del 1956 di riforma
dell’ordinamento penale minorile.
La normativa italiana in
tema di giustizia minorile è il frutto della reazione dell’ordinamento di
fronte ad un fenomeno, come quello della delinquenza giovanile, che si è
modificato nel tempo, cambiando la propria fisionomia.
Per capire quale è stato il
suo sviluppo e quali sono le tipologie passate e presenti occorre far
riferimento ad una serie di dati statistici, elaborati per valutare le
dimensioni oggettive della delinquenza minorile dal dopoguerra fino ai giorni
nostri.
1.4 Evoluzione della delinquenza minorile nell’ultimo secolo di storia italiana
L’indagine sui numeri e sulle caratteristiche della criminalità minorile relativa agli ultimi cento anni di storia italiana, mostra come il fenomeno sia cresciuto fino a raggiungere soglie di forte allarme sociale, e spinge ad alcune doverose considerazioni sul modello educativo tradizionalmente adottato nel nostro paese.
Mentre i primi trent’anni
del XX secolo hanno registrato una percentuale di criminalità minorile pari
all’ 11 – 14% del totale, nella prima metà degli anni ’50 il numero dei minori
denunciati mantiene un andamento decrescente, eccettuata qualche piccola
oscillazione15.
Dal 1939 al 1945 il paese è
sconvolto dal II Conflitto Mondiale e gli anni successivi, quelli della
ricostruzione, risentono dei disagi e dei disordini provocati dalla guerra, ben
evidenziati nelle statistiche ufficiali che mostrano un apparente aumento delle
denunce a carico di minori; si parla di apparenza in quanto si attribuisce il
brusco incremento al disorientamento generale del periodo postbellico.
I nati durante la guerra
sono cresciuti e hanno raggiunto l’adolescenza, ma con la crescita si sono
manifestati i sintomi di disadattamento e di sofferenza causati dalle
condizioni critiche in cui hanno vissuto durante il conflitto, e le cronache di
allora riportano episodi di teppismo gravi e sconcertanti. Le città italiane
sono percorse da piccole bande, le gangs, responsabili di atti di
vandalismo e di delitti di gratuita violenza a palese imitazione dei cugini
americani, i famosi Teddy boys.
Siamo nel 1954 e la
delinquenza minorile manterrà un costante aumento almeno fino al 1963,
imponendo una nuova attenzione pubblica e giudiziaria.
Grazie alla legge 888/1956
si diffonde la nuova ideologia rieducativa in campo penale minorile e lo
strumento della prevenzione attenua il numero delle condanne attraverso
l’utilizzo dei nuovi istituti del perdono giudiziale e della mancanza di
imputabilità.
Cambia nel frattempo il
panorama relativo al tipo di reato perpetrato: diminuiscono gli episodi
delittuosi di eccezionale gravità, ma cresce il numero di omicidi e di lesioni
colpose, determinato probabilmente dal diffondersi della motorizzazione.
Per ciò che concerne i reati
contro il patrimonio, si registra un aumento di furti di oggetti di modico
valore, mentre nel Nord del paese le rapine appaiono selettive e meglio
organizzate.
Lasciati alle spalle gli
anni ’60 con la loro ideologia strettamente ancorata al dato della prevenzione,
si arriva agli anni ’70 e per il primo periodo del nuovo decennio la situazione
sembra stabilizzarsi: le istituzioni mantengono saldamente la rotta verso
l’ordine e il consolidamento del sistema educativo, considerato infallibile. Ma
tale periodo di relativa calma e tranquillità muta improvvisamente, infatti a
partire dalla metà degli anni ’70 l’Italia è investita da un pericoloso
disorientamento generale: sono gli anni dell’occupazione delle scuole, della
grande e diffusa turbolenza sociale e le istituzioni sembrano vacillare di
fronte alla contestazione giovanile imperante.
Proprio il numero delle
detenzioni mostra una flessione più marcata dopo il 1975, che rappresenta il
momento in cui la criminalizzazione dei minori raggiunge le sue massime punte:
i minori entrati in carcere, in attesa di giudizio raggiungono circa le 9000
unità16.
Tutto il sistema educativo è
ormai fatalmente in crisi e l’ingresso negli anni ’80 non migliora la
situazione già così compromessa; il numero di minori sottoposti a procedimento
penale mantiene livelli significativi, soprattutto per reati legati al
patrimonio.
Nuove forme di delinquenza,
legate in particolare ai fattori droga e tossicodipendenza e allo sviluppo del
terrorismo ( si ricordino gli anni bui delle stragi e degli attentati
dinamitardi ) sono in pericolosa ascesa, mentre si conferma il progressivo calo
dei reati più gravi contro la persona. E’ tuttavia riscontrabile una
discrepanza tra tale diminuzione e il crescente allarme sociale, espresso anche
a livello politico, giustificabile secondo alcuni per la mancata rilevazione da
parte delle statistiche ufficiali di quello che viene definito “ numero oscuro
” della devianza minorile. La devianza sommersa, non quantificabile per
l’estrema difficoltà di reperirne le cifre, costituisce secondo uno studio del
CENSIS del 1982 il 91% dei dati ufficiali, e ciò significa che per ogni minore
denunciato 91, magari autori di reati particolarmente violenti, non vengono
segnalati dall’autorità giudiziaria17.
Secondo l’elaborazione dei dati
ISTAT, compiuta dall’Ufficio Centrale per la giustizia minorile all’inizio
degli anni ’90, le tendenze in atto e le previsioni per il futuro non sono
molto confortanti.
Nel rapporto si parla di un
<< vivissimo allarme per il segnale di gravissima sofferenza del mondo
dei più giovani che l’aumento della criminalità contribuisce a mettere in
evidenza >>18.
Infatti il numero delle
denunce per reati commessi da minori è salito progressivamente dalle 19728
unità nel 1986 alle 44977 unità del 1991, con un aumento quasi costante,
nell’arco di cinque anni, dei minori denunciati alle Procure presso i Tribunali
per i minorenni. Anzi, se consideriamo che i dati raccolti evidenziano nel 1995
il raggiungimento delle 46051 unità, possiamo senza indugio affermare che la
delinquenza minorile è più che raddoppiata nel nostro paese nell’arco di un
decennio19.
E’ interessante notare che
in coincidenza e successivamente all’introduzione del nuovo Codice di Procedure
minorile, nel biennio 1988 – 1990 si è registrato il più forte incremento
percentuale dal +15,3% / +18,7% nel 1988 – 1989 al +36,5% nel 199020.
Sembra tuttavia confermata
l’ipotesi che spiega questo brusco aumento come effetto del “ periodo di
assestamento ” dovuto alle novità procedurali in campo minorile e dunque il
fenomeno non è riconducibile ad un ipotizzato fallimento della nuova filosofia
permeante il nuovo codice di rito, chiaramente ispirata all’intervento penale
come estrema ratio e al riduttivismo carcerario.
Un aumento si registra
infine, per quanto concerne la particolare gravità del reato commesso: è salito
infatti il numero degli omicidi consumati e tentati, e desta ancora più
preoccupazione l’incremento del reato di lesioni personali volontarie, senza
poi tener conto della percentuale in costante ascesa delle rapine, estorsioni e
sequestri di persona21.
1.5 Il “ male minore ”
Le statistiche ufficiali assolvono solo in parte il delicato compito di dare un volto alla criminalità minorile, per ricostruire il quale è indispensabile far riferimento alle ricerche svolte sulla devianza sommersa e all’opinione pubblica, alimentata dagli organi di informazione.
In questo modo è possibile
ricostruire un quadro generale piuttosto inquietante che pone problemi nuovi e
gravi per la giustizia minorile italiana, abituata a gestire una devianza
minorile “ domestica ” e di tipo tradizionale22.
La prima constatazione è
relativa alla precocità dei contatti con il mondo del crimine, infatti è molto
alto il numero di infraquattordicenni segnalati per reati anche di una certa
gravità. A questo proposito “ la Commissione parlamentare d’inchiesta sul
fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali ad essa equiparate ”
aveva segnalato nel 1991, la persistente cooptazione da parte di nuclei
criminali di minori dodicenni e tredicenni per la commissione di quelli che
vengono definiti street crimes ( lotto clandestino, spaccio di
stupefacenti, rapine, furti, ecc. ) e il ripetuto utilizzo dei minori come
sicari. Inoltre l’aumento delle denunce per reati legati alla violazione delle
leggi sulle armi, da parte di minori soprattutto nel territorio siciliano,
sembrerebbe da attribuirsi alla abitudine, molto frequente fra i boss di
livello intermedio, di non circolare armati preferendo farsi scortare da “
bambini ”, ai quali vengono affidati mitra e pistole allo scopo di superare le
perquisizioni della polizia, potendo poi commettere indisturbati delitti e
soprusi23.
Le organizzazioni criminali
fagocitano in maniera massiccia una larga parte della delinquenza minorile
presente sul territorio italiano, e l’area maggiormente interessata viene
individuata nel meridione, precisamente nelle regioni della Campania, della
Puglia, della Calabria e della Sicilia, dove le organizzazioni malavitose
detengono il controllo quasi incondizionato degli uomini e delle risorse.
Tuttavia è difficoltoso
reperire i dati relativi al numero reale di minori militanti in dette
associazioni, e ciò a causa delle complesse problematiche tecnico giuridiche
che impediscono l’imputazione ad un minore del reato di partecipazione ad
attività criminosa organizzata.
Non ci si può infatti basare, per l’applicazione dell’art. 416 bis c.p. anche a soggetti minorenni, sui requisiti dallo stesso previsti e fondanti la categoria penalmente rilevante quale è l’associazione di tipo mafioso. E’ necessario operare utilizzando strumenti e tecniche magari scientificamente poco apprezzabili, ma sicuramente utili per produrre risultati convincenti.
Si è allora ragionato in
questo modo: posto che all’interno dell’associazione criminale, di cui all’art
416 bis c.p., “ vivono e si sviluppano ” altre tipologie di reato, quali la
produzione, lo spaccio e la detenzione di stupefacenti, l’estorsione e il
contrabbando spesso imputabili ai minori, risulterebbe da tali attività
collegate la riconducibilità di quest’ultimi alla fattispecie onnicomprensiva
della delinquenza organizzata24.
Se il mezzogiorno è
interessato dal coinvolgimento dei minori nella criminalità organizzata, il
nord italiano non vive certo una situazione più confortante, trovandosi a dover
fronteggiare la devianza minorile straniera, composta in modo particolare da
nomadi jugoslavi e ragazzi immigrati, per lo più clandestinamente, dalla
Tunisia, dal Marocco, dall’Algeria e da altri paesi del Nord Africa.
Questi soggetti e, in
particolare gli zingari provenienti dalla Ex – Jugoslavia, sono indotti al
crimine anche in tenera età e sono dediti, per lo più, a piccoli furti e a
reati contro il patrimonio in genere25.
Negli ultimi anni tuttavia
la “ manodopera ” minorile straniera è stata utilizzata in altri settori, ad
es. per lo spaccio di sostanze stupefacenti e si è riscontrato un lieve aumento
del numero dei reati contro la persona, compiuti per la maggior parte dagli
slavi, considerati più violenti rispetto agli altri extracomunitari.
Come è stato brillantemente
sintetizzato26, l’Italia conosce due
tipi di delinquenza ben distribuita geograficamente: quella dei giovani
italiani collegati alla criminalità organizzata del Sud del paese, e quella dei
giovani stranieri, autori in larga parte di delitti legati al mondo dello
spaccio di stupefacenti, concentrati nel Nord d’Italia.
Purtroppo sta emergendo in
maniera sempre più pregnante una tipologia di devianza minorile che desta grave
preoccupazione nelle istituzioni, chiamate a fronteggiare la nuova emergenza.
Tali nuovi fenomeni, meglio
noti come bullismo e baby – gang, sono legati da uno stretto
vincolo di comunanza di cause e contenuti.
Il bullismo è un fenomeno
proprio dell’età giovanile, caratterizzato dalla mancanza assoluta di regole
che si manifesta con comportamenti aggressivi e violenti e con forme di
prevaricazione sui più deboli27.
A proposito delle gangs,
delle bande, questa forma di devianza nasce dalla convinzione che la vita deve
essere dominata dal rischio, cioè dalla necessità di affrontare con coraggio
situazioni rischiose, osare imprese talvolta impossibili, insomma assumere un
comportamento da “ duri ” 28.
Il 18 Gennaio 2000 il
procuratore Antonio la Torre ha rilanciato, in occasione dell’inaugurazione del
nuovo anno giudiziario, le forti problematiche relative all’acuirsi,
nell’ultimo periodo, di fatti criminali ad opera di bande di minorenni.
<< Le attuali dinamiche della criminalità minorile – ha avvertito il
procuratore generale – non sono più spiegabile soltanto nell’ottica di degrado
famigliare o della soggezione ad adulti senza scrupoli >>. A conferma di
questo dato sono giunte da alcuni distretti giudiziari testimonianze dirette
che chiariscono, al di là di ogni ragionevole dubbio, come le imprese delittuose
delle baby – gangs siano da attribuire ad ambienti borghesi, estranei a
fenomeni di marginalizzazione sociale ed economica29.
1.6 Riflessioni
La società italiana del terzo millennio appare profondamente trasformata rispetto a cinquanta anni fa quando, all’indomani della affermata democrazia, si affacciava sul panorama mondiale desiderosa di ricostruire quello che la guerra aveva sconvolto e di attuare gli ideali di uguaglianza e di solidarietà, patrimonio di tutte le nazioni civili e liberali.
Purtroppo i costumi severi e
tradizionali di un tempo sono stati gravemente deteriorati a causa di una
eccessiva liberalità, subentrata con la democrazia.
Il presente invece, è
caratterizzato da conflitti individuali e di gruppo, l’inciviltà e una certa
rilassatezza nei costumi e nel comportamento sono entrati a far parte del
nostro vivere quotidiano, enfatizzati dai mezzi di comunicazione di massa.
Di conseguenza nel nostro
paese la delinquenza, e in special modo quella dei minori è notevolmente
aumentata, raggiungendo soglie di giustificato allarme sociale.
I nostri ragazzi sono
costretti a crescere in un enorme “ vuoto etico ”, riempito solo dai messaggi
convulsi e violenti, provenienti da una società in cui l’incertezza
esistenziale sembra aver preso il sopravvento. I ragazzi molte volte si trovano
da soli ad affrontare le contraddizioni di un mondo che non capiscono, e contro
il quale si scontrano in maniera drammatica ed imprevedibile.
Questi adolescenti sono
ammalati di benessere e di monotonia, e in genere, pochi si accorgono della
loro inquietudine, del loro modo violento e tragico di attirare l’attenzione,
salvo poi rammaricarsi quando è troppo tardi.
La società odierna mostra
scarso interesse per questi giovani virgulti, le stesse famiglie non comprendono
i comportamenti dei loro figli, anzi spesso non riescono a conoscerli e a
comunicare con loro.
Se riflettiamo un momento,
ci accorgiamo di quanta poca considerazione lo stato abbia dimostrato nei
confronti delle nuove generazioni; basti pensare ai tardivi interventi con
continui rinvii nell’applicazione di nuovi percorsi curricolari nella
formazione scolastica e professionale.
Il desolante quadro è infine
completato dalle cronache cittadine che riportano fatti gravissimi quanto
feroci ed immotivati di cui sono protagonisti gli adolescenti. Tali episodi,
purtroppo non più isolati, hanno creato una sorta di reazione collettiva e la
richiesta di un intervento forte ed esemplare da parte delle istituzioni.
Atti di violenza e di
intimidazione perpetrati da ragazzi, poco più che adolescenti, nei confronti di
adulti o di coetanei si ripetono con cadenze troppo frequenti per non destare
stupore e paura.
Dunque è importante trovare,
pur nella comprensibile indignazione generale, le giusta via legislativa di
riconsiderazione dell’impianto normativo di interventi atti ad affrontare
l’emergenza per quei soggetti in cui la maturazione fisica non corrisponde a
quella morale ed intellettiva.
Secondo l’opinione comune il
carcere risolverebbe la situazione in maniera definitiva, in virtù della sua
riconosciuta capacità deterrente, e forse, di fronte a certi episodi di
efferatezza da parte di adolescenti, si sarebbe tentati di reagire in maniera
irrazionale ricorrendo anche a misure non proprio ortodosse di correzione.
E’ necessario invece che gli
adulti, la comunità e la scuola siano responsabilizzati nel senso di una
maggior e più costante presenza nella vita dei ragazzi e, secondariamente la
giustizia minorile è in grado di trovare gli strumenti e le soluzioni per recuperare
questi minori, beneficiando di modelli più idonei già sperimentati con successo
in altri paesi europei.
CAPITOLO II
Le Convenzioni internazionali e l’interpretazione della giurisprudenza costituzionale.
La
delinquenza minorile non interessa solo il territorio italiano, ma costituisce
un fenomeno tristemente noto in ogni paese del mondo; appare tuttavia inutile
tentare un confronto circa le tecniche e le soluzioni normative esistenti a
livello mondiale, in quanto esistono stati in cui le garanzie giurisdizionali
sono assenti e la prassi conosce interventi solo di tipo poliziesco[1].
Conviene
invece, per un’analisi più mirata del problema, restringere il “ campo d’azione
” ai confini europei dove, pur nella diversità dei linguaggi tecnici, si può scoprire
una identità di senso per ciò che concerne le regole e gli strumenti utilizzati
in campo penale minorile[2].
Le
numerose convenzioni internazionali fiorite intorno alla delicata problematica
offrono la possibilità di capire quali sono le vie percorribili in futuro per
la giustizia minorile.
2.2 Fonti internazionali
sulle pene previste per un minore
L’infanzia
e l’adolescenza rappresentano fasi
molto delicate della vita di un individuo e quindi la crescita del
bambino e del ragazzo deve essere assistita da cure e attenzioni, che ne
garantiscano il corretto sviluppo fisico ed intellettuale. Il percorso “
obbligato ” che conduce all’età adulta è tuttavia caratterizzato, per opinione
unanime, da difficoltà di accettazione di nuove dimensioni e di comportamenti
conformi ad un determinato assetto sociale. E’ naturale dunque che il fanciullo
risenta in maniera più o meno accentuata di questi cambiamenti e sempre più
frequentemente manifesti sintomi di
ribellione alla nuova realtà e
alle nuove regole da rispettare.
Per
questi motivi la comunità internazionale ha sentito più volte la necessità di
ribadire quanto sia importante per ogni Stato l’impegno legislativo, per
assicurare ai suoi cittadini “ in erba ” una protezione rispettosa della loro
fragilità e particolarmente attenta alle loro naturali potenzialità, affinché
possano essere preparati ad affrontare un percorso di vita, spesso ricco di
problematiche non indifferenti.
Non è
certamente possibile ricordare qui tutte le convenzioni che hanno impegnato gli
Stati Europei al tavolo delle trattative, ma è quanto meno interessante
prendere in considerazione alcuni documenti internazionali, che simboleggiano
il cammino compiuto nell’intento di applicare al minore un trattamento penale
ragionevole e proporzionato alla sua giovane età.
Il
percorso culturale che ha condotto gli Stati a formulare una base comune di
regole in materia di giustizia penale minorile ha presentato difficoltà per due
tipologie di problemi: le contraddizioni insite nella percezione sociale del
minore delinquente, e la non agevole impresa di trovare regole valevoli per il
maggior numero di nazioni[3].
L’intervento
su di un minore che trasgredisce la legge innesca una serie di conseguenze di
non poco conto, quali ad esempio la perdita di credibilità dell’apparato
giudiziario nella applicazione delle norme, l’esigenza di dare risposte
concrete alla vittima del reato, la necessità di una difesa sociale contro un
aggressore pericolosamente adultizzato[4].
E’ facile
comprendere come ci fossero contrastanti movimenti all’interno della comunità
degli Stati, e all’interno degli stessi in cui convivevano e si alternavano una
durezza eccessiva negli interventi contro il crimine minorile, con forme più
umanitarie che puntavano sulla scommessa del recupero e della
risocializzazione.
Nell’arco
di quaranta anni, dal 1920 al 1960, gli Stati Europei hanno studiato e lavorato
per sviluppare idee comuni, prendendo coscienza del “ superiore interesse ” di
trovare un adeguato assetto normativo che finalmente considerasse come la
interiorizzazione delle regole del vivere civile da parte di un giovane sia
dipendente dalla capacità delle nazioni di assicurargli stimoli culturali e
pedagogici in linea con la sua maturazione[5].
Le Regole
di Pechino, regole minime per l’amministrazione della giustizia, approvate a
New York il 29.11.1985 costituiscono la prima compiuta enunciazione di principi
concernenti il diritto e la procedura minorile.
Il
documento in esame affronta il problema con riferimento alle varie fasi del
percorso giudiziario a cui può essere sottoposto un minore, non trascurando la
necessità di ribadire l’importanza di una idonea e sviluppata prevenzione
<< che incoraggi un processo di maturazione capace di tener lontano il
più possibile il minore dalla criminalità e dalla delinquenza durante il
periodo di vita in cui è più esposto ad un comportamento deviante >>[6].
L’art. 2
invita gli Stati ad azioni sinergiche per la creazione in ogni paese di un
corpo di leggi specificamente valido per i minori e la creazione di agenzie che
sappiano vigilare sulla loro applicazione effettiva, garantendo una pronta
capacità di risposta alle esigenze dei loro
“affidati ”[7].
Gli
obiettivi caldeggiati nella presente convenzione sono chiari: tutela del
giovane e insieme protezione e mantenimento della pace e dell’ordine sociale (
art. 1 ), dunque previsione di misure sanzionatorie proporzionate alle
circostanze del reato e all’autore dello stesso (art. 5).
Ma un
sistema caratterizzato da risposte penali varie, suscettibili di un’applicazione
differenziata, richiede la presenza e l’esercizio responsabile di un potere
discrezionale appropriato ai diversi livelli dell’amministrazione della
giustizia minorile, sia nell’istruttoria che nel processo penale e nella fase
esecutoria ( art. 6 ).
Gli artt.
17, 18, 19, 20 enunciano dei criteri guida per la scelta da parte del giudice
del percorso da seguire nei confronti di un minore riconosciuto colpevole, e
che possono così sintetizzarsi:
-
proporzionalità e personalizzazione delle pene;
-
restrizione della libertà individuale ai soli casi di
violenza alla persona, di recidiva e inevitabilità;
-
non applicabilità della pena capitale e delle pene
corporali;
-
possibilità di sospensione in ogni tempo del processo;
-
possibilità di concludere il giudizio con formule il più
possibile diversificate e flessibili;
-
ricorso estremo al collocamento in istituzione e per il
periodo più breve possibile:
-
estrema rapidità nell’esecuzione del trattamento stabilito.
Concludono
il quadro le previsioni di una sollecita e frequente applicazione del regime di
liberazione condizionale ( art. 28 ) e di un largo ricorso a forme di
semidetenzione, specie se espiabili in luoghi diversi dagli istituti penali (
art. 29 ).
Il 17
Settembre 1989 a Strasburgo il Consiglio d’Europa ha individuato, con la
Raccomandazione n. ( 87 ) 20 sulle risposte sociali alla delinquenza minorile,
tre aree di interesse sulle quali concentrare gli interventi e cioè la prevenzione, l’uscita dal
circuito giudiziario – ricomposizione del conflitto, giustizia dei minori[8].
In ordine
al primo punto sembra che l’Unione Europea propenda per un potenziamento delle
strutture scolastiche e sociali ( organizzazioni sportive, circoli di
ricreazione ecc. ) per poter offrire nuovi orizzonti ai giovani ed impegnarli
in attività che ne favoriscano l’inserimento sociale e li allontanino da
pericolose occasioni di “ smarrimento” ( art. 2 ).
L’uscita
dal circuito giudiziario deve essere, su indicazione del Consiglio d’Europa,
affrontata attraverso l’impiego di tecniche flessibili: da una parte
utilizzando forme di sottrazione ( diversion ) alla rigidità degli schemi
processuali penali e, dall’altra ripristinando il patto sociale grazie ad una
ricomposizione del conflitto ( mediazione) facente affidamento sulla spontanea
adesione del minore e sulla collaborazione della sua famiglia, nel pieno
rispetto dei diritti della vittima ( art. 3 ).
Il terzo
punto sostanzialmente accoglie gli indirizzi
già formulati a New York nel 1985; tuttavia è di basilare importanza
concentrare l’attenzione su due enunciati molto significativi: l’art 15 e
l’art. 16.
La prima
regola, riprendendo la prospettiva, precedentemente enunciata, circa la
necessità di eliminare progressivamente il ricorso alla detenzione e di
moltiplicare le misure sostitutive ( art. 14 ), palesa l’utilità di ricorrere
alle forme che meglio favoriscono l’inserimento del giovane, sorveglino sul suo
comportamento grazie ad un’azione educativa intensiva ( trattamento intensivo
intermedio ), prevedano la riparazione del danno causato dal minore reo, e la
possibilità del giovane di adoperarsi per l’interesse della comunità.
Ma l’art.
16 rappresenta la vera novità nei principi informatori della materia, in quanto
prospetta l’opportunità di disegnare un autonomo sistema delle pene minorili,
che si caratterizzi non solo per le modalità di esecuzione e di applicazione
più favorevoli rispetto a quelle previste per gli adulti, ma soprattutto per
eccleticità e flessibilità[9].
Conclude
l’esame delle fonti internazionali la Convenzione sui diritti del fanciullo,
approvata dall’O.N.U. il 20.11.1989 a New York. Si tratta di una convenzione
che si occupa in generale dei diritti del minore, ma sottolinea una volta di
più come il fanciullo sia un soggetto di diritti e dunque portatore di esigenze
diverse che ne giustifichino una considerazione specifica.
L’art. 37
esclude, per coloro che ebbero a delinquere nel corso della minore età ( quindi
anche per colui diventato ormai maggiorenne) pene e trattamenti crudeli,
inumani, degradanti, bandendo dal novero delle possibili misure la pena
capitale e l’ergastolo. << La pena deve essere eseguita tenendo conto
dell’età del soggetto, ed essere pedagogicamente orientata e finalizzata alla
reintegrazione sociale, promovendo il senso di dignità e di valore del minore
>> proclama l’art. 40 della Convenzione, elencando di seguito le garanzie
fondamentali di cui deve beneficiare il minore accusato, imputato o condannato[10].
Le
indicazioni scaturite da questo breve, ma mirato esame delle più importanti
norme internazionali, sono chiare e portano in un’unica direzione, quella cioè
di creare in ogni Stato un sistema capace di offrire strumenti vari e credibili
al fine di fronteggiare gli episodi di devianza minorile più frequenti e di
complessa problematicità; strumenti che permettano il recupero nel minore reo,
anche nei casi più gravi, di modelli di vita e di riferimento capaci di dar
stabilità e responsabilità al soggetto, evitando di schiacciarlo sotto il peso
della colpa con l’uso di una giustizia penale negativa, arroccata fra il
paternalismo e la repressività.
2.3 La giustizia penale dei
minori fra passato e presente
Il
percorso da cui è scaturita l’attuale impostazione della giustizia minorile non
è stato agevole, in quanto un diffuso atteggiamento di poca considerazione per
la materia e non sempre condivisibili scelte politiche hanno contribuito a
rallentare ulteriormente il cammino di riforma.
Nel 1865,
anno di formazione della legge di ordinamento giudiziario, si realizza il primo
tentativo di unificare il sistema penale e di renderlo operativo in tutti i
territori del regno, all’indomani dell’Unità d’Italia. In questo corpus di
norme non è dato rintracciare alcuna disposizione che ipotizzi la commissione
di un reato da parte di un minore, con la previsione di trattamenti differenti
rispetto agli adulti.
Nel 1889
il codice penale Zanardelli, la cui introduzione è ben accolta per la chiara
matrice liberale e per l’abolizione della pena di morte, detta invece alcune
norme specifiche circa l’imputabilità del minore. Inoltre prevede che <<
fosse tenuta presente, in caso di giudizio, la personalità del piccolo imputato
>>. Tuttavia << manca una magistratura ad hoc; i ragazzi vengono
giudicati dagli ordinari organi>>[11].
Il primo
segno di un cambiamento si palesa attraverso una circolare nel 1908 del
Guardasigilli pro-tempore V. E. Orlando, il quale invita a considerare
l’opportunità di una competenza specializzata, e almeno sommariamente
psicologica, del giudice nei procedimenti a carico di minorenni. Il medesimo documento
introduce la previsione di speciali indagini volte ad individuare le cause
della condotta antisociale e a predisporre i provvedimenti più idonei[12].
L’idea
sottesa al codice penale del 1889 e alla Circolare Orlando è quella di una
giustizia retributiva nella prospettiva della correggibilità, tramite
l’utilizzo di interventi, per così dire, di “ bonifica ” sui piccoli turbatori
dell’ordine pubblico, conseguiti attraverso il loro allontanamento da ambienti
o famiglie insane e il collocamento in luoghi di protezione, correzione,
isolamento.
Sul
fronte carcerario troviamo il primo organico tentativo di riforma con
l’emanazione del Regolamento generale del 1891 sugli stabilimenti carcerari e
sui riformatori governativi. Tale regolamento, che trova il suo presupposto nel
codice Zanardelli, non riesce tuttavia a realizzare il principio del cosiddetto
sistema misto recepito dal codice penale, e a rendere concreta la
differenziazione del trattamento dei reclusi in relazione al tipo di pena e
all’età.
Famosa in
materia minorile è poi la Commissione di studio presieduta dall’onorevole
Quarta ( 1909 ) che, pur non avendo avuto un seguito legislativo, ha certamente
contribuito ad orientare le future scelte di politica criminale verso la
necessità per i minori di un trattamento peculiare e di competenze
specialistiche[13].
Con
l’avvento del regime fascista nel 1930 viene varato un nuovo codice penale, più
noto come codice Rocco, all’interno del quale viene riservata una ritrovata
attenzione alla materia minorile, apprezzabile grazie alle disposizioni degli
artt. 97 e 98.
Si
interviene sul problema dell’imputabilità minorile, subordinandone l’esistenza
a due fattori fondamentali, uno di carattere cronologico, l’altro di tipo
medico – psicologico e psichiatrico. L’art 97 c.p. infatti prevede l’assenza di
imputabilità fino a 14 anni, mentre l’art. 98 c.p. introduce un motivo
ulteriore di esclusione o riduzione della capacità d’intendere e di volere
sempre collegato all’età, ma da accertare caso per caso nei minori fra i 14 e i
18 anni. Ipotesi, quest’ultima, che costituisce solo una possibilità e non
realizza invece un giudizio di irresponsabilità esteso a tutti gli adolescenti[14].
Finalmente
nel luglio del 1934 vede la luce il primo organismo giudiziario solo per
minori; il r. d. l. n. 1404 istituisce il Tribunale per i Minorenni con tre
competenze volte all’assistenza e al controllo del minore degli anni 18: per le
questioni attinenti la sua tutela in situazioni di problematicità famigliare (
competenza civile ); nei casi in cui << per abitudini contratte, dia
manifeste prove di traviamento e appaia bisognevole di correzione morale
>> ( competenza amministrativa ); per i procedimenti che lo riguardino
come autore di reato ( competenza penale )[15].
La stessa
legge prevede inoltre il funzionamento dell’istituto presso ogni sede di Corte
d’Appello o di sezione di Corte d’Appello e disciplina la composizione del
collegio giudicante, affiancando ai due magistrati togati un giudice benemerito
con competenze specifiche in ordine alla antropologia, biologia e alle più
importanti scienze positive. Il suo intervento è reso indispensabile vista la
circostanza di dover giudicare un minore autore di un illecito penale[16].
Accanto
al Tribunale si sviluppano nuove forme istituzionali di contenimento quali gli
istituti di osservazione, case di rieducazione, riformatori giudiziari, carceri
minorili ecc. rinvenibili negli artt. 1 e 8 del r.d.l. 1404.
Ci
troviamo di fronte ad un nuovo modo di concepire la giustizia minorile,
enfatizzato anche dalla ideologia del regime in auge in quegli anni. Le misure
amministrative non repressive destinate a situazioni di abbandono e marginalità
costituiscono una sorta di scala progressiva che conduce alle misure
propriamente limitative della libertà e perciò penali. Come facilmente si
evince dalla normativa tutte le condotte, anche non perseguibili penalmente
hanno un esito segregativo[17].
Il
trattamento dei minori disadattati e delinquenti è impostato su metodi
correzionali, densi di autoritarismo e paternalismo severo, con un primo cauto
approccio alle scienze psicosociali, attraverso la previsione di una
osservazione scientifica del soggetto per una valutazione prognostica dei
rimedi da adottare.
In ambito
penitenziario il Regolamento n. 787 del 1931 ospita al suo interno alcune
previsioni sparse dedicate ai minori internati, senza peraltro alcun tentativo
di un raggruppamento quanto meno formale.
Il
passaggio dal regime autoritario a quello democratico comporta la radicale
trasformazione di una società rigidamente plasmata sulla logica autoritaria del
Fascismo, in un sistema dove coesistono differenti interessi e idee politiche.
Espressione
del cambiamento sono le leggi 888/ 1956 e 1085/1962 che proclamano le parole
d’ordine della rieducazione e del trattamento individuale.[18]
La prima, di più ampia portata riformatrice, introduce nuovi istituti meno
contenutivi sul piano fisico ma ugualmente idonei a sopperire alle carenze
affettive e psicosociali del soggetto, enfatizzando l’osservazione della
personalità prevista per legge. La seconda disciplina le funzioni e
l’organizzazione dell’Ufficio di servizio sociale per minorenni, formalmente
previsto con la l. 1956 e plaude in tal modo ad una prassi di volontariato già
attiva dal 1948[19].
Tali
nuovi interventi legislativi spostano l’attenzione dal reato alle deficienze
psicologiche interne del soggetto, inaugurando la tendenza ad intervenire sul
minore << prima del raggiungimento del traguardo del delitto >>[20].
L’istruzione,
l’apprendimento professionale e religioso, l’utilizzo di spazi chiusi ai
condizionamenti esterni continuano ad essere prevalenti negli interventi di
recupero sia amministrativi che penali.
In
particolare la possibile risposta al comportamento penalmente illecito del
minore è così articolata: uso di provvedimenti di clemenza ( perdono
giudiziale, non imputabilità ) per chi subisce per la prima volta un
procedimento penale o amministrativo, successivamente utilizzo di misure in
libertà ( affidi ) ed infine internamento per i plurirecidivi[21].
Le forme
di detenzione sono graduate da un minimo ad un massimo di afflittività: il
riformatorio è la forma più leggera di contenimento, seguono la prigione-scuola
e il manicomio giudiziario previsti per soggetti diversi ma equiparate per la
loro forte capacità punitiva.
Le trasformazioni
avvenute in epoche più recenti nella società italiana hanno lasciato il
legislatore sostanzialmente impreparato. Lentamente si è assistito ad un crollo
del sistema delineato dalle riforme del ’34 e del ’56, dovuto principalmente
all’evoluzione della delinquenza minorile nelle forme e nelle tipologie.
Da
segnalare l’intervento operato dal d.p.r. 24/07/1977 n. 166 che, in ossequio al
processo di decentramento amministrativo già in corso, distingue i casi a
rilevanza penale in cui ricorrere alla istituzionalizzazione dei minori dalla
gestione, affidata appunto agli Enti locali, dei semplici casi
educativo-assistenziali[22].
E’ del
1975 inoltre la l. 354 di ord. penit. che, innovando in maniera radicale la
disciplina pregressa, ha costruito un sistema basato sui principi di legalità,
tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive, umanità della pena,
osservazione scientifica della personalità tesa ad assicurare trattamento
rieducativo personalizzato. Ancora una volta si è però riscontrato quanto scarsa
sia l’attenzione della normativa alla condizione del minore detenuto, a cui
tuttavia, in virtù dell’art. 79 l. ord. penit., si applicano sostanzialmente le
stesse disposizioni previste per i detenuti adulti.
Spostandoci
nuovamente sull’aspetto processuale si arriva nel 1988 con il d.p.r. 488 alla
riforma del processo minorile contenuto nella scarna disciplina del 1934,
sfruttando la più vasta riforma del processo penale ordinario. Le disposizioni
sul processo penale a carico di imputati minorenni, nel rispetto della delega
legislativa ( art. 3 d.l. 16/02/1987 n. 81 ), sono espressione di un diritto
speciale, parzialmente sostitutivo o integrativo del nuovo codice di procedura
penale[23].
La
volontà dei riformatori è inequivoca e riassumibile in quattro punti fondamentali[24]:
1. fare
sempre meno ricorso alla giustizia penale nei confronti delle condotte devianti
dei minori;
2. fare
sempre meno ricorso alla risposta carceraria e più in generale custodiale come
sanzione penale e modalità cautelare nei confronti dei minori condannati ed
imputati;
3. assicurare
al minore il diritto al giusto processo;
4. favorire
la presa in carico del giovane delinquente da parte della società.
In
sintesi possiamo prendere atto di una sorta di arretramento progressivo del
penale-penitenziario in favore di interventi di presa in carico del disagio
minorile da parte di strutture pubbliche e private, e la previsione all’art. 28
d.p.r. 488 della figura della Messa alla prova depone in favore di tale tesi.
2.4
L’ordinamento penitenziario minorile: la mancata attuazione dell’art. 79
Quando si
parla di diritto penitenziario si fa riferimento allo studio dell’esecuzione
della pena, alle regole di una disciplina che può essere collocata in una zona
intermedia tra procedura e diritto sostanziale.
Attualmente
l’ord. penit. è regolato dalla l. 26/07/1975 n. 354 e dalle disposizioni di
attuazione, dettate con il d.p.r. 29/04/1976 n. 431 e successive modificazioni.
Il
problema più urgente di tale articolato sistema di norme nasce dalla circostanza
di essere l’unico riferimento normativo anche per una popolazione carceraria,
cioè quella minorile, diversa rispetto a quella per cui la l. 354 è stata
pensata e strutturata.
All’epoca
della sua prima redazione, nel 1960, il disegno di legge di riforma del sistema
penitenziario ospita una parte dedicata ai minori sottoposti a misure
limitative della libertà, sia di tipo penale che rieducativo. Nel successivo
tentativo del 1965 le due materie sono ancora presenti nello stesso progetto.
Più tardi invece si procede ad una separazione dei settori, ragionando sulla
opportunità di non trattare unitariamente la riforma degli istituti di pena per
adulti e la questione minorile.
Purtroppo
al varo della riforma si prende coscienza dell’impossibilità di rendere operativi
entrambi i progetti, perché “ il minorile ” risulta essere ancora incompleto.
L’unica soluzione, per non ritardare l’entrata in vigore del nuovo ordinamento
penitenziario, e contemporaneamente non lasciare i minorenni ristretti senza
disciplina per effetto della caducazione del vecchio regolamento del 1931, è
l’inserimento di una norma di natura transitoria che eviti tali inconvenienti[25].
Si tratta
dell’art. 79, capo IV disposizioni transitorie e finali rubricato Minori degli anni 18 sottoposti a misure
penali. Magistratura di Sorveglianza[26].
L’art. 79
avrebbe dovuto garantire la possibilità di applicazione anche ai minorenni
reclusi della disciplina più favorevole introdotta dalla riforma del 1975, e in
modo particolare l’accesso alle misure alternative alla detenzione (
affidamento un prova al servizio sociale, semilibertà, detenzione domiciliare
ecc. ).
E’ anche
vero però come questo regime avrebbe dovuto applicarsi ai minorenni per un
tempo limitato e cioè << fino all’emanazione di una apposita legge
>> come recita il primo comma dell’art. in questione.
Sono
trascorsi ormai più di 25 anni e non si è ancora intervenuti sul punto,
svuotando in tal modo il significato della stessa lettera dell’art. 79.
L’inerzia
legislativa ha per giunta creato le condizioni per frequenti interventi da
parte della giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale, come avremo
occasione di osservare, ha più volte lanciato un pesante monito al legislatore
affinché provveda alla elaborazione di una disciplina esecutiva apposita per
minori, sottolineando la pericolosità di ulteriori ritardi.
2.5
La giurisprudenza costituzionale: gli interventi, le interpretazioni e gli
indirizzi
La Corte
Costituzionale è intervenuta in numerose occasioni sul punto dolens della
mancata attuazione di un ordinamento penitenziario minorile; come è facile
immaginare le sue pronunce hanno per oggetto la contrastata norma dell’art. 79
L. 354/1975 e di conseguenza i criteri carenti per l’applicazione delle misure
alternative alla detenzione ai minori condannati alla pena carceraria.
Per
semplicità di esposizione gli interventi del Giudice delle leggi possono essere
compresi in tre distinte fasi temporali che hanno contraddistinto il suo
percorso evolutivo nella interpretazione del fenomeno indicato[27].
La prima
fase è caratterizzata dalla tendenza, promossa soprattutto dalla giurisprudenza
di merito, di annullare in via interpretativa i rigidi confini posti dalla
normativa penitenziaria alla possibilità di beneficiare degli istituti alternativi
al carcere, in favore di una applicazione più flessibile degli stessi nei
confronti di minori, anche quando la loro condanna non fosse ancora divenuta
esecutiva.
Esempi
esaustivi di tale filone interpretativo sono le:
o Sent. n.
46 del 1978[28] che ha
dichiarato inapplicabile ai minorenni
la cosidetta Legge Reale con la conseguente possibilità di concedere ad essi la
libertà provvisoria senza limitazioni in ordine al tipo di reato commesso;
o Sent. n.
122 del 1983[29] con cui la
Corte, ribadendo la specificità minorile, giunge ad estendere la competenza
degli organi giurisdizionali designati ad hoc per gli infradiciottenni anche se
hanno concorso con maggiorenni alla commissione del reato.
In un
secondo momento invece la Corte muta atteggiamento, probabilmente per
motivazioni di ordine politico e si limita a pronunce di << rigetto con
accertamento di incostituzionalità >>[30].
Nella
medesime pronunce tuttavia invita insistentemente il legislatore ad intervenire
per rimuovere una ingiustificata equiparazione tra soggetti adulti e minorenni,
contrastanti con gli articoli fondamentali della Carta Costituzionale in
materia di protezione della gioventù e di uguaglianza.
Tali
chiari intendimenti della Corte sono presenti nelle sentenze n. 125/1992
relativa alla richiesta di dichiarare l’illegittimità dell’art. 79 l. ord.
penit. e n. 168/1994[31]con
cui viene proclamata l’assoluta contrarietà della condanna di un minore
all’ergastolo ai basilari principi di umanità, ragionevolezza e proporzionalità
della pena, accentuati nel caso di autori di reati non maggiorenni.
In verità
questo slancio della Corte viene accolto con qualche perplessità dal momento
che ad un solo anno di distanza, precisamente nel 1993, la medesima questione
veniva dichiarata non ammissibile con la sentenza n. 140[32].
Di
recente invece la Corte Costituzionale si è orientata in maniera differente
tramite ripetute pronunce di accoglimento riferite a vari aspetti di una
disciplina, quale quella penitenziaria, inadatta ad un minore e bisognosa di
una urgente riforma.
Possiamo
ricordare dunque la sent. n. 109/1997[33]
che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 67 l. n. 689/ 1981 nella parte
relativa ai minori, perché esclude l’affidamento in prova e la semilibertà per
i condannati la cui pena detentiva derivi da conversione di pena sostitutiva
per violazione delle prescrizioni; la sent. n. 403/1997[34]
la cui pronuncia ha colpito l’art. 30 ter co. 5 l. ord. penit. ed infine la
sent. n. 450/1998[35]
sempre sui permessi premio e la sent. n. 436/1999[36]
con la quale la Corte dichiara incostituzionale l’art. 58 quater co. 2 L. ord.
penit. compiendo un ulteriore passo nel cammino di differenziazione dei
condannati minorenni rispetto a quelli adulti[37].
Credo sia
utile prendere atto di queste pronunce peraltro portatrici di una forte istanza
di cambiamento in un settore, quello penitenziario, in cui si registra la più
vistosa lacuna normativa esistente nel sistema penale minorile italiano[38].
Come ha
sottolineato giustamente la Corte Costituzionale in una delle sentenze sopra
riportate ( 168/1994 ) non è dato alla medesima Corte il potere di sostituirsi
al legislatore creando un sistema di pene, adeguato a soggetti ancora in fase
di formazione e alla ricerca della propria identità, e nei confronti dei quali
sia in grado di promuovere la volontà di accettazione delle regole più
importanti del consorzio sociale.
Al
momento attuale tuttavia l’ingiustificato silenzio del legislatore non è stato
interrotto.
2.6 Quale è il futuro della
giustizia minorile?
Nelle
pagine precedenti si è cercato di chiarire come il sistema di giustizia
minorile attualmente esistente non sia in grado di operare in maniera ottimale.
Pur riconoscendo la portata innovativa del d.p.r. n. 488/1988 non si può fare a
meno di auspicare un intervento del legislatore mirato in modo particolare ad
un settore, quello penitenziario, rimasto orfano di attenzioni dal lontano
1975.
L’obiettivo
primario della riforma del processo minorile del 1989 era l’introduzione nel
nostro sistema di un rito penale che non interrompesse “ i processi educativi
in atto ”, adeguando le norme alla personalità e alle esigenze educative del
minore oltre che alla sua eventuale e necessaria punizione. Deponeva in tal
senso l’istituto della messa alla prova
con le sue innovative capacità di coniugare educazione e punizione in contesti
non fisicamente contenitivi. Di conseguenza sembrava reale la possibilità di
allontanare il carcere per i minori autori di reato, accogliendo le indicazioni
della Corte Costituzionale e di vari consessi internazionali.
Oggi si
deve purtroppo constatare che le novità introdotte sono per molti versi non
concretamente fruibili, per lo meno per quei giovani imputati di origine
straniera che costituiscono la maggioranza della popolazione carceraria
minorile.
I
problemi maggiori sono legati ai contesti socioambientali di questi ragazzi e,
all’assenza di mezzi adeguati per impedire certe evidenti disuguaglianze di
trattamento. Purtroppo per fronteggiare la crescente criminalità minorile
straniera l’unica soluzione alternativa ad un giudizio indulgenziale è proprio
il carcere, quando già da qualche anno esperti e studiosi della materia si
confrontano e si interrogano sull’utilità della istituzionalizzazione come
misura in grado di dare una valida risposta alla devianza minorile. Infatti la
tendenza in atto si connota per una progressiva rinuncia del penale
penitenziario come sistema egemone di disciplina sociale dei minori.
In tal
senso sembrano indirizzare le cosiddette tesi di Brema, presentate al
XIV Congresso dell’Associazione internazionale dei magistrati della gioventù e
della famiglia ( Aimjf )[39].
Tali
enunciati sono chiaramente orientati verso il promuovimento del diritto penale
minorile come diritto necessariamente autonomo rispetto a quello previsto per
gli adulti ( n. 1).
Inoltre
viene auspicato un intervento verso la delinquenza minorile che benefici di un
sistema di afflittività progressiva all’interno del quale privilegiare la
riparazione dei danni e la composizione del conflitto tra autore e vittima ad
ogni stadio della procedura ( 12 ); dunque pene detentive di durata limitata e
ricorso al carcere solo nei casi di grave e ripetuta violazione della norma (
15, 30 ).
Le
indicazioni dell’ Aimjf sono precise ed inequivocabili, tuttavia l’Italia
stenta ad attivarsi nel senso di una riforma da più parti auspicata. Si possono
registrare solo alcuni timidi tentativi in tal senso, senza peraltro alcun
seguito a quel che è dato conoscere. Il riferimento è in primis al progetto di
legge Martinazzoli su un autonomo ordinamento penale minorile naufragato con il
termine della legislatura, e al più recente d.d.l. n. 7225 del 18 Luglio 2000[40]assegnato
alla II Commissione Giustizia in sede referente.
Il d.d.l.
rappresenta ad onor del vero un tentativo di recepimento delle varie sentenze
della Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi in merito all’art. 79 della
l. ord. penit., e all’applicazione alquanto problematica delle misure
alternative ai minori di età autori di illeciti penali.
All’interno
della relazione al d.d.l. si legge chiaramente l’intenzione di un adeguamento
delle forme del trattamento che accentui le opportunità di recupero in soggetti
dalla evidente fragilità psicofisica insieme ad una verifica costante
dell’utilità di una pretesa punitiva da attuarsi attraverso la totale
privazione della libertà personale.
L’obiettivo
principale del progetto è quello di strutturare, senza il ricorso alla
detenzione intramuraria, un sistema di misure adattabili alle opportunità,
spesso mutevoli di recupero, offerte dai servizi territoriali e soprattutto
alle risposte del minorenne.
Inoltre
merita di essere sottolineata la menzione, fatta con riferimento a tali nuove
possibilità, di prescrizioni relative all’attivazione di forme di giustizia
riparativa attraverso prestazioni a favore della vittima del reato o della
collettività.
Quanto
allo strumento principe per attuare un tale positivo cambiamento, la relazione
prende in considerazione un articolato sistema di norme di carattere
regolamentare, dettagliato e di pronta ricezione.
Questo
schema ha delle notevoli potenzialità e sembrerebbe in grado di dare finalmente
avvio ad una strategia complessiva di presa in carico di un disagio giovanile
che assume forme a volte diversissime nelle varie aree del nostro paese,
imponendo un intervento che fronteggi il rischio sociale conseguente e offra
contemporaneamente un sistema di giustizia e forme di esecuzione interamente
ripensati.
CAPITOLO III
I principi di giustizia riparativa: i nuovi scenari della giustizia penale minorile
3.1 Sistema sanzionatorio minorile: è tempo di
riforme
La
criminalità minorile, come risulta dai dati raccolti e oggettivamente
interpretati, è un fenomeno che conosce un forte dinamismo al suo interno,
arricchendo la pratica di episodi diversi e di forte impatto sociale. La “
maladolescenza ”, come qualcuno l’ha definita[41],
ha cambiato volto e di conseguenza si rende necessario un intervento mirato per
abbattere quanto meno la soglia di recidiva, offrendo risposte sanzionatorie
più aderenti e funzionali al singolo caso.
Al momento
attuale le indicazioni per una riforma vanno verso il settore dell’esecuzione:
da molto tempo i giudici e gli operatori minorili discutono sulla possibilità
di realizzazione di un ordinamento penitenziario autonomo per i minorenni[42].
E questo, nonostante le recenti tendenze di politica penale internazionale
siano contenutisticamente orientate verso un sostanziale rifiuto
dell’istituzione totale, universalmente considerata fallimentare dal punto di
vista educativo, << produttrice di elevata disgregazione nei suoi utenti,
e nettamente passiva in termini economici, politici e sociali >>[43].
Tuttavia
è stato giustamente osservato come in assenza di risposte sanzionatorie tipiche
per la devianza dei più piccoli, il carcere e dunque la pena detentiva conserva
il primato indiscusso[44].
Infatti la legge penale prevede per gli autori di reati, adulti o minorenni,
risposte non diversificate e, a parte le recenti modifiche ed innovazioni in
tema di misure alternative e sanzioni sostitutive[45],
il nostro ordinamento basa la sua reazione all’illecito penale sulle categorie
tradizionali della pena detentiva e della pena pecuniaria.
Gli unici
correttivi a favore dei minori poggiano sulla eliminazione per gli stessi della
pena dell’ergastolo e della pena pecuniaria come sanzione sostitutiva. In caso
poi di riconosciuta imputabilità è previsto il solo meccanismo della
diminuzione della pena fino ad un terzo[46].
Di
conseguenza i minori continuano ad andare in carcere, vanificando le migliori
intenzioni che il nuovo rito penale del 1989 intendeva perseguire, con
l’introduzione di congegni processuali dai riflessi di natura sostanziale, in
grado di rendere il ricorso all’istituzionalizzazione una scelta marginale[47].
Preso
atto di tale realtà è indispensabile introdurre una riflessione, in quanto se
l’obiettivo da perseguire è una riforma penitenziaria non apparente, occorre in
primis individuare il sistema sanzionatorio di riferimento. Tutti i regolamenti
penitenziari dell’Italia postunitaria hanno visto la luce in seguito a riforme di
natura sostanziale e processuale, eccezion fatta per le leggi di ordinamento
penitenziario del 1975 e del 1986, nate autonomamente per l’improponibile
intervento anche sul sistema penale[48].
La sola
alternativa immaginabile sarebbe quella di procedere ricalcando la strada
aperta dalla l. Gozzini, utilizzando la riforma penitenziaria come occasione di
intervento anche sul sistema sanzionatorio, con l’accorgimento di collocare le
nuove norme sostanziali e procedurali nelle apposite sedi codicistiche, servendosi
di quei bis, ter, quater già sperimentati nella nostra legislazione[49].
Comunque
si decida di procedere, rimane fermo il fatto che l’attuale sistema
sanzionatorio non solo è poco rispettoso del dato costituzionale, ma è distante
dalla scelta compiuta da diversi paesi europei che hanno inteso affidarsi, in
caso di devianza minorile, a risposte calibrate e adeguate, di valido supporto
al reinserimento sociale del soggetto[50].
Naturalmente
non è semplice costruire risposte sanzionatorie valide ed efficaci che prevedano
il ricorso al carcere solo in via residuale.
Al fine
di una loro più puntuale individuazione potrebbe risultare agevole ricordare
ciò che la Corte Costituzionale ha affermato riguardo alla giusta
configurazione delle pene minorili.
Il
giudice delle leggi ha sentenziato che la tutela del minore è un interesse
costituzionalmente preminente e dunque, in caso di commissione di reati, il
compito della giustizia minorile deve essere improntato al recupero del minore
deviante, attraverso la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale[51].
Tale
scopo deve essere perseguito in tutti i momenti in cui la giurisdizione si
esplica nei confronti dei minori.
Se questo
è vero allora anche la fase esecutiva deve essere improntata, nel rispetto dei
suoi limiti naturali, ad un intervento positivo sul minore nell’ottica di
rieducazione.
Tuttavia
un intervento di tale tipo richiede una disciplina specifica e flessibile che
tutt’oggi manca, perché il trattamento penitenziario minorile conosce solo le
misure alternative e gli istituti premiali previsti per gli adulti.
La Corte
ha manifestato il suo pensiero circa la necessità di un trattamento
diversificato del minore in occasione della pronuncia con cui ha proclamato la
pena dell’ergastolo, incompatibile con la minore età e dunque inaccettabile[52].
La Corte ha così espresso, al di là di ogni ragionevole dubbio,
l’insopprimibile esigenza di mutare il segno del principio immanente alla pena,
richiedendo risposte non rieducative, ma educative nel pieno rispetto dell’art.
31² della Costituzione.
Tale
conclusione si basa su di una raffinata tecnica interpretativa che vede
l’innesto del precetto costituzionale diretto alla tutela dell’infanzia e della
gioventù da parte dello Stato sull’art. 27³ della Costituzione.
Il
risultato riveste un enorme importanza con riferimento al significato che la
pena deve assumere nei confronti dei minori; infatti mentre per gli adulti è
sufficiente la predisposizione di congegni sanzionatori rispettosi del precetto
dell’art. 27³ Cost., la prospettiva muta quando si tratta di personalità ancora
in formazione. Per questi ultimi casi non è sufficiente predisporre pene
rieducative, bensì meccanismi educativi che devono trovare nell’art. 31² Cost.
il loro parametro di riferimento ideale[53].
Tra le
considerazioni in diritto merita di essere considerato il passaggio in cui la
Corte sottolinea come l’esistenza di provvidenze nei confronti dei minori, la
fruibilità di determinati benefici durante l’esecuzione o la possibilità di
accesso alla liberazione condizionale in qualunque momento, abbiano soddisfatto
la previsione dell’art. 27³ della Cost. relativamente al trattamento dallo
stesso auspicato[54].
o Ma alla
luce delle nuove considerazioni tali istituti non appianano le riserve dal
punto di vista dell’art. 31 comma 2 della Costituzione.
Appare dunque lecito leggere
in questo sviluppo interpretativo l’intendimento della Corte Costituzionale di
indirizzare il legislatore verso percorsi sanzionatori, utilizzabili a
fianco del carcere e destinati sempre più a sostituirlo.
In fin dei conti il carcere
storicamente non nasce come pena, bensì come strumento per assicurare
l’imputato al processo, e solo successivamente è maturata la convinzione della
sua efficacia in funzione di castigo e di deterrente per colui che si è reso responsabile
di un grave delitto[55].
L’evoluzione della scienza
giuridica più recente ha invece confermato quanti e gravi danni l’istituzione
totale è capace di produrre su coloro che si trovino a contatto con quel luogo
chiuso, fisso ed impenetrabile come le mura che lo circondano.
Un’immagine di tale tipo
diventa ancora più esaustiva quando viene trasferita in ambito minorile,
essendo forte la convinzione che il carcere sia decisamente inadeguato a
provocare positivi cambiamenti. In un ambiente di questo tipo esiste il rischio
concreto per il ragazzo di subire condizionamenti e stimoli negativi,
alimentati dalla necessità, per sopravvivere, di stringere o subire l’alleanza
dei compagni[56].
Ciononostante quando la
devianza raggiunge i massimi livelli e diventa una vera e propria condotta di
vita, ispirata al pieno disprezzo della legalità e della propria ed altrui
esistenza, sembra quasi impossibile trovare delle risposte alternative che
risolvano il problema delle esigenze di difesa collettiva e, contemporaneamente,
soddisfino attività di recupero del minore deviante[57].
Accanto a tali casi –
limite, bisogna tener conto poi della nutrita schiera di minorenni stranieri
presenti in carcere in netta prevalenza rispetto all’utenza italiana[58].
Per questi ragazzi occorrono misure ancora più specifiche in considerazione
della diversa cultura di appartenenza e alla quasi totale assenza di figure
famigliari di riferimento[59].
Inoltre gli attacchi quasi
quotidiani di una stampa giornalistica poco obiettiva e talora di parte verso
l’opera dei magistrati minorili, accusati di eccessiva benevolenza e troppa
disinvoltura nel risolvere complesse e drammatiche vicende che vedono i minori
coinvolti come responsabili, non facilita naturalmente il dialogo pubblico sul
più classico argomento di contrapposizione di ogni forma di trattamento esterno
e, cioè, i legittimi diritti di rivalsa della o delle vittime[60].
I criteri di ammorbidimento
e di apertura delle pratiche penitenziarie mal si sposano infatti con i
desideri di ottenere giustizia da parte di chi ha subito un danno, morale o
materiale, in seguito al reato.
Come si evince da quanto
detto, rimane aperto il dibattito sul mantenimento del carcere fra le strutture
più rispondenti a perseguire la delinquenza minorile, ma rimane la volontà di
molti di scoprire se esistono strade diverse per liberare la punizione dai “
ferri della prigione ”[61]e
assicurare la disponibilità di strumenti sanzionatori, accettabili e
socialmente legittimati.
3.2 Le misure alternative
alla detenzione minorile
Oggi è in atto una nuova e
fertile osservazione sui temi della punizione della devianza minorile, grazie
alla quale è obiettivamente riconoscibile una tendenza ad impiegare in modo
esteso tutte le risorse alternative alla pena[62].
Le riflessioni sulla pena vanno in realtà in diverse direzioni, anche se è
doveroso sottolineare come l’evoluzione verso una criminologia alternativa
consti soprattutto di alcuni punti centrali di riferimento. A titolo di
esempio, basta ricordare l’analisi delle istituzioni penitenziarie e la
conseguente tendenza a sviluppare forme di trattamento non istituzionalizzanti
nei confronti della devianza in genere, nonché lo sviluppo della vittimologia,
con una crescente attenzione alla problematica delle vittime del reato e la
loro tutela. Tali recenti acquisizioni, insieme al riconoscimento del
fallimento dei miti rieducativi sono state di apprezzabile sostegno al
concretizzarsi dell’idea di una esecuzione penale alternativa all’istituzione
ed ad essa esterna.
Le linee-guida più
significative di questi studi, diretti alla concretizzazione di misure
sanzionatorie diverse dalle tradizionali, propongono il raggiungimento e la non
sempre facile conciliazione dei seguenti obiettivi[63]:
§
far
prendere coscienza del fatto illecito, del danno provocato, dell’ esistenza
delle vittime;
§
favorire
il distacco dall’ambiente criminogeno in cui il soggetto conduce la propria
esistenza: in simili circostanze si può e si deve ricorrere anche a misure
limitative o privative della libertà, per isolare il minore da un contesto solo
apparente di libertà[64];
§
evitare
di alimentare il circuito delle identificazione negativa;
§
fornire
occasioni in positivo di responsabilità, socializzazione e di rapporto e
confronto con adulti credibili. Ad ogni ragazzo deve essere offerta
l’opportunità per dimostrare a se stesso di essere capace di “ azioni
socialmente utili ”.
Le premesse sono molto
ambiziose, tuttavia l’uso corretto delle alternative riserva degli spazi di
apertura non indifferenti, anche se la consapevolezza in ordine a tali
invitanti scenari non è così diffusa[65].
Prima di esaminare quali
variazioni, sul tema delle sanzioni minorili, sono praticabili si rende
indispensabile una precisazione circa l’utilizzo del termine alternativa
in differenti accezioni.
Nel tentativo di orientarci
nel << ginepraio delle distinzioni tra le misure sanzionatorie adottate
in conseguenza di un fatto di reato commesso da un minorenne >>[66],
possiamo distinguere due tipi di alternative: quelle individuate dalla L. di
ord. penit. n. 354/1975 e le pene limitative della libertà personale, anche
definite alternative in senso proprio[67].
Le prime si fondano su di un sinallagma, una sorta di scambio: lo Stato cede la sua pretesa punitiva in cambio della “ promessa ”del reo ad impegnarsi in un cammino di risocializzazione e di rinuncia alla sua predisposizione al reato[68]. Tali figure sono riconducibili allo schema del probation, mutuato dalla esperienza dei paesi di origine anglosassone, nonostante sia rilevabile una certa improprietà nelle qualificazione del probation come pena alternativa[69].
Appartengono a detta
categoria gli istituti collocati sistematicamente nel Titolo I Capo VI della
legge del 1975, trattandosi dell’affidamento in prova al servizio sociale (
art. 47 ), della detenzione domiciliare
(art. 47 ter ), della semilibertà ( artt. 48-52 ) e della liberazione
anticipata ( art. 54 ). Completa il quadro la liberazione condizionale
disciplinata dagli artt. 176, 177 del c.p., perché introdotta dal codice
Zanardelli ( 1889) e apprezzabile ai fini della gestione carceraria e della
risocializzazione del detenuto[70].
Tuttavia le misure del Capo
VI, a cui per volontà legislativa appartiene il nomen iuris di
alternative alla detenzione, non sono le sole ispirate al principio di utilità
sociale della pena. Sull’applicazione di tale postulato si basa la funzione
delle sanzioni sostitutive introdotte dalla L. 689/1981; la semidetenzione, la
libertà controllata e la pena pecuniaria trovano conferma grazie all’esperienza
maturata riguardo l’inutilità delle pene detentive brevi.
Le sanzioni definite dalla
normativa come sostitutive o alternative nascono in realtà come pene detentive,
e assumono una diversa connotazione solo in virtù di una trasformazione della
medesima, rispettivamente contestuale e successiva, pronte a riconvertirsi in
carcere in caso di inosservanza delle prescrizioni che le caratterizzano[71].
Di contro con l’espressione
“ alternative in senso proprio ” si intende far riferimento a pene
ontologicamente e sin ab initio diverse dalla detenzione, ma pur sempre
incidenti sulle autonome scelte individuali.
Ad avviso di vari autori[72]
è proprio quest’ultimo il settore dal quale attingere contributi preziosi per
trasferire la reazione penale alla devianza minorile dai rigori della
limitazione spazio – temporale ai più responsabilizzanti orizzonti di
attivazione personale per rimediare, ancora meglio, riparare all’azione
negativa del reato.
Le misure in oggetto si
differenziano infatti da quelle conosciute e praticate fino ad oggi nel nostro
sistema legislativo, perché con esse non si richiede il cambiamento del
soggetto o del suo sistema di vita – operazione troppo pretenziosa e spesso
illusoria – bensì, più realisticamente l’esecuzione puntuale di una sanzione
diversa dal carcere, ritenuta sufficientemente retributiva e ricca di valenze
educative.
Nelle ipotesi di pena
comportante un facere, quale ad esempio lo svolgimento di un lavoro di
pubblica utilità, l’adoperarsi in favore di determinate categorie di persone
deboli e disagiate, la riparazione diretta o indiretta del danno scaturito
dalla commissione del reato, deve comunque rimanere fermo un punto
fondamentale, ossia è necessario il consenso dell’interessato, senza il quale
la misura stessa si svuota di significato[73].
Per fornire una leale
rappresentazione dell’odierno stato di salute delle alternative “ ospitate ”
nell’ordinamento penitenziario, si deve sottolineare che la normativa ha
portato l’esecuzione penale esterna ad una notevole diversificazione. Tuttavia
non si può fare a meno di segnalare la persistenza di limiti, ambiguità e
contraddizioni nella prassi applicativa degli istituti sopra ricordati[74].
Per essere più espliciti
alcune delle figure prese in considerazione ( in particolare l’affidamento )
sono ritagliate su misura per un certo tipo di utenza con problematiche di
emarginazione, di disadattamento personale e sociale e di difficoltà di
inserimento. Di conseguenza hanno più probabilità di successo se disposte nei
confronti dei loro naturali destinatari; malgrado ciò spesso questi ultimi non
riescono ad usufruirne per la mancanza di alcuni punti fissi di riferimento a
cui è subordinato l’accesso a tali istituti[75].
Occorre mettere in campo
ogni risorsa e impiegare tutta la fantasia di cui si è capaci per potenziare
queste misure, perché vengano attentamente mirate e differenziate e si aprano a
contenuti e prescrizioni che aiutino ad educare e responsabilizzare il minore
nei confronti delle vittime della propria violazione in prima battuta, e nei
confronti della società nel suo complesso.
E’ stato sostenuto che il
diritto penale dovrebbe mantenere nel settore minorile aspirazioni modeste[76],
dunque non rimane altro se non concentrare l’attenzione sui quei principi di
mediazione e riparazione, così cari a tutti i sistemi avanzati di giustizia dei
minori.
3.3 La giustizia riparativa e la mediazione come nuovi modelli di giustizia in ambito minorile
3.3.1 La giustizia
riparativa: origini e sviluppi
L’amministrazione della giustizia ha cambiato spesso volto nel corso degli anni, ispirandosi nella sua applicazione concreta a modelli di intervento divergenti per oggetto, mezzi, obiettivi, e riconducibili a scelte politiche e ad orientamenti filosofici che hanno contribuito, di volta in volta, al loro affermarsi o al loro declino.
L’azione giudiziaria è stata
condotta sostanzialmente sulla base di tre forme di composizione dei conflitti:
il modello retributivo, quello riabilitativo, e il riparativo37.
Nel primo modello
l’attenzione è focalizzata sul reato e, una volta accertata la colpevolezza del
soggetto, lo si persegue tramite l’applicazione della giusta punizione, spesso
consistente nella privazione della libertà personale. La retribuzione è
espressione di una giustizia rigida e repressiva, riconducibile a forme di
vendetta privata proprie delle società arcaiche e delle civiltà culturalmente
poco sviluppate. Nelle società moderne permane questa volontà di “ far pagare
il male con il male ”, ma tale compito viene assunto dallo Stato, attraverso la
previsione di riti di risarcimento consistenti in forme di sofferenza da
infliggere al reo come retribuzione sociale38.
Il modello riabilitativo
invece, si prefigge lo scopo di modificare il comportamento deviante, e dunque
oggetto centrale dell’intervento è l’autore del reato sul quale si cerca di
agire con l’utilizzo di strumenti e tecniche conseguite dopo l’ingresso delle
scienze psicologiche e sociologiche nell’area del trattamento della delinquenza39.
La riparazione rappresenta
l’ultimo in ordine temporale dei modelli di giustizia a cui si è fatto appello
per tentare di superare la situazione di disagio creatasi nel settore penale a
seguito dell’acquisita consapevolezza dell’inefficacia delle politiche
precedentemente adottate. La giustizia riparativa è portatrice di una visione
nuova del reato, non più considerato come offesa nei confronti dello Stato,
quanto piuttosto come lesione dei diritti della persona; grazie a questa
costruzione vengono considerati nella giusta prospettiva i danni provocati dal
delitto, prevedendo azioni del reo dirette a reintegrare l’offesa patrimoniale
e morale inferta con il proprio atto. Di recente elaborazione tale modalità
vanta tuttavia origini antiche, riconducibili ad un progetto di comunità
pre-statuale in cui le offese erano fatti che riguardavano la vittima e
l’aggressore, senza alcuna ingerenza da parte dello Stato.40 Infatti il concetto di restituzione,
intesa come forma di risarcimento economico alla vittima da parte di chi le ha
ingiustamente provocato un danno, era presente nello schema normativo di grandi
civiltà passate; già il Codice di Hammurabi del 1700 a.C. prevedeva la
restituzione per alcuni reati contro la proprietà, mentre la Legge romana delle
Dodici Tavole ( 449 a.C. ) stabiliva che i ladri condannati pagassero il doppio
del valore dei beni rubati, con meccanismi di aumento della sanzione in caso di
mancata collaborazione o di ostruzionismo da parte del colpevole41.
Ancora, la Lex Salica
del 496 d.C., prima raccolta di leggi tribali germaniche accoglieva per alcuni
tipi di reato tale meccanismo sanzionatorio, che ritroviamo anche
nell’Inghilterra del 600 dove venivano elaborati appositi sistemi di
compensazione con dettagliate tabelle per la valutazione del danno42.
Dunque la riparazione non è
sconosciuta come tecnica di giustizia, anche se viene abbandonata, a partire
dal Medioevo per ricorrere a modelli basati sulla reazione forte e
accentratrice di coloro che governano in quei secoli bui e violenti, scossi da
guerre e lotte senza quartiere per la conquista del potere politico, militare ed
economico.
Con l’affermarsi dello stato
moderno la situazione non muta, anzi si rafforza la convinzione che per rendere
il potenziale delinquente rispettoso della legge è necessario agire con pene e
sanzioni esemplari, in grado di ridurre la probabilità di futuri crimini,
dirette in un primo tempo, alla neutralizzazione e alla deterrenza del soggetto
deviato, poi, più recentemente alla sua
rieducazione43.
L’idea di una forma
riparativa di giustizia riprese vigore all’inizio degli anni cinquanta, quando
alcuni giudici interessati a tale figura emisero sentenze con le quali imposero
ai delinquenti il pagamento di una somma di denaro o la prestazione di un
servizio a favore della vittima se esistente e consenziente, ovvero alla
comunità al fine di riparare simbolicamente o materialmente il danno causato
dal crimine44.
Ma quale tipo di riferimento
filosofico supporta la convinzione che un modello di giustizia, come quello in
esame possa risultare vincente laddove altre tecniche, pur forti di
apprezzabili riscontri si sono rivelati inadeguati? La risposta è piuttosto
articolata, in quanto l’idea di una giustizia riparativa non è appannaggio di
una corrente ben determinata, bensì è presente all’interno sia dei movimenti
abolizionisti, sia in quelli maggiormente legati al concetto di riabilitazione45.
Il movimento abolizionista è
a sua volta distinto in due correnti: l’abolizionismo radicale e
l’abolizionismo istituzionale. Il primo si fa portavoce del progressivo
abbattimento di tutte le istituzioni chiuse e segreganti in nome di un
controllo sociale esercitato tramite l’uso di formule più morbide e
umanizzanti; il secondo propone l’eliminazione delle strutture carcerarie senza
rinunciare per questo al sistema di giustizia penale. Proprio a quest’ultima
concezione viene ricondotto il modello riparativo, mentre altri autori invece
ritengono contrariamente che la riparazione sia il risultato della osservazione
empirica condotta dal movimento definito come New Realism, di origine
anglosassone. Attraverso le loro ricerche i new realist registrano una
maggior propensione alla delinquenza da parte delle classi sociali meno
abbienti, da cui provengono però anche forti richieste di difesa sociale contro
gli episodi violenti provocati dalla marginalizzazione. Da questo assunto partono
le loro proposte di politica criminale, che prevedono misure alternative alla
detenzione, programmi di conciliazione vittima – autore, l’organizzazione di
servizi di quartiere in ausilio alle forze di polizia, insieme ad altri
strumenti riduttivi delle disuguaglianze sociali cause prime dell’avanzata del
crimine46.
Ai giorni nostri si cerca di
approfondire il concetto di riparazione a seguito dell’esigenza riscontrata da
più parti di affidarsi, per l’amministrazione della giustizia, a metodi nuovi, alternativi
e più puntuali nella offerta di risposte concrete alle richiesta di difesa
sociale e a quelle della vittima, per lungo tempo non considerate.
Spesso la punizione del
colpevole ad opera dello Stato, secondo i modelli retributivo e riabilitativo non
rende alcuna giustizia alla vittima del reato, ed inoltre frequentemente la
potestà repressiva statuale non sortisce neppure l’effetto di scongiurare il
pericolo di commissione di futuri crimini. La riflessione in tal senso e il
disagio manifestato dalle strutture proprie del Welfare State di far
fronte al crescente aumento di forme meno note di delinquenza sembra aver
rafforzato la tendenza ad un impiego più puntuale dei principi riparativi.
In più gli assunti della
scienza vittiminologica47, più
attenta ai bisogni delle vittime dei reati, hanno giocato un ruolo
preponderante verso il riconoscimento diffuso delle potenzialità della
giustizia riparativa come modalità di risoluzione dei conflitti e di ripristino
dell’ordine violato.
Grazie al paradigma riparativo
la vittima del reato e il suo autore divengono attivi protagonisti della
rielaborazione del vissuto originato dall’atto criminoso; la “ pretesa punitiva
” dello Stato passa in secondo piano, perché il sistema è finalizzato
all’individuazione di una soluzione che possa ristorare ( di qui la definizione
restorative justice ) materialmente e moralmente la vittima,
responsabilizzando allo stesso tempo costruttivamente il reo48.
Proprio da questo dualismo attivo vittima – autore traspare
l’originalità della proposta riparativa che coglie la possibilità di restituire
ai protagonisti del fatto illecito il potere, la responsabilità e l’impegno di
ristabilire un contatto corretto49.
La riparazione, inoltre, è capace di sviluppare al suo interno
tipologie di attuazione differenziate che le attribuiscono la qualifica di
modello onnicomprensivo con più anime50.
Si è detto, infatti, che la giustizia riparativa corrisponde ad un
diverso modo di intendere la pena, la sanzione e fa riferimento ad un modello
di società basato sulla riconquista da parte della collettività del ruolo
primario nella gestione dei conflitti, sottratto all’azione autoritaria
statuale. Ciononostante qualcuno si è domandato se non sia possibile conciliare
il concetto di riparazione con quello di pena, se cioè la giustizia riparativa
possa realizzarsi anche attraverso modalità alternative di applicazione della
pena.
La domanda è nata in seguito
alla constatazione, che i principi innovativi contenuti nella figura non
abbandonano totalmente l’ideale riabilitativo; anzi da quest’ultimo sono tratti
i contesti normativi (quelli regolanti le misure alternative) e le modalità
applicative del nuovo modello, quali il risarcimento materiale del danno, il
lavoro gratuito di pubblica utilità, la riconciliazione simbolica con la
vittima del reato, nonché figure professionali che possano gestire i modi e i
contesti prescelti51.
Il pluralismo metodologico e il notevole campo di sperimentazione fanno della riparazione uno strumento assai valido per una ridefinizione del campo della giustizia in generale e di quella minorile in particolare, bisognosa di trovare delle basi costruttive per aiutare i minori, con gravi problemi di accettazione delle regole della civile convivenza, ad evitare un peggioramento delle opportunità di recupero e di integrazione.
E’ vero che l’obiettivo
principale della giustizia riparativa è quello di dare il massimo spazio ai
bisogni e alle richieste delle vittime di episodi criminosi, ma persegue anche
finalità diverse quali, ad esempio, la possibilità di approntare una misura
penale percepita come equa dal reo, perché inflitta dal soggetto che ha
patito il danno e, inoltre, si connota di una forte valenza educativa per quel
senso di vergogna, capace di far comprendere il disvalore dell’atto criminoso a
colui che lo ha commesso52.
Molti paesi europei non
hanno perso tempo e le sperimentazioni positive hanno sancito a livello
legislativo l’utilizzo della riparazione come modello principe di intervento
nel circuito della delinquenza minorile, e implicitamente legittimato tutti i
percorsi rinvenibili al suo interno. Fra questi si colloca sicuramente la
mediazione, considerata appunto una delle tecniche o, meglio dei linguaggi più
efficaci della giustizia riparativa53.
3.3.2 La mediazione
Letteralmente la parola mediazione
indica il porsi in mezzo, l’attività di interposizione tra più parti; in
linea con questa codificazione si colloca la norma del Codice civile54 che qualifica il mediatore come
<< colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di
un affare, senza essere legato ad alcuna da rapporti di collaborazione, di
dipendenza e di rappresentanza >> ostativi dell’imparzialità
propria del ruolo assunto.
Nel linguaggio corrente per
mediazione s’intende invece l’attività di composizione di interessi
effettivamente o potenzialmente in conflitto55.
In sintesi la mediazione si
presenta dunque come tecnica di incontro – confronto fra due o più parti, allo
scopo di risolvere una questione pubblica o privata, riguardo alla quale è
sorta una controversia suscettibile di assumere differente rilevanza a seconda
del contesto di riferimento.
La tematica riveste una
notevole importanza se rapportata alla realtà concreta, spesso teatro di
relazioni sociali problematiche e di altrettanti complessi tentativi di
gestione dei conflitti che da questi rapporti scaturiscono. Al momento attuale
è l’istituzione giudiziaria e l’apparato che la governa, a conservare il ruolo
di sede privilegiata per la composizione di interessi contrapposti, nonostante
il clima di generale insoddisfazione e le critiche a volte feroci di lentezza e
di eccessivo formalismo56.
Rebus sic stantibus è naturale soffermarsi con
rinnovata attenzione sulle ultime scoperte della scienza giuridica moderna per
tentare di rimediare ad un potere giudiziario ipertrofico, sintomatica
espressione di una crisi più vasta che abbraccia l’intero sistema, coinvolgendo
le più importanti agenzie sociali. Infatti il crollo delle strutture intermedie
fra lo Stato e la società civile mostra che l’intervento della giustizia è
invocato sempre più spesso per regolare conflitti che non costituiscono
infrazioni penali, e la cui risoluzione discende più da interventi di carattere
sociale che da un’azione giudiziaria classica57.
Per un esercizio più agile della giustizia e, per allentare la pressione sui
vari Tribunali italiani dovuta all’eccessivo carico di contenzioso, è stata
introdotta la normativa del d.l. 28 agosto 2000 n. 274 che, con riferimento
alle competenze penali del Giudice di Pace, ha ampliato il campo di intervento
di tale organo e, nel contempo ha recepito modalità tipiche della filosofia
mediativa, creando in questo modo una collocazione trattamentale idonea per
quei conflitti di lieve o media entità di cui i Giudici di Pace di solito si occupano58.
Nella medesima direzione si
muovono i tentativi di conciliare il modello riparativo e la mediazione con il
settore minorile, maggiormente interessato a tecniche di recupero educative,
responsabilizzanti e meno afflittive. In altri termini: il penale minorile può
e deve diventare terreno di coltura del diritto mite; la giustizia mite59 si sviluppa lungo i sentieri delle
alternative alla pena, se non addirittura delle alternative alla giurisdizione
penale, e in questo senso coincide con la giustizia riparativa in tutte le sue
forme ed espressioni.
La pratica della mediazione
diretta alla ricomposizione del conflitto fra vittima del reato e suo autore si
è diffusa, a partire dalla metà degli anni ’70 negli Stati Uniti, nel Canada,
in Australia e nel Nord Europa e i programmi fioriti negli ultimi venti anni
hanno conosciuto un notevole sviluppo perché favoriti dalla creazione di alcune
normative volte a favorire la risoluzione extragiudiziale dei conflitti60.
Il primo articolato
programma di mediazione è rappresentato dal VORP ( Victim - Offender
Reconciliation Program ) utilizzato per la prima volta in Canada nel 1974 per
regolare la condotta di due giovani, accusati di atti vandalici nella città di
Kitchener in Ontario. Il giudice in quel caso ha imposto ai soggetti il
pagamento di una somma di denaro a titolo di restituzione in favore delle
vittime e ha altresì disposto una probation di 18 mesi durante la quale si è
svolto un incontro fra autori e vittime del reato. La valutazione globale dell’esperimento
è risultata positiva e da lì si è diffusa in tutti gli Stati Uniti fino ad
approdare anche in Europa61.
Al fine di meglio
comprendere le coordinate fondamentali della figura e gli obiettivi che rendono
la mediazione l’esempio più chiaro e rappresentativo della giustizia
riparativa, è bene far riferimento ad una definizione coniata nei primi anni
’90 in Francia, dove la ricerca di soluzioni per superare il sistema di
regolazione dei comportamenti imperniato sull’esercizio del potere giudiziario
è da sempre molto attiva62. La
mediazione viene spiegata secondo una brillante sintesi come << il
processo, il più delle volte formale, con il quale un terzo neutrale tenta,
mediante scambi tra le parti, di permettere a queste ultime di confrontare i
loro punti di vista e di cercare, con il suo aiuto, una soluzione al conflitto
che li oppone >>63.
La mediazione è
un’alternativa conciliativa forte il cui scopo è quello di aprire le persone
alla comunicazione, di spingerle al dialogo, perché anche se può apparire
paradossale in un’epoca come quella attuale, dominata dai mezzi di
comunicazione di massa, si è persa la capacità di parlare, di interagire
positivamente con l’altro. La mediazione restituisce questo spazio di incontro
fra due soggetti, uniti dal reato concepito qui come vicenda umana
relazionabile64.
3.3.3 Potenzialità della mediazione-riparazione nel
recupero degli adolescenti da parte del sistema giudiziario
La mediazione e più in
generale le misure riparative possiedono le caratteristiche e le potenzialità
per essere accolte con buone prospettive all’interno del sistema penale
minorile.
Difatti i principi guida
delle tecniche di giustizia riparativa ben si sposano con gli obiettivi di un
intervento penale morbido nel minorile, ricco di ampi margini di flessibilità,
come vogliono le direttive nate in vari sedi internazionali65.
La tesi si basa su di una
serie di elementi stimolanti che inducono a scommettere sulla
mediazione-riparazione come modello d’intervento ad hoc su minori
responsabili di reati, essendo in grado di offrire una vasta gamma di
contributi per un recupero più concreto dell’adolescente.
Un primo segnale positivo è
individuato nella capacità della mediazione di coinvolgere il contesto sociale
e di attivarlo per ridurre la delega del problema all’autorità giudiziaria,
contemporaneamente supportando l’assunzione di responsabilità da parte della
comunità, quasi sempre indifferente o passiva66.
Per ciò che concerne invece
i rapporti fra vittima e reo la mediazione permette un avvicinamento delle
posizioni; i protagonisti della vicenda penale non hanno mai, nel procedimento
tradizionale, la possibilità di incontrarsi, in quanto i ruoli loro assegnati
sono concepiti proprio per escludere qualsiasi tipo di contatto. La mediazione
ha lo scopo di “ spogliare ” questi soggetti dal ruolo di parti, per restituire
loro la possibilità di incontrarsi come persone che condividono una storia di
dolore, anche se diversamente vissuta67.
L’incontro con la vittima
può aiutare il reo a cogliere gli effetti di un’azione che potrebbe essersi
rappresentato come inanimata, cioè non diretta ad una persona in carne ed ossa.
Il confronto con la vittima reale che esprime la sua sofferenza, e le emozioni
provate in relazione alla violenza o all’abuso subito restituisce una
dimensione umana al gesto commesso, suscitando nel minore un sincero senso di
colpa e di vergogna indispensabili per comprendere l’errore/orrore del
comportamento tenuto.
In questa occasione si può
cercare con l’adolescente di dare un nome a ciò che ha fatto, la turbolenza che
ha portato il ragazzo al reato può essere aiutata a passare da uno stato
indefinito ad una maggior chiarezza68.
La mediazione gioca un ruolo
fondamentale nel trattamento di adolescenti che commettono reati, perché, pur
essendo pericoloso operare generalizzazioni in questo contesto, l’adolescenza è
per comune ammissione un periodo della vita molto conflittuale e di certo la
società odierna non fornisce ai ragazzi impulsi positivi, spesso abbandonandoli
a loro stessi.
Inoltre questo percorso
comporta benefici anche e soprattutto per la vittima, esclusa dalla scena da un
procedimento penale minorile chiuso ad una tale eventualità.
La vittima non ha talvolta
l’opportunità di conoscere il volto del suo aggressore e in questo modo non è
in grado di riordinare quello che è successo, trovare un senso all’episodio,
riuscire almeno in parte a comprendere le ragioni che hanno indotto il ragazzo
a strattonarlo per strada per rubargli il portafoglio o magari a penetrare nel
suo appartamento per impossessarsi di oggetti di sua proprietà. Tale
sintomatologia colpisce tutte le vittime, indipendentemente dall’età, e dal
sesso e provoca un senso di paura così forte da indurle a rivedere ogni gesto
quotidiano; il semplice passeggiare per strada o il salire su di un autobus
vengono vissuti come nuove occasioni per subire un’altra aggressione69. Invece vedere il volto della persona
che ha procurato loro disagio e sofferenza significa riconoscere il proprio
malessere e avere la possibilità di rendere partecipe il reo di quelli che sono
gli effetti del suo insano atteggiamento. Guardare in faccia l’autore del fatto
può anche aiutare le vittime a comprendere che non tutti gli adolescenti sono
violenti, e a non sentirsi predestinate o alla mercè della delinquenza altrui.
Il ragazzo, di contro può
avere la possibilità si scusarsi e di rimediare in qualche modo, adoperandosi
ad una serie di attività riparatorie suggerite dalla stessa vittima e
consistenti, nella maggioranza dei casi, in attività di pubblica utilità o di
servizio nel sociale. Viene data così al minore una occasione per dimostrare di
essersi veramente pentito, creando le condizioni affinché la vittima possa
considerarsi in qualche modo risarcita e per restituirle quella fiducia
indispensabile per continuare a vivere70.
Le attività di
mediazione-riparazione sono per il ragazzo ipotesi concrete di confronto con
una società e una autorità in grado di punirlo, utilizzando però il linguaggio
riparativo per una giustizia più pratica che teorica in cui la parola
responsabilizzazione ricorra a buon titolo.
3.4 Aspetti, problematiche e
prospettive della mediazione penale minorile nell’esperienza italiana
Nonostante i programmi di
mediazione trovino incoraggiamento nella normativa internazionale71 e siano consolidati a livello legislativo in diversi paesi
europei, la tradizione italiana nel settore sconta una pratica sperimentale
ancora incerta e ricca di zone d’ombra.
Naturalmente non è semplice
avallare tecniche di mediazione, in mancanza di definizioni normative, e in
presenza di tanti nodi ancora da
sciogliere riguardo alla sua previsione come pratica autonoma all’interno
dell’ordinamento, senza poi trascurare il fatto che essa si presenta come un
intervento complesso, bisognoso di un’attenzione e una cautela particolari.
Infatti permane ancora incertezza circa la rilevanza giuridica, la collocazione
e la tecnica operativa della mediazione, ed inoltre è forte il pericolo che
premature scelte legislative possano incidere su fondamentali categorie e
garanzie del diritto penale.
Si tratta dunque di individuare soluzioni ragionevoli, che tengano conto delle caratteristiche della figura e, al contempo, ne permettano l’inserimento all’interno di spazi normativi appositi, senza danneggiarla o snaturarne il significato e la portata, ma armonizzandola con le regole e i meccanismi già presenti.
Come è facile intuire ci
troviamo di fronte a decisioni importanti, che richiedono una ponderata
valutazione delle esperienze condotte sul campo, affinché i dati raccolti siano
in grado di essere interpretati e utilizzati per la preparazione di solide basi
normative.
La verifica della
attuabilità della mediazione in campo penale ha visto la luce nel settore
minorile, in considerazione dell’urgenza di nuove misure per combattere la
delinquenza dei minori, e per le indubbie potenzialità dinamiche degli
interventi condotti secondo il modello riparativo – riconciliativo, a cui la
mediazione stessa si ispira.
Per tali motivi l’Ufficio
centrale per la Giustizia minorile72,
in accordo con il Ministero di Grazia e Giustizia, ha promosso in diverse
regioni l’avvio di iniziative a carattere interistituzionale, allo scopo di
raccogliere materiale significativo per i progetti di mediazione e per una
verifica della disponibilità dei soggetti coinvolti, quali Tribunali per i
minorenni, Servizi della giustizia, ambiente ecc., a costruire una prassi
sufficientemente ampia, che possa sostenere e fondare un intervento legislativo
ordinatore della figura73.
L’iniziativa ha preso le
mosse da una ricerca curata dall’Ufficio centrale agli inizi degli anni ’90,
con l’obiettivo di individuare gli strumenti tecnici e conoscitivi
indispensabili per attivare pratiche di mediazione all’interno dell’area penale
minorile. La ricerca, dal titolo “ Analisi del rapporto tra minore deviante
e vittima: ipotesi per una strategia d’intervento ”, ha evidenziato come,
per la realizzazione di progetti di recupero nel campo della devianza minorile,
la vittima rappresenti un referente preliminare alla costituzione di qualsiasi
iniziativa volta a ristabilire un contatto positivo con il minore, isolato
nella gravità del suo gesto da una prassi giudiziaria, che vive con lontananza,
diffidenza ed ostilità.
Dalla ricerca è anche emersa
la necessità di accompagnare la vittima lungo tutto il percorso giudiziario e,
anche se in partenza il suo atteggiamento può apparire ostile, in seguito può
manifestare maggior disponibilità ad un incontro chiarificatore con il suo
aggressore, gestito da una terzo imparziale74.
I risultati di quest’analisi
hanno creato le condizioni, per testare più concretamente la validità di questi
apporti scientifici e le stesse sollecitazioni dell’Ufficio centrale, espresse
con alcune circolari75 sulla
fattibilità operativa della mediazione con gli strumenti già disponibili, hanno
dimostrato che un significativo cammino resta da percorrere prima di
intervenire normativamente. Così, a partire dal 199576,
sono stati avviati dei progetti pilota in alcune città sedi di Tribunali
minorili. Sono nati centri di mediazione presso Torino, Milano, Roma, Bari e
successivamente a Trento e a Catanzaro, che hanno coinvolto a vario titolo,
rappresentanti dei Servizi territoriali e di giustizia minorile, docenti
universitari, professionisti del privato sociale e della magistratura minorile.
Inoltre sono stati redatti alcuni Protocolli d’Intesa tra la regione ospitante
e gli organi giudiziari competenti con i quali è stata ufficialmente
sancita l’istituzione di Uffici per la mediazione giudiziaria in materia
minorile77.
Pur nella differente
operatività organizzativa e metodologica degli interventi realizzati, dovuta
alla varietà delle risorse presenti, e nella non sempre concorde
interpretazione dei presupposti teorici dell’istituto, queste esperienze hanno
tuttavia confermato come la mediazione debba essere inserita a pieno titolo fra
i possibili interventi della giustizia minorile. Ed è indiscutibile che
tale risultato sia elemento di sostegno e di grande spessore nella continua
ricerca di percorsi alternativi basati sulla mediazione, allo scopo di
promuovere nel minore una rivisitazione delle proprie scelte.
Le sperimentazioni curate
dai centri di mediazione hanno anche fornito l’opportunità di focalizzare
meglio determinati aspetti e tracciare un primo bilancio dei risultati
ottenuti.
E’ stato rilevato, ad
esempio, che la mediazione non solo assume un ruolo decisivo nel caso di buona
riuscita della medesima, ma anche nell’ipotesi di esito non positivo è dato
rintracciare utili risorse grazie al processo comunque innescato dall’
intervento 78.
Proseguendo nella
rielaborazione delle indicazioni pervenute in sede di verifica delle azioni
intraprese79, la problematica più
urgente è risultata essere l’utilità di pervenire ad un testo di legge che,
tenendo in debita considerazione le diverse linee d’indirizzo maturate negli
ultimi anni, fornisca una base comune di riferimento e delle strategie per
rimuovere gli ostacoli incontrati dagli operatori. E, purtroppo le questioni
ancora aperte non sono poche, perché la costruzione di regole condivise per
l’attivazione della mediazione nel sistema penale richiede uno sforzo ed un
impegno non indifferenti.
Il penale è un settore
particolarmente articolato ed anche il minorile, apparentemente più
indicato per una maggior flessibilità, è pur sempre governato dalle stesse
norme specifiche, difficilmente convertibili a pratiche con obiettivi non
sempre conclamati80.
La prima riflessione con cui
confrontarsi riguarda il rapporto fra la mediazione e le normali
procedure giudiziarie, dovendo stabilire se essa costituisca un percorso
autonomo e parallelo al processo penale oppure si innesti sullo stesso in una
sequenza privilegiata.
Nel primo caso si dovrebbe
concludere per una vera e propria alternatività e ciò significherebbe
esclusione reciproca fra mediazione e processo penale. Una volta risolto il
conflitto entro lo spazio conciliativo non vi è ragione di risolvere il
medesimo attraverso gli strumenti approntati dal processo. Se si può ricorrere
alla mediazione, l’interferenza della giustizia penale tradizionale non avrebbe
alcun senso e viceversa81.
Una scelta di questo tipo,
in un sistema come il nostro, deve però fin dall’inizio confrontarsi con il
principio di obbligatorietà dell’azione penale ( art. 112 Cost. ), che impone
al pubblico ministero di iniziare il processo ogniqualvolta
sussistano elementi sufficienti a sostenere il giudizio e proseguirlo fino al
suo esito.
Ma il rispetto dell’art. 112
Cost. non sarebbe il solo ostacolo alla piena affermazione della mediazione
come sistema alternativo di giustizia; qualcuno82
ha giustamente avvertito che il nostro ordinamento è fortemente vincolato al
principio di legalità ( art. 25 Cost. ), in ottemperanza del quale è
richiesta una rigorosa tipizzazione del comportamento illecito e una
separazione del fatto costituente reato dalla condotta di vita dell’autore. Ciò
comporta che, al fine della determinazione della responsabilità per l’atto in
questione, la condotta non produca alcun effetto, incidendo al più sulla
comminatoria.
Il ricorso alla mediazione,
per contro, comporta un apprezzamento delle vicende personali dell’autore del
reato, con ampio margine di discrezionalità in ordine alla loro valutazione. Il
mediatore conosce non solo la condotta specifica del reo, ma tutti gli aspetti
che lo hanno variamente spinto al gesto criminoso, sui quali basare il proprio
intervento.
Al momento una prospettiva
simile non è contemplata, a meno che non si decida di intervenire,
modificandoli, sui principi di cui si è fatto menzione.
Il secondo scenario
ipotizzato invece, appare più realistico e confortato dai dati empirici finora
disponibili83, anche se non sono
mancate le voci contrarie, specialmente di chi84
ha prospettato il pericolo di insidiose commistioni fra il linguaggio sempre
più ricco della pena e il linguaggio alternativo della mediazione.
Le opportunità fornite dal
nuovo processo penale minorile consentono infatti di attenuare l’effetto
concreto del principio di obbligatorietà dell’azione penale, offrendo spazi di
valutazione giuridicamente controllabili attraverso l’esercizio di una
discrezionalità vincolata da parte dell’organo di accusa. In pratica questi
margini di elasticità consentono al p.m. di esercitare l’azione penale e al
giudice di proseguirla, qualora abbiano riscontrato l’impossibilità di
ricorrere a modalità conciliative di composizione del conflitto. In tale
prospettiva il problema di costituzionalità non investe più l’art. 112 della
Cost., bensì rimanda alla individuazione di parametri sulla base dei quali orientare
la scelta di avvalersi della mediazione anche nelle ipotesi in cui i meccanismi
formali fossero già operativi. Tali criteri, conformi ai principi di
uguaglianza e di ragionevolezza, dovrebbero assicurare, al di là del
trattamento uniforme dei fatti di reato, la necessaria differenziazione in
presenza di situazioni personali diverse permettendo, in tal caso, un
adeguamento degli strumenti d’intervento alle circostanze concrete che di volta
in volta si presentano85.
L’orientamento verso
quest’ultima opzione ha provocato un’ulteriore questione relativa al dove e al
quando collocare la mediazione, cioè quali spazi normativi privilegiare al fine
di veicolare tentativi di mediazione; e al momento, pur riscontrando alcune
variazioni nelle impostazioni delle varie esperienze prese in considerazione,
sono stati reputati più idonei gli artt. 9, 27, 28, 32² del d.p.r. 488/1988,
l’art. 564 c.p.p. e l’art. 47 della L. di Ordinamento Penitenziario n. 354/197586. Le ragioni, che hanno indotto ad
indicare questi contesti normativi per lo sviluppo di percorsi di mediazione,
meritano tuttavia una disamina più puntuale al di là del resoconto sintetico
proposto in queste pagine.
Inoltre merita di essere
menzionato un altro interrogativo ricorrente, relativo all’opportunità di
estendere la mediazione a tutte le tipologie di reato, comprendendovi anche le
ipotesi particolarmente complesse e scaturenti da situazioni sociali e
familiari disagiate, oppure di limitarla a quelli di lieve entità. A tal
proposito è stato deciso di non condizionare l’individuazione dei casi a rigide
classificazioni, ma di seguire la strada della discrezionalità nella scelta
delle situazioni da sottoporre a interventi siffatti87.
Preme poi sottolineare un
ulteriore dato comune a tutte le esperienze conosciute, che si sostanzia
nell’esigenza di prevedere percorsi di formazione specifica per gli operatori e
i professionisti impegnati ai diversi livelli nella mediazione. Una
preparazione effettiva è indispensabile per garantire almeno in partenza un
risultato soddisfacente in questo campo. E’ infatti necessaria una certa
chiarezza in merito a quali debbono o possano essere i possibili mediatori,
quale il ruolo dei servizi dell’amministrazione della giustizia, e quale il
livello di coinvolgimento dei servizi del territorio88.
Il lavoro compiuto in questi
anni dai vari centri ha arricchito il bagaglio di conoscenze in merito alla
pratica della mediazione, ma allo stesso tempo ha creato le premesse per il
fiorire di nuovi spunti di discussione. L’interrogativo più forte riguarda la
definizione stessa di mediazione: si tratta di una misura di tipo riparativo,
oppure di una forma prevalentemente conciliativa? Le opinioni non sono
concordi; alcuni89
preferiscono considerarla uno strumento molto efficace di giustizia riparativa,
altri90 invece affermano che
confondere le figure della mediazione e della riparazione potrebbe essere “
pericoloso ”, in quando trattasi di due prospettive non sovrapponibili. In
realtà le differenti impostazioni sono frutto del combinarsi di fattori
personali e reali, propri di ogni progetto di mediazione che, pertanto risulta
essere unico nel suo genere.
Il secondo punto su cui si è
riscontrata una certa divergenza di pensiero attiene alla scelta, da vagliare
attentamente per una prospettiva futura, di specificare la mediazione per
ambiti di intervento ( civile, scolastica, penale, famigliare, ecc. ) e con
caratteristiche e metodologie differenti, ovvero disciplinarla unitariamente
rendendola applicabile a tutti i contesti in cui essa è chiamata ad operare91.
Come si evince dal quadro
riassuntivo tracciato nelle pagine precedenti i problemi con cui confrontarsi
non sono pochi, anche se aiuta la consapevolezza di avere realizzato il primo
obiettivo individuandoli e vagliandoli grazie al prezioso scambio di contributi
ad opera dei vari centri di mediazione.
3.5 Le fasi della mediazione
penale minorile
Prima di esaminare meglio i
contesti normativi indicati come possibili scenari di attività di mediazione, è
consigliabile dedicare un giusto spazio alle modalità attraverso le quali si
svolge il tentativo di riconciliazione fra vittima e autore del reato.
Infatti è di fondamentale
importanza conoscere quali sono i tempi della mediazione, al fine di
comprendere dove, e in quali circostanze, risulti più utile tentare di
promuovere un momento di riflessione e di riparazione, che esuli da una realtà
giudiziaria poco attenta ai risvolti personali della vicenda criminosa.
Fin dall’inizio delle
esperienze, ogni operatore ha dimostrato di prendere seriamente atto della
complessità della materia da trattare e, in particolare, della necessità di una
buona tecnica e di una fattiva collaborazione di tutti i soggetti impegnati
nella mediazione. Tali considerazioni hanno spinto all’adozione di modelli
procedurali in grado di confortare e di guidare la pratica della mediazione,
ottimizzandone i risultati; in generale si tratta di un percorso, articolato in
diverse fasi o livelli, comune a tutti i centri, salvo alcune differenze di
poco conto.
Di solito l’attività di mediazione
non è svolta da un singolo operatore,
ma è appannaggio di un gruppo che costituisce un’èquipe, il cui buon
funzionamento è collegato ad una sintonia operativa92. Tutti i componenti del gruppo di
mediazione, operatori istituzionali e non, dovranno ricevere una preparazione
specifica, attuata da agenzie specializzate e, dal momento che una maggior
intesa fra i singoli componenti del gruppo può garantire una miglior riuscita
della mediazione, sarebbe auspicabile la loro partecipazione congiunta ai
programmi di formazione e/o di approfondimento da svolgere ciclicamente.
Tornando all’iter attraverso
il quale si concretizza la mediazione, si distinguono sei fasi93, caratterizzate da passaggi interni
piuttosto elaborati, ma necessari per aiutare i mediatori a valutare il singolo
caso e capire se esistono i presupposti per un loro intervento.
La prima fase è relativa alla proposta di mediazione: in genere la proposta proviene o dall’autorità giudiziaria, quindi dal Tribunale dei Minori ( p.m. o giudice ) oppure dal Servizio sociale minorile. Inoltre la mediazione può essere chiesta anche dal reo o dalla vittima, sempre con il benestare dell’autorità procedente.
L’invio del caso al Servizio
di Mediazione viene di solito effettuato da un operatore del Servizio Sociale,
a cui è arrivata precedentemente una segnalazione da parte dell’autorità
giudiziaria, oppure può essere
quest’ultima ad attivare autonomamente la Sezione di mediazione; non è
escluso l’accesso diretto al Servizio da parte del reo e della vittima. Questa
seconda fase, viene definita della acquisizione del consenso, perché la
condizione sine qua non dell’invio è, in ogni caso, la manifestazione di
quello che potrebbe essere definito un “ consenso informato ”, cioè il minore e
la vittima devono essere informati delle finalità generali della mediazione,
dei contenuti e dei significati impliciti in una simile opportunità. Ancor più
significativa è la circostanza che la raccolta del consenso ( quando non è
prestato di fronte al magistrato ) venga spesso affidata ad un operatore della
giustizia minorile; infatti, gli assistenti sociali sono percepiti come dalla “
parte del minore ”, e ciò rende discutibile il loro operato con la parte lesa.
Invece, come è stato osservato, il loro coinvolgimento in questa fase indica
che la mediazione inizia molto prima del momento in cui i confliggenti si
incontrano, perché ha origine nella “mente” degli operatori che già ragionano
in una prospettiva mediativa; soltanto se l’operatore sente di poter mediare,
di riuscire a svolgere con imparzialità il suo incarico, allora è in grado di “
raccogliere ” il consenso della vittima e del suo aggressore 94.
La terza fase è deputata
alla verifica della fattibilità della mediazione: l’équipe della Sezione prende
visione del fascicolo del caso e, raccolte tutte le informazioni disponibili,
si riunisce con l’obiettivo di analizzare la richiesta che ad essa viene posta.
L’analisi della domanda consente, nella fase iniziale dell’intervento, di
cogliere gli aspetti diversi ed ulteriori alla prestazione del consenso che, in
qualche modo, depongano a favore di un esito positivo della mediazione. Si
tratta di una sorta di diagnosi prospettica circa le ragioni che rendono
necessario e proficuo un intervento dei mediatori, e soprattutto chiarisce a
quale livello gli stessi possano intervenire: se con una semplice consulenza
sulla fattibilità della mediazione, o con la presa in carico di una sola delle
due parti, ovvero di entrambe95. Ad
esempio, i mediatori potrebbero rendersi conto dell’improponibilità di condurre
tentativi con soggetti psichicamente instabili o emotivamente destabilizzati,
oppure in presenza di crimini particolarmente complessi. Proprio riguardo alla
tipologia dei reati ammessi alla mediazione fra di essi figurano: lesioni,
danneggiamenti, ingiurie, minacce, furti, rapine, atti di violenza sessuale (
lievi ), reati con l’aggravante razziale.
Qualora la Sezione decida
per una gestione completa o parziale della mediazione contatta le parti
interessate, tramite l’invio di una lettera con la quale vengono spiegati i
motivi e rese note le modalità dell’intervento; alla lettera segue sempre una
telefonata ( da parte dell’operatore scelto per seguire il caso ) nella quale
si concorda con la parte un incontro, e nel caso di un soggetto minorenne (
vittima o reo ), vengono coinvolti anche i genitori o chi ne fa le veci,
invitandoli a presenziare.
Sulla base dei riscontri
avuti per telefono, l’èquipe ha la possibilità di formulare delle ipotesi di
lavoro, con riguardo alle aspettative o alle riflessioni emerse durante il
colloquio telefonico. L’incontro individuale successivo, avviene in una sede
neutrale, istituzionalmente indipendente dal sistema penale, in un clima di
accoglienza e di ascolto per dare modo alla vittima di esprimersi liberamente
riguardo agli effetti che il reato ha provocato sulla sua persona. E dal
momento che questo passaggio ha lo scopo di verificare la massima disponibilità
alla mediazione, è preferibile incontrare prima il reo, affinché renda note le
sue intenzioni ( es. conoscere i motivi del suo atteggiamento passivo o di
scarso coinvolgimento ) e si possa così evitare di deludere le aspettative di
una vittima consenziente96.
A proposito di questi
contatti preliminari si deve segnalare la differenza riguardo alla loro durata,
riscontrata all’interno della metodologia adottata dai vari centri: in alcune
sedi si esauriscono in un'unica seduta sia per il reo che per la vittima,
mentre presso altre sezioni occupa l’arco temporale di tre/quattro mesi per un
totale di dieci incontri circa97.
Nei primi incontri con il
minore autore del reato, dopo aver appreso la sua storia personale e il suo
contesto di appartenenza, si tenta di provocare la riflessione del soggetto sui
significati relazionali del suo atto e sulle motivazioni all’origine del
medesimo. La parte lesa, invece, dopo aver ricevuto il conforto di un primo
sfogo emotivo, viene spinta a capire quale possa essere stato il suo ruolo
nella dinamica dei fatti e quali significati le ha attribuito98.
I colloqui individuali sono
svolti da due mediatori, uno per la vittima e uno per il reo, che hanno il
compito di riferire all’operatore a cui inizialmente è stato affidato il caso.
Il motivo per cui si è scelto di adottare tale strategia è dovuto all’esigenza
di prevenire situazioni di empatia con una delle parti; quindi per scongiurare
il rischio di eventuali perdite di imparzialità l’incontro diretto fra i
confliggenti sarà seguito da nuovi mediatori in sostituzione di quelli
conosciuti agli incontri preliminari99.
Terminata la fase di
preparazione, si procede all’invio delle parti ai mediatori che si occuperanno
in prima persona degli sviluppi dell’attività di conciliazione. Da questo
momento inizia la mediazione vera e propria che, a sua volta, può essere divisa
in tre parti100:
o
La
prima fase è caratterizzata dalla richiesta fatta dai mediatori alle parti di
raccontare come i fatti si sono svolti. Naturalmente le due versioni sono
discordanti, perché l’interpretazione data diverge, in quanto l’ottica con cui
si guarda alla vicenda è differente. Questa situazione ricorre quando le due
parti si conoscono, come per esempio
nel caso di due compagni di scuola o di classe, uno dei quali colpevoli di
minacce all’altro. L’autore sostiene di aver agito per uno scherzo, magari di
cattivo gusto, mentre la vittima afferma di essersi spaventato e aver veramente
temuto per la sua incolumità. I mediatori devono limitarsi a favorire il
dialogo fra le parti in occasione di questo scontro di prospettive.
o
La
seconda fase invece da ampio spazio ai sentimenti, ai cambiamenti, alla
percezione. La vittima ha l’opportunità di rendere partecipe il suo aggressore
del male che le ha provocato, delle emozioni che ha vissuto, mentre il reo può
finalmente rendersi conto delle conseguenze delle sue azioni, esprimere il suo
stato d’animo, tentare una spiegazione.
o
Infine
la terza fase prevede l’ammissione dell’errore da parte dell’autore
dell’illecito, e la vittima, nonostante abbia dovuto suo malgrado subirne lo
sbaglio, riconosce in lui una persona,
accettandone le scuse ed eventualmente suggerendo un modo più concreto per
considerarsi risarcita dal danno101.
Terminata la mediazione, il
percorso così puntigliosamente tracciato si esaurisce nell’ultima fase in cui
viene ripristinato il contatto con l’autorità giudiziaria. L’esito della
mediazione viene comunicato all’Ufficio di mediazione, al Tribunale dei
Minorenni e ai Servizi sociali di giustizia minorile che hanno segnalato il
caso. Non verranno rivelati contenuti, fatti e comportamenti emersi durante la
mediazione, ma soltanto l’esito positivo o negativo della stessa. In caso di
riuscita della attività conciliativa potrà essere comunicato l’eventuale
accordo di riparazione del danno definito fra la vittima e il reo. Non è
improbabile poi che la mediazione si concluda con un esito incerto, e ciò si
verifica quando il lavoro introspettivo si è svolto correttamente, ma il
risultato finale non permetta di pronunciare un giudizio favorevole:
probabilmente è rimasto qualcosa in sospeso, oppure le parti non sono riuscite
ad affrancarsi dalle proprie iniziali posizioni102.
Il procedimento descritto colpisce per la rigorosità e l’insistente attenzione ad ogni particolare reputato d’interesse al fine di un positivo epilogo della mediazione. Per garantire un impianto operativo così efficiente, è irrinunciabile contare su soggetti qualificati, capaci di mantenere un rapporto costante con il proprio gruppo di appartenenza e con i referenti istituzionali del minore preso in carico.
Lo scambio di notizie ha,
per l’appunto, un carattere bidirezionale: gli assistenti sociali continuano il
loro rapporto con il minore, rendendo tali contatti occasioni di acquisizioni
di informazioni utili all’équipe, che ricambia aggiornando periodicamente i
Servizi minorili sui progressi ottenuti103.
I mediatori sanno però che quello che si svolge nella “ stanza ” di mediazione non può essere oggetto di dialogo con le istituzioni; è fondamentale infatti che la mediazione sia condotta con imparzialità, riservatezza e autonomia. Se questi requisiti vengono meno, allora non è dato parlare di attività conciliativa, ma di qualcos’altro che esula da quell’atteggiamento di ascolto neutrale con cui si cerca di ricomporre il conflitto scaturito da un’azione criminosa.
3.6
Il mediatore: un terzo uomo
La fase di sperimentazione
raggiunta dalla mediazione nell’ambito del
sistema di giustizia minorile impone di considerare con maggior
attenzione il ruolo del mediatore, allo scopo di individuare più puntualmente
un’identità professionale specifica ed un percorso di formazione ad hoc per
colui che è chiamato a ricoprire una funzione di vitale importanza.
Il mediatore, infatti, ha il
difficile compito di condurre i soggetti in conflitto verso una ricomposizione
dello stesso, promovendo in loro il dialogo e il riconoscimento reciproco; la
mediazione può dirsi riuscita solo
quando entrambe le parti riescono a riconoscere l’altro per quello che è: un
essere umano portatore di propri vissuti, esperienze, errori104. Egli condivide con la vittima e il
reo il percorso, il più delle volte drammatico, che conduce al superamento del
fatto reato da un lato e alla presa di coscienza delle conseguenze dannose del
proprio gesto dall’altro.
Non è raro che il mediatore
si trovi a dover fronteggiare vere e proprie esplosioni di aggressività,
durante le fasi di rievocazione dell’evento conflittuale; in questi frangenti
deve riuscire a gestire la situazione conservando la propria lucidità, senza
perdere il controllo e soprattutto ponendosi in una prospettiva di ascolto verso
ciò che le parti hanno da dire. Proprio questa sua propensione ad ascoltare ha
favorito l’identificazione dello stesso come facilitatore della
comunicazione, anche se probabilmente questo tipo di raffronto potrebbe
ingenerare confusioni e poca chiarezza circa le reali funzioni a cui il
mediatore è chiamato105.
Il mediatore però non può
sostituirsi alle parti, non impone loro di comportarsi in un determinato modo,
in quanto non dispone di alcun potere direttivo; non suggerisce soluzioni, non
dà consigli e non esprime giudizi, perché egli è un terzo a tutti gli effetti,
la cui neutralità deve manifestarsi in ogni momento. Questo operatore deve
essere sempre vigile ed evitare di mostrarsi parziale, anche solo con
involontarie posizioni che possano ingenerare il sospetto di una minima
complicità106.
Assicurare questa neutralità
comporta un grosso impegno nella pratica, perché la creazione di servizi
specifici per la mediazione provoca una crescita non indifferente dei costi e
dei conseguenti investimenti nel settore. Spesso le ragioni economiche hanno
pesato sulle scelte di chi ha comunque deciso di “ scommettere ” sulla
mediazione, e si è dunque proceduto alla riconversione del personale e delle
strutture già esistenti anziché crearne di nuove.
Al momento attuale la
funzione del mediatore è coperta da varie figure di operatori sociali (
criminologi, psicologi, ecc. ), ma questa soluzione non convince fino in fondo:
l’esercizio della mediazione richiede oltre che un forte impegno umano e
personale, anche una preparazione mirata e diversamente impostata rispetto a
quella delle tradizionali categorie di assistenza nel sociale. La soluzione
ideale potrebbe essere quella di predisporre degli standard formativi per i
futuri mediatori che esprimessero una didattica particolare per la costruzione
di uno schema mentale lontano dai canoni ordinari degli altri operatori: per
meglio intenderci, il mediatore deve essere messo in grado di avere una
formazione piena, a 360 gradi107.
Infine è auspicabile che il
mediatore sia totalmente avulso dal sistema di committenza, perché solo in
questo modo può essergli garantita quell’autonomia funzionale e culturale
necessaria per farsi interprete del linguaggio confidenziale della mediazione.
3.7 La mediazione giudiziaria nel processo penale minorile: spazi normativi
L’arte della mediazione – si
è detto – consiste nella capacità del/dei mediatore/i di creare le condizioni
per la ripresa di una corretta comunicazione tra i protagonisti del reato.
Tuttavia si è anche appreso come tale procedimento, per preparare e favorire
una genuina soluzione conciliativa, abbia bisogno di uno spazio autonomo,
svincolato dai ritmi e dalle esigenze del processo penale.
La difficoltà maggiore,
incontrata nel tentativo di armonizzare l’iter della mediazione con i
meccanismi propri dell’attività giurisdizionale, è esplicita nella funzione
stessa del processo, che << non costituisce in sé una risposta alla condotta deviante, ma è
piuttosto uno strumento per capire se quella condotta è deviante, se è stata commessa
dalla persona accusata e per decidere, infine, quale risposta dare al soggetto
riconosciuto colpevole >>108.
Questa, in sintesi, la
premessa da cui sono partiti i lavori di studio e di ricerca con l’intento di
rintracciare spazi di mediazione all’interno dell’ordinamento penale minorile.
Il primo scenario
individuato ha ad oggetto la fase dell’indagini preliminari e, più
precisamente, la disposizione dell’art. 9 d.p.r. 488 del 1988 secondo cui, come
è noto, il pubblico ministero e il giudice acquisiscono elementi sufficienti
circa il vissuto personale del minore, al fine di accertarne l’imputabilità e
il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto, nonché
disporne le adeguate misure penali e gli eventuali provvedimenti civili; il
secondo comma prevede poi, che le stesse autorità giudiziarie possano avvalersi
della consulenza di operatori specializzati per approfondire la personalità del
soggetto109.
Secondo la prassi
applicativa suggerita dal Tribunale dei minorenni di Torino, la norma in esame
offrirebbe la soluzione compromissoria più favorevole alla natura della
mediazione, permettendone una rapida realizzazione e un più sicuro esito
positivo. In quella realtà si ritiene che il pubblico ministero possa
rivolgersi ai componenti dell’Ufficio di Mediazione, e richiedere il loro
parere in ordine all’opportunità di un esperimento di ipotesi mediative. In
caso di una loro risposta favorevole si consentirebbe di attivare le
potenzialità della mediazione in una fase pre-processuale, avvicinandosi in
questo modo ad una prospettiva di alternatività al processo, con conseguenze di
non poco conto in ordine al proseguimento dell’ azione penale110.
La scelta di sfruttare lo
spazio offerto dall’art. 9 discende dal fatto che il medesimo sottende una
concezione dinamica della personalità del minorenne e la disponibilità di
quest’ultimo a fare qualcosa in favore della vittima, o a confrontarsi con
essa, può costituire un valido criterio su cui basare, eventualmente e in caso
di soddisfacente conclusione di tali attività, la decisione di non dar luogo a
procedere per irrilevanza del fatto ex art. 27 d.p.r. del 1988111.
Le implicazioni che ipotesi
di questo tipo possono ingenerare non sono certo di scarsa rilevanza, e creano
inoltre questioni diverse sulle quali si rende inevitabile una disamina più
puntuale.
Alcune perplessità sono
state espresse circa l’opzione, data al reo e alla vittima, di incontrarsi di
fronte ad un organo diverso da quello istituzionale, prima che essi assumano le
rispettive posizioni processuali: si realizzerebbe infatti, sin da questo
frangente una discrasia fra le regole che governano i due differenti luoghi di
risoluzione del conflitto. Il contrasto più grave riguarderebbe la posizione
del minore indagato per un certo reato, al quale venisse palesata la
possibilità di un colloquio con la parte lesa al di fuori dell’aula di
giustizia; il confronto fra le due parti non può prescindere però da una
qualche ammissione di responsabilità da parte dell’imputato, ed è proprio
questa circostanza a suscitare dubbi e riserve112.
Secondo l’opinione di alcuni
esponenti della magistratura minorile, condizione necessaria e sufficiente per
ogni tentativo di mediazione sarebbe la colpevolezza almeno “ virtuale ” del
minore imputato, o l’esistenza di una situazione obiettiva da cui si desuma
chiaramente la responsabilità del soggetto ( sorpresa in flagranza di reato ),
nonché la sua parziale confessione del fatto criminoso113.
Poiché il minore ha però
diritto al silenzio e alla presunzione di non colpevolezza, le dichiarazioni da
lui rese di fronte agli operatori dei servizi saranno sottratte alla
disponibilità del magistrato.
In ogni caso, è bene non
dimenticare che l’intervento di mediazione presuppone il consenso informato del
minore e della parte offesa, indispensabili per poter condurre un valido
tentativo di conciliazione.
E’ dunque evidente che
l’inserimento dell’istituto riparativo in una fase non ancora processuale, ma
ugualmente soggetta ai principi posti a tutela della posizione dell’indagato,
comporta la creazione di una sorta di “ zona franca ” rispetto alle regole
tradizionali dell’impianto processuale. Ma se un simile meccanismo da un lato
impedisce la violazione del diritto al silenzio e della presunzione di
innocenza, dall’altro opera una quasi totale impermeabilità fra le due forme di
soluzione del conflitto, autoritativa l’una conciliativa l’altra. Alla
conclusione delle indagini preliminari il pubblico ministero, in ossequio al
principio di obbligatorietà, proseguirà l’azione o chiederà l’archiviazione
indipendentemente dagli esiti del tentativo di mediazione; il giudice investito
della questione, a sua volta, non potrà far riferimento alla mediazione già
eseguita, perché non dispone di strumenti idonei ad effettuare il rinvio ai risultati
emersi in quella sede.
La situazione descritta è
provocata dalla mancanza di una norma di raccordo che disciplini nuove ipotesi,
alla stregua delle quali possano finalmente legittimarsi provvedimenti di
archiviazione motivati sulla base della raggiunta conciliazione fra vittima e
autore, con il consenso e sotto il controllo dell’organo giurisdizionale114.
Percorsi di mediazione
possono essere altresì inseriti all’interno dell’art. 27 d.p.r. 488 del 1988
che contempla la pronuncia del giudice per le indagini preliminari di non luogo
a procedere per irrilevanza del fatto, qualora il pubblico ministero, avendo
avuto modo di constatare alla conclusione delle indagini preliminari la
occasionalità e la tenuità del fatto, si sia convinto della opportunità di non
proseguire l’azione.
Secondo il giudizio di
alcuni l’istituto previsto dall’art. 27 può essere preceduto o seguito da un
tentativo di mediazione in grado di svolgere in tale contesto un duplice ruolo:
evitare l’uso spesso automatico e strumentale dell’irrilevanza del fatto ai
fini della deflazione del carico giudiziario da un lato e, in seconda battuta,
aiutare il minore a prendere coscienza dell’atto antigiuridico perpetrato,
seppure di tenue gravità115.
Altri, con riferimento alla
mediazione attuata a posteriori, sembrano concludere per una scarsa utilità di
una simile ipotesi: in una simile circostanza il rapporto con il processo
penale è “ voluto ” dalle parti, in assenza di qualsiasi rilevanza giuridica116.
Al momento è impraticabile
una valutazione più approfondita del fenomeno, perché mancano dati empirici in
grado di fornire interessanti spunti di riflessione, salvo dover constatare una
volta ancora che i presupposti della mediazione non coincidono con quelli della
fattispecie ex art. 27 e, di conseguenza alla mediazione potrebbe non seguire
una pronuncia per irrilevanza del fatto.
Allo scopo di una migliore comprensione di quanto affermato è bene procedere all’esame del tentativo di conciliazione disciplinato dall’art. 564 c. p. p. La norma fa riferimento all’ipotesi di reati perseguibili a querela di parte e prevede che il pubblico ministero possa citare entrambe le parti a comparire avanti a sé, per verificare se il querelante è disposto a rimettere la querela ed il querelato ad accettare la remissione.
In questo caso l’attività di
mediatore/facilitatore del dialogo è svolta dal pubblico ministero o dalla
polizia giudiziaria, investiti di funzioni molto diverse rispetto a quelle
degli operatori dei servizi, inoltre l’eventuale esito positivo del loro
tentativo ha un riscontro immediato nell’archiviazione per estinzione del reato
a seguito della rimessa querela.
Il numero dei reati
perseguibili a querela di parte è molto esiguo, ma si sono chiari segnali di
apertura verso l’attuazione di vere e proprie pratiche di mediazione ex art.
564 c.p.p., posto che la procedibilità di parte è indice di intollerabilità e
grande sofferenza del fatto di reato, aspetti a cui solo la mediazione può dare
una compiuta risposta117.
Gli artt. 28 e 32² del
d.p.r. 488 del 1988 e l’art. 47 L. di Ordinamento Penitenziario sono stati
indicati dal Ministero di Grazia e Giustizia tra gli ambiti operativi più
qualificati per promuovere la pratica della mediazione all’interno del sistema
di giustizia minorile1.
Le disposizioni in oggetto
costituiscono validi strumenti in grado di offrire all’adolescente, incappato
nelle maglie della giustizia, la possibilità di “ riconvertire ” se stesso
attraverso la sperimentazione di regole ed obiettivi concreti. Si tratta, più
precisamente, di istituti che obbediscono alla logica della decarcerazione e
dunque respingono l’utilità di trattamenti puramente afflittivi nei confronti
dei minori che delinquono, promuovendo invece il ricorso a tecniche meno
invasive, attente all’evoluzione della personalità del soggetto e dirette ad
una reale responsabilizzazione del medesimo.
4.1 L’esperienza riconciliativa nella sospensione del processo e messa alla prova
La sospensione del processo
e messa alla prova, ex art. 28 d.p.r. 488, rappresenta sicuramente una delle
innovazioni più significative del nuovo processo penale minorile; l’originalità
che la contraddistingue deriva dal fatto di essere un modello di probation
processuale, mentre nella maggior parte dei paesi europei il modello adottato
presuppone la pronuncia di una sentenza di condanna 2.
Nell’esperienza italiana la
messa alla prova viene applicata in sede di udienza preliminare o di
dibattimento, ed il provvedimento che la dispone ha l’effetto di sospendere il
processo e l’accertamento della responsabilità per un periodo di tempo non
superiore a tre anni, in attesa di conoscere gli esiti della prova a cui il
minore sarà sottoposto.
Sulla valenza giuridica
della figura le opinioni non sono omogenee; alcuni autorevoli esperti3 sostengono la sua affinità con la diversion,
contraddicendo il contenuto della relazione al testo definitivo del nuovo
processo minorile, dal quale emerge con insolita chiarezza la sua
qualificazione come probation e di conseguenza la sua inclusione fra gli
istituti diretti ad evitare l’esecuzione di una pena detentiva.
Quale che sia la natura vera
o presunta della misura, resta assodato il fatto che essa sia la risposta
legislativa alla esigenza, largamente sentita fra i giudici minorili, di
modulare gli interventi penali su minori in considerazione della personalità
del soggetto, valutata caso per caso. Con la messa alla prova si tenta di
anticipare l’intervento trattamentale dall’esecuzione al processo, e di indurre
nel giovane positivi cambiamenti, evitandogli, per quanto possibile, contesti
emarginanti e stigmatizzanti.
L’art. 28 può essere
disposto per qualsiasi tipo di reato e, in assenza di limiti precisi, può
essere esteso anche a tipologie gravi come l’omicidio o a ipotesi di
reiterazione del fatto criminoso. Questa eccessiva permissività ha esposto la
messa alla prova a pesanti critiche, tanto da indurre a riflettere
sull’opportunità di una modifica del tracciato normativo, per scoraggiarne
l’abuso. In effetti un intervento legislativo potrebbe risolvere alcuni
spiacevoli inconvenienti dettati da una pratica a volte distorta dell’istituto,
evitando da un lato il suo utilizzo come misura aggiuntiva nei confronti
di quei soggetti che potrebbero usufruire di opportunità meno gravose ( perdono
giudiziale, irrilevanza del fatto, ecc ), e
dall’altro lato incoraggiandone il ricorso per i minori passibili di una
pena detentiva 4.
Come è noto, in base
all’art. 28 comma 2 del d.p.r. 488/’88, con l’ordinanza di sospensione “ il
giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato
e a promuovere la conciliazione del minore con la persona offesa dal reato ”.
In quest’ambito è stato evidenziato il ruolo e la funzione complessiva di “
mediazione giudiziaria ” che il legislatore ha assegnato ai servizi minorili:
di mediazione perché si tratta di attività specifiche finalizzate a facilitare
la comunicazione fra due parti contrapposte; giudiziaria perché gli obiettivi e
i risultati a cui mirare, sono definiti nel processo ed esercitano un’influenza
sull’andamento e sull’esito del medesimo5.
Nell’ambito dell’art. 28 il fine di mediazione può essere inteso nella sua dimensione più diretta, come incontro fra reo e vittima, sia nella sua accezione più generale di solidarietà verso la comunità, da attuarsi quest’ultima attraverso l’inserimento del soggetto in attività di volontariato o nel risarcimento simbolico del danno.
Il legame fra l’istituto
della messa alla prova e le pratiche di mediazione si è creato nel momento in
cui le attività per l’elaborazione di un nuovo codice procedurale minorile
erano in pieno svolgimento. In quel periodo si preparava a Strasburgo la
Raccomandazione europea sulle risposte alla devianza minorile, fra le quali la
pratica conciliativa occupava un posto di prim’ordine. Il Governo italiano, per
inserire l’innovazione nel progetto e non incorrere in sanzioni di
incostituzionalità, forzò il dato normativo e inserì il concetto nell’art. 286.
Una scelta di tale portata
avrebbe forse richiesto una riflessione più ponderata, in quanto gli
effetti della decisione non hanno tardato a manifestarsi, generando i primi
dubbi circa l’opportunità di appesantire il carico di lavoro nella
predisposizione dei progetti di messa alla prova con tentativi di mediazione.
La difficoltà di prevedere
formalmente la conciliazione reo – vittima è opinione sostenuta da molti, che
evidenziano il paradosso di prevedere l’impegno conciliativo, per sua natura
basato sul libero arbitrio, fra le prescrizioni con cui il giudice obbliga il
ragazzo a seguire un determinato comportamento7.
Accanto a queste moderate
osservazioni si deve segnalare l’aperta convinzione di chi8 sostiene vivacemente che la messa alla
prova sia una figura atrofizzata e abbia fallito i suoi principali obiettivi,
perché costretta ad essere uno strumento di trattamento di una delinquenza
segnata sempre più da nette distinzioni, radicalmente diversa rispetto a quella
di quindici anni fa, caratterizzata da nette differenze di censo, cultura ed opportunità.
La soluzione migliore per
evitare che i contenuti lineari della mediazione vengano irrimediabilmente
offuscati è, secondo il parere di questa autorevole fonte8, eliminare dall’art. 28 l’inciso del
comma 2 ed introdurre invece una previsione generale in grado di fondare
l’attività riparativa come diritto dell’imputato e della vittima del reato e
non come oggetto di discrezionali operazioni del magistrato o dei servizi
minorili.
Occorre precisare tuttavia
che, nonostante le critiche, la messa alla prova è un istituto dotato di un
buon taglio pedagogico e la previsione di attività riparative e conciliative
può solo aiutare il minore ad una maggiore comprensione del reato da lui
commesso.
Inoltre l’istituto della
mediazione così come disciplinato dall’art. 28 risulta espressamente
disciplinato ex lege e, pertanto armonizzato con i principi che regolano
il processo. L’ordinamento infatti riconosce un preciso effetto alla avvenuta
conciliazione fra la vittima e il suo aggressore: il giudice con sentenza
dichiara estinto il reato e il minore viene prosciolto dai fatti addebitatigli.
( art. 29 d.p.r.) 9.
Il tentativo mediatorio
potrebbe venire comunque favorevolmente valutato anche se questa finalità fosse
raggiunta in tutto o in parte: bisogna sempre tener presente infatti che la
vittima può non essere disponibile ad un incontro con minori devianti,
soprattutto in caso di reati gravi. In questi casi il mancato raggiungimento
della conciliazione non sarebbe dannoso, perché i ragazzi possono comunque
apprendere con maggiore consapevolezza le regole di un corretto modo di
rapportarsi agli altri, e confrontarsi con la realtà di un rifiuto che devono
imparare a gestire in maniera equilibrata.
In ultima analisi si può
affermare che l’inserimento di prescrizioni, miranti alla riconciliazione con
la parte lesa nello schema della messa alla prova, ha una chiara valenza
educativa, in quanto avvicina la vittima al reo e, nel far ciò favorisce il
concretizzarsi della sofferenza della persona offesa 10.
Nonostante l’istituto
conosca nella pratica una certa diffusione, la percentuale relativa
all’applicazione di prescrizioni inerenti a percorsi mediativi risulta molto
esigua.
Nei progetti di messa alla
prova realizzati dall’ U.S.S.M. ( Ufficio servizi sociali minorili ) è stato di
norma assente l’obiettivo di un’attività di riparazione rivolta alla vittima o
di conciliazione con quest’ultima. Gli operatori dell’U.S.S.M. non incontrano
la vittima e hanno quindi una visione parziale della relazione, che rende
difficile rappresentarsi concretamente questo obiettivo. Quindi è sembrato più
utile un riferimento più simbolico che reale alla vittima, invitando il minore
a riconoscere il danno arrecato alla società e il dovere di provvedere ad un “
risarcimento ” 11.
La sezione di mediazione di
Roma ha agito per la maggior parte dei casi proprio all’interno dell’art. 28;
le tipologie di reato, forse per la loro complessità, hanno creato problemi di
gestione delle aspettative delle parti. La difficoltà maggiore è stata comunque
quella di reperire le vittime e di motivarle alla mediazione.
A Bari la magistratura
minorile si è distinta per la creatività nel riempire di contenuti riparativi
atipici la norma dell’art. 28. Le modalità riparative sono risultate varie:
lettere di scusa alla vittima, versamenti ad enti benefici, incontri di
riconciliazione e risarcimenti in denaro12.
Tuttavia, a parte il dato in
controtendenza della città pugliese, si deve prendere atto della rara
circostanza di imbattersi in progetti di messa alla prova, in cui l’attività
conciliativa è espressamente disposta nel progetto. Probabilmente la causa è da
ricercarsi nel difetto della normativa, che non esplicita le modalità per
effettuare la mediazione, lasciando in tal modo agli operatori di giustizia il
compito di occuparsi della valutazione della fattibilità della mediazione, pur
non fruendo a tal proposito di alcuna formazione specifica.
Inoltre l’attività svolta
dai servizi sociali risulterebbe ulteriormente aggravata dalla predisposizione
di eventuali percorsi riconciliativi e, nel cui ambito le esigenze della
vittima non sarebbero sempre prese in considerazione; ad esempio non sarebbe
verificata la sua disponibilità ad un incontro con il giovane aggressore, né
sarebbero fornite spiegazioni circa la funzione di un tentativo in tal senso,
deludendo le sue aspettative ed incrementando il senso di ingiustizia13.
Un'altra ragione alla base
di un dato empirico così avvilente va ricercata nella scarsa attenzione del
legislatore a questi istituti, essendosi limitato ad inserirli nella
disposizione dell’art. 28, confondendoli tra le innumerevoli
prescrizioni applicabili al minore nel corso della prova14.
4.2
Sanzioni sostitutive e principi di giustizia riparativa
Quando si parla di sanzioni
sostitutive all’esecuzione di pene detentive caratterizzate da particolare
brevità, si fa riferimento alle misure disciplinate dalla legge 689/1981 che,
dopo l’emanazione del d.p.r n. 488/1988 sono state inserite nel testo del nuovo
codice di procedura penale minorile e, più precisamente negli artt. 30 e 32².
Le sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata
possono essere applicate dal giudice quando, tenuto conto delle esigenze
educative del minore, si deve applicare una pena detentiva non superiore ai due
anni. Queste misure hanno la funzione di non interrompere gli eventuali
processi educativi in corso, consentendo la prosecuzione delle attività di
studio e di lavoro in una realtà diversa da quella angusta del carcere15.
Le sanzioni sostitutive sono applicate con sentenza di condanna dal giudice dell’udienza preliminare, oppure dal giudice del dibattimento, i quali hanno l’obbligo di motivare le ragioni della scelta e, di specificare la misura che intendono applicare. I contenuti e le modalità di svolgimento sono invece determinati dal giudice di Sorveglianza, che, entro tre giorni dalla comunicazione della sentenza, convoca il ragazzo, la famiglia ed i servizi minorili allo scopo di predisporre un adeguato progetto educativo.
La semidetenzione consente
al minore di trascorrere una parte della giornata, almeno 10 ore, in un
istituto di semilibertà, separato dal carcere, dal quale si può allontanare
esclusivamente per esigenze di studio e di lavoro. Il magistrato dovrà
precisare le ore di permanenza e gli orari
in cui il ragazzo potrà allontanarsi dall’istituto, per svolgere le attività
utili al suo reinserimento sociale.
La libertà controllata
consiste, invece, nel sottoporre il ragazzo ad una serie di prescrizioni
limitative della libertà aventi contenuto positivo e negativo e si svolge con
modalità affini a quelle dell’affidamento in prova al servizio sociale.
Le misure sostitutive sono
state indicate come idonee ad ospitare tentativi di mediazione, soprattutto con
riferimento alla libertà controllata, che è stata riconosciuta << capace
di configurare un’azione a maglie
larghe, da costruirsi nel progetto educativo che il magistrato di sorveglianza
individua con l’aiuto dei servizi minorili e con la partecipazione del minore e
dei suoi famigliari >>16.
Tuttavia al momento pare che
l’appello a mettere mano ai testi legislativi per rivalutare detti istituti,
specialmente in un’ottica riparativa sia rimasto sostanzialmente inascoltato.
4.3 La mediazione
nell’affidamento in prova al servizio
sociale
La promozione di percorsi di
riparazione e conciliazione con la parte offesa dal reato allo scopo di
sottrarre, in tutto o in parte, il minore alle conseguenze afflittive del suo
gesto è un’idea antica, ripresa dal codice di procedura penale minorile in
seguito alla diffusione della mediazione come tecnica vincente nel trattamento
della devianza dei minori. La fonte di ispirazione diretta va individuata
nell’art. 47 della Legge di Ordinamento Penitenziario n. 354/1975, il quale,
regolamentando le prescrizioni per la probation disposta con sentenza in
alternativa alla pena detentiva, stabilisce a carico dell’affidato ai servizi
sociali l’obbligo di adoperarsi << per quanto possibile a favore della
vittima del reato >>17.
L’affidamento in prova al
servizio sociale è considerato la misura alternativa per eccellenza, in quanto
si svolge totalmente nel territorio e mira ad evitare al massimo i danni
derivanti dal contatto con l’ambiente penitenziario e dalla condizione di
privazione della libertà. L’art. 47 prevede che il reo sia affidato al servizio
sociale per un periodo uguale a quello del residuo di pena da scontare, non
superiore ai tre anni di reclusione, anche se costituente residuo di maggior
pena. Il provvedimento può essere adottato sulla base dei risultati dell’osservazione
della personalità, condotta per almeno un mese in un istituto, se concretamente
si ritiene che l’affidamento contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri
la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati. Il comma 3 dell’art.
47 prevede inoltre la possibilità di concedere la misura anche senza procedere
all’osservazione in istituto quando il condannato, successivamente al fatto di
reato, ha serbato un comportamento tale da consentire un giudizio favorevole in
ordine alla fruibilità del beneficio18.
La legge Gozzini del 1986 ha
inciso in maniera significativa sulla previsione relativa ai doveri di
solidarietà del reo verso la vittima e la propria famiglia, stabilendo che tale
prescrizione sia obbligatoria e non più lasciata alla decisione discrezionale
del Tribunale di Sorveglianza. La modifica è stata molto apprezzata, perché in
questo modo si è data prova della volontà di trasformare l’impegno del soggetto
nei confronti della parte lesa, e verso i famigliari da semplice dichiarazione
di intenti in un più espressivo segno di maturazione personale.
Anche l’affidamento in prova mira a decarcerizzare l’autore del reato, e a sottoporlo ad una sorta di prova dalla cui riuscita dipende la conclusione della vicenda penale; questa affinità con la figura della messa in prova potrebbe indurre ad una confusione per cui è bene chiarire, per rapidi cenni, la differenza che esiste fra i due istituti.
La messa alla prova è una
forma di probation che trova collocazione sistematica all’interno del processo,
l’affidamento, viceversa, appartiene alla fase esecutiva; diversi sono poi gli
effetti, in quanto la probation esecutiva positivamente conclusa estingue la
pena, mentre la messa alla prova persegue l’obiettivo ben più corposo di
estinzione del reato19.
L’art. 47 è stato segnalato
più volte come ambito legislativo propizio alla mediazione, in quanto è stato
spiegato che si tratta di una norma di carattere sostanziale in grado di dar
vita ad un interessante ampliamento della giustizia riparativa, con riduzione
della centralità delle sanzioni penali tradizionali20.
In un certo qual modo la mediazione – riparazione si libera di alcuni aspetti di ambivalenza proprio nella fase della esecuzione: qui infatti non c’è più, o comunque è molto attenuata la frizione tra il principio consensuale dell’istituto e l’indisponibilità del processo penale. Il minore è stato condannato ad una pena definitiva e, dunque è venuto meno il profilo di negoziabilità legato al reato e alle sue conseguenze; la condanna rappresenta un punto fermo su cui innestare una fase mediativa diversa da quelle concepibili nella fasi precedenti del percorso penale.
Se ci soffermiamo poi
sull’elemento della consensualità delle parti, imprescindibile per procedere
alla mediazione, è lecito ritenere che, almeno per quanto concerne il reo, il
consenso venga espresso implicitamente nel momento in cui egli chiede la
concessione della misura alternativa ex art. 47. Il comportamento attivo del
reo nel ricercare modalità per riparare o attenuare le conseguenze del proprio
comportamento illecito, può essere interpretato come un modo per esprimere la
volontà di incontrare la vittima, sostituendosi al consenso formalmente
espresso21.
Per ciò che concerne la
vittima invece, nulla impedisce la ricerca del suo consenso, pur non essendone
espressamente disciplinata l’acquisizione dalla norma in questione.
I problemi possono invece originarsi con riguardo al ruolo svolto dall’assistente sociale penitenziario, istituzionalmente preposto a rapportarsi con il reo e non con la vittima, la quale potrebbe percepire un suo intervento come di parte e strumentalmente diretto a vantaggio del minore a lui affidato.
Il tentativo di promuovere il contatto con la vittima potrebbe essere comunque svolto dall’Ufficio di mediazione, che, in questo caso si rapporterebbe agli operatori penitenziari per lo scambio di notizie utili in riferimento alla personalità del condannato e al tipo di reato. E’ vero che in questa sede uno degli obiettivi della mediazione, cioè quello di ricomporre il conflitto, da un punto di vista squisitamente giuridico viene meno e dunque l’attenzione è concentrata sull’aspetto più propriamente riparatorio del danno arrecato; ma ciò non significa svilire il significato della mediazione, quanto piuttosto sperimentarne l’enorme potenziale anche in una fase, in cui il risultato da perseguire sia quello di provocare nel reo una riflessione sulle conseguenze negative del suo gesto, accompagnandolo verso la maturazione di un consenso a riparare il danno arrecato.
Un ruolo importante potrebbe
essere affidato al volontariato non attivo nel sistema di giustizia,
espressione della comunità civile: i volontari potrebbero, ad esempio,
avvicinare e preparare la vittima ad acconsentire all’incontro con il suo
offensore, informandola sui contenuti, le modalità e gli obiettivi della
mediazione; se la vittima non fosse conosciuta o si trattasse di reati
ambientali e di danneggiamento di opere pubbliche, sarebbe opportuno pensare ad
una forma di volontariato idonea a stabilire il contatto con gli organi
rappresentativi della collettività, allo scopo di ottenerne il consenso alla
mediazione.
Inoltre, la constatazione
relativa alla mancanza di una competenza specifica dei volontari in ordine alle
pratiche mediative competenze non osterebbe ad una loro eventuale impiego nel
settore, dal momento che il difficile ruolo di mediatore può essere assunto
anche da soggetti del privato sociale, in modo da << rappresentare il più
possibile ogni sezione della società nelle aree dove si pensa che la mediazione
debba
operare. In particolare, i
mediatori dovrebbero provenire da tutti i gruppi sociali inclusi i gruppi
etnici e minoritari, ed entrambi i sessi dovrebbero essere rappresentati; essi
dovrebbero altresì possedere preferibilmente una buona conoscenza di base,
anche se cultura e qualificazione non sono necessariamente gli elementi più
importanti nella selezione. In quanto poi alle abilità personali è sufficiente
un solido giudizio e un alto grado di maturità…Per tutti gli aspiranti
mediatori è previsto infine un training iniziale per lo sviluppo di specifiche
abilità e tecniche, cui contenuti siano agganciati agli standard del servizio
di mediazione >> 22.
In Europa non sono mancate
esperienze e programmi rivolti proprio a minori in esecuzione della pena,
finalizzati al recupero dei contatti con la vittima del reato, ed a livello
internazionale alcuni importanti documenti relativi alla giustizia minorile
auspicano la disponibilità della mediazione lungo tutto il percorso penale,
anche dopo l’emissione della sentenza23.
Ciò nonostante non sono
mancate le voci contrarie, soprattutto di coloro che vedono grossi ostacoli
all’ingresso della mediazione nella fase eventuale di esecuzione della pena.
Fra gli elementi a sfavore il fattore tempo è probabilmente quello che assume i
contorni più netti; in un ordinamento come il nostro l’espansione, forse
eccessiva dei tempi processuali per l’accertamento definitivo dei fatti,
comporta che la pena detentiva o la misura alternativa si svolgano a notevole
distanza dal fatto di reato. Proprio questo lungo intervallo temporale produce
nel minore reo una sorta di distacco, di estraneità verso la sofferenza che
l’atto criminoso ha prodotto. Una volta entrato in carcere la sua attenzione è
assorbita dal tentativo di sopravvivere, perché paradossalmente si realizza un
autentico spostamento psicologico: il minore si sente vittima di una punizione,
percepita come ingiusta ed eccessiva, la sofferenza dovuta alla privazione
della libertà lo rende indifferente a qualsiasi istanza di tipo riparativo. Un
altro dato a sfavore è l’esistenza di una condanna inflitta da terzi che
frappone difficoltà nuove e diverse a un’ipotetica comunicazione autore –
vittima. Infine, è stato osservato che il minore è condannato per dei fatti gravi;
e quanto più grave è il fatto tanto più è difficile ottenere il consenso alla
mediazione24.
Si può convenire che in
alcuni casi un’eccessiva distanza dal fatto possa costituire un problema, in
altri casi può viceversa rivelarsi opportuna per preparare un incontro con la
parte offesa maggiormente sentito dal minore. Quando il ragazzo viene arrestato
non pensa alla riparazione, perché sta affrontando altri problemi che lo
assorbono completamente: il processo, la probabile detenzione, ecc.25.
Non è così insolito invece ripensare alle proprie azione e dunque alla vittima del proprio agire, nel momento in cui il soggetto sta per uscire dal carcere in misura alternativa o per aver scontato la pena prevista. Il ragazzo potrebbe desiderare di incontrare la parte offesa, per avere la possibilità di concludere con la riconciliazione una parentesi drammatica della propria esistenza, e potere dimostrare di aver raggiunto una matura consapevolezza dei propri errori. E’ molto importante offrire all’adolescente, protagonista di una vicenda di reato, l’opportunità di scusarsi e, magari, di adoperarsi favorevolmente nei confronti della vittima. Una tale possibilità può rappresentare un modo per riscattare se stesso, ma anche una logica conseguenza del lavoro condotto con il giovane in una prospettiva pienamente educativa.
Nell’ambito dell’art. 47 non
è dato conoscere dati empirici rilevanti, anche se si possono segnalare alcuni
tentativi informali, troppo sparsi e insufficienti a sostenere al momento una
prassi applicativa omogenea nel settore.
Il primo caso riguarda un
esperimento svoltosi presso il Tribunale dei Minori di Milano, che ha avuto
protagonista un ragazzo riconosciuto colpevole di violenza carnale nei
confronti di una vittima a lui conosciuta. La mediazione è stata richiesta
dall’autore stesso del fatto, ma non si è conclusa per la situazione
estremamente delicata della parte lesa26.
Un altro tentativo noto è
stato quello condotto dalla équipe di mediazione penale di Roma: il caso
riguardava una giovane nomade affidata al servizio sociale ex art. 47 per un
reato contro il patrimonio. L’esperienza si sarebbe certamente conclusa
positivamente, ma al momento della conclusione è giunta la notizia di un nuovo
reato ascrivibile alla stessa minore, compiuto in uno spazio temporale
antecedente al suo affido27.
La scarsa presenza di
tentativi di mediazione all’interno della misura alternativa dell’affidamento
in prova è probabilmente causata dalla tendenza generale di ancorare la
responsabilizzazione del minore ai colloqui con psicologi ed assistenti
sociali, e a privilegiare forme di riparazione all’esterno, ricorrendo alle
varie forme di lavori socialmente utili disponibili e a corsi di studio,
apprendistato ecc.28.
L’analisi concreta dei dati
raccolti mostra come la mediazione penale minorile preferisca, almeno in questa
prima fase evolutiva a cui certamente ne seguiranno altre, muoversi in un
contesto temporalmente vicino al fatto di reato. Ciò non significa che in una
prospettiva futura gli spazi offerti dall’art. 47 non si aprano ad una pratica
di mediazione più ampia; l’affidamento in prova è in grado di ospitare validi
percorsi di conciliazione, e il fatto che sia da poco partito uno studio di
approfondimento relativo a questo aspetto29,
anche se riguardante nello specifico gli adulti, è un chiaro indice di quanto
la discussione nel merito sia ancora aperta.
Il sistema penale dei paesi
europei ed extraeuropei si connota per l’estrema varietà delle misure, che
prevedono oltre al risarcimento economico della vittima del reato, anche forme
di riparazione morale e materiale del danno scaturito dalla commissione
dell’azione illecita.
Il Consiglio d’Europa
indicava in un rapporto del 1987 che, in diversi Stati, quali Francia, Gran Bretagna,
Germania, Stati Uniti e Canada, i programmi di mediazione vittima – autore del
reato conoscevano già una prassi applicativa ben congegnata: le attività
conciliative potevano essere intese o come risoluzione del procedimento penale,
oppure come provvedimento aggiuntivo all’interno dell’applicazione di altre
misure a carattere detentivo e non detentivo1.
Mentre in Italia la pratica
della mediazione e, più in generale della giustizia riparativa, stenta a
diffondersi come modello principe negli interventi sui minori devianti, nel
panorama internazionale è oramai una realtà accettata e molto apprezzata a
cominciare dall’America e dal Canada, dove ha affondato le radici nei lontani
anni ’70, per arrivare fino all’Europa letteralmente conquistata dal linguaggio
innovativo della figura. Infatti, specialmente nel Vecchio Continente la
mediazione ha fornito lo spunto ideale per ricavare nuove risposte alla
criminalità dei minori, più precisamente la spinta a superare la tradizionale
reazione all’illecito penale in favore della ricerca di una diversa unità di
misura, basata non più sulla centralità dell’obbligo di soffrire per
rimediare alla proprie colpe, bensì sulla centralità dell’obbligo di fare.
Questo tentativo ha permesso di evidenziare quattro direzioni comuni alla
maggior parte dei paesi europei, così riassumibili2:
Lavori di interesse generale → si tratta di uno
strumento alternativo alla detenzione o, più precisamente di una sanzione
sostitutiva. Vengono destinati ad attività di interesse generale coloro che
diversamente non potrebbero evitare la sanzione della reclusione; la misura è
applicata solo per i reati non particolarmente gravi ed ha durata contenuta nel
tempo. Il rapporto così instaurato è corredato di prescrizioni ed obblighi, la
cui inosservanza è oggetto di sanzione. La caratteristica principale è quella
di evitare la sofferenza della reclusione, anche se esiste il rischio che
questa misura possa essere utilizzata in modo decisamente strumentale3.
La mediazione autore –
vittima →
come ben sappiamo, la ricerca del confronto fra le due parti del conflitto
generato dal reato ha fra i suoi obiettivi più graditi la responsabilizzazione
del minore, in quanto permette a quest’ultimo di concentrarsi sull’esperienza
concreta dell’azione illecita e sulle sue conseguenze. Molti programmi di
mediazione sono strutturati in una serie di passaggi progressivi attraverso i
quali il minorenne viene condotto, prima a riflettere sul reato commesso, poi
ad incontrarsi con la vittima se disponibile, infine a svolgere vere e proprie
azioni positive in favore della stessa, anche indirettamente. E’ quest’ultima
fase a rappresentare il momento riparatorio anche dal punto di vista
psicologico, sviluppato attraverso attività utili alla vittima o a persone che
si trovino in condizioni simili. Il minore ha quindi modo di prendere coscienza
dell’offesa arrecata, ma contemporaneamente presenta alla collettività le sue
parti buone, sfuggendo all’etichettamento di se stesso come delinquente.
L’attività è concepita in una funzione esclusivamente riparatoria e rappresenta
la conclusione di un programma fortemente individualizzato e concreto.
La riparazione comunitaria → mentre i lavori di
interesse generale sono tipici dell’esperienza francese, la riparazione
comunitaria è diventata, in Inghilterra e in Canada, una risposta penale anche
per coloro che, normalmente, non sarebbero colpiti da una sanzione alternativa.
Questi tipi di programmi tendono a
confrontare il minore con la comunità di cui fa parte e, a coinvolgere la
stessa comunità nel ricostituire il legame con il giovane criminale. Un’azione
di questo tipo è certamente appropriata quando non ci sono vittime fisicamente
individuate, ma si sono in ogni caso verificati dei danni tangibili ( il
danneggiamento di un edificio, il furto, ecc ). Il tipo di attività proposte
vanno dalla pulizia delle strade a vari e forme di aiuto negli ospedali e nei
centri ricreativi o di assistenza, a seconda della fantasia e della
disponibilità della collettività. L’obiettivo di queste misure è quello di
riuscire a far comprendere al minore, grazie all’utilizzo di metodi a lui
comprensibili, il significato delle comuni regole del vivere civile.
Il trattamento intermediario
→ la misura ha origini molto antiche e trova un buon sostegno in
Inghilterra e in Germania. I programmi di questo tipo non hanno una natura
riparatoria e sono essenzialmente rivolti alla popolazione minore, che rischia
seriamente l’incarcerazione.
Infatti si cerca proprio di
evitare l’ istituzionalizzazione attraverso il ricorso a soluzioni, che si
collocano a metà strada fra l’inserimento residenziale e attività di puro
sostegno educativo, da qui il nome stesso della figura.
In realtà si tratta di misure che mirano a modificare il comportamento sociale del minore, sottoponendolo ad un trattamento fondato su quattro fasi:
- un lavoro correttivo che coinvolge il minore nelle riflessione del reato, utilizzando giochi di ruolo registrati e proiettati, discussi e commentati;
-
educazione
sociale ( relativa all’uso di sostanze stupefacenti, prostituzione, malattie
veneree, ecc. );
-
insegnamento
per piccoli gruppi;
-
occupazione
del tempo libero attraverso attività collettive.
I programmi si diversificano
per intensità a seconda delle caratteristiche del minore e durano da 6 ad 8
settimane.
Nel tentativo poi di fornire
un fedele quadro d’insieme degli aspetti normativi della mediazione in tutte le
modalità e finalità individuate, è sembrato significativo introdurre i percorsi
mediante i quali essa si realizza, sintetizzabili in questo modo4:
-
prima
dell’esercizio dell’azione penale, su iniziativa della Polizia o del
pubblico ministero. Esito: chiusura del caso senza processo;
-
come
conseguenza della decisione giudiziaria, su iniziativa del Giudice. Esito:
sanzione autonoma, sanzione alternativa, sanzione aggiuntiva alla pena o
all’interno di una misura alternativa;
-
durante
l’esecuzione della sanzione alternativa, su iniziativa dell’organo
dell’esecuzione delle pena. Esito: esecuzione della sanzione alternativa
( probation ).
5.1
Gli Stati Uniti e il Canada
L’avvio di forme alternative
di gestione dei conflitti generati da fatti di reato avviene, come si è già
avuto modo di precisare altrove5, negli
Stati Uniti verso la fine degli anni ’70; il modello a cui si fa riferimento è
il VORP ( Victim – Offender Reconciliation Program ), nato in Canada e
adottato dagli U.S.A. nel 1978, quando nell’Indiana del Nord si costituisce il
primo vero staff denominato PACT ( Prisoner and Community Togheter ).
L’esperienza acquisita ha reso ben presto questo organo in grado di istituire
ed allestire un vero e proprio centro di ricerca e di applicazione del modello
riconciliativo, tutt’oggi operativo. I programmi di riconciliazione sono
caratterizzati, almeno inizialmente da una forte connotazione religiosa,
destinata a scomparire una volta che l’istituto viene trasportato sul terreno
più concreto della giustizia. Il VORP può assumere differenti tipologie a seconda
degli ambiti in cui è impiegato e degli obiettivi a cui è diretto; infatti il
programma può essere utilizzato per operare una risoluzione del conflitto prima
dell’inizio dell’azione penale, come procedura alternativa al processo penale
vero e proprio, come conclusione del processo con sospensione della pronuncia.
Inoltre può essere considerato come elemento aggiuntivo della condanna, oppure
inserito fra le prescrizioni previste durante l’esecuzione della probation6.
E’ importante sottolineare
che la possibilità di una conformazione così varia è permessa
dall’inquadramento del VORP all’interno di un sistema di common law,
dove non vige il principio di obbligatorietà dell’azione penale, e dove le
condotte penalmente rilevanti possono essere trattate con tecniche di diversion,
consentendone in tal modo l’uscita dal settore giudiziario7.
Il controllo compiuto sulla
validità del modello è stato positivo, ed ha evidenziato il buon livello di
apprezzamento da parte delle vittime dei reati che hanno accettato di
sottoporsi alla prova del percorso mediativo. La verifica ha altresì
rappresentato l’occasione per fare
maggiormente chiarezza su alcuni aspetti del VORP, ovvero circa
la sua prevalente finalizzazione alla restituzione monetaria e la sua pratica
attuazione nei casi di reati non violenti contro la proprietà commessi da
adulti e minorenni8.
Tuttavia, il modello
statunitense punta decisamente sulla probation come misura d’intervento
cardine nei confronti dei minori che delinquono. La probation, è bene
ricordarlo, sottrae il condannato alla pena detentiva e costituisce dunque una
classica misura di decarcerizzazione9.
La probation può essere
applicata dalla polizia, dagli organi amministrativi, e dal giudice secondo un
meccanismo “ a scalare ” in base al quale i casi meno gravi sono di competenza
della polizia che, dopo averlo interrogato, invia il minore all’organo
amministrativo gestito da operatori sociali ( probation officers ),
liberi di decidere se trattare il caso in autonomia o di riassegnarlo al Tribunale.
Quindi si ha la possibilità di una gestione interna e informale, di cui è
competente l’organo extra – giudiziario oppure si può privilegiare quella
formale affidata all’autorità giudiziaria, alla quale si arriva anche in
conseguenza del fallimento della procedura informale10.
Nel primo caso si ha una
rinuncia al procedimento penale formale, mentre in caso di scelta del
procedimento formale l’autorità procedente sospende la condanna e affida i
minori ai probation officers. In ultima analisi può accadere che organi
amministrativi gestiscano competenze proprie degli organi giurisdizionali,
potendo far affidamento tuttavia a
strumenti correttivi, quali l’ammissione di responsabilità e il consenso del
minore, per sfuggire alla assenza di
garanzie giuridico-formali.
In parecchi stati è poi
diffusa la c.d. probation rafforzata, il cui scopo dichiarato è quello di
difesa della società, anche se in ambito minorile è finalizzata a terapie
riabilitative, per esempio è indicata nel caso del trattamento della tossicodipendenza.
Il modello intensivo impiega risorse e strutture terapeutiche ed assistenziali,
e prevede l’affidamento del minore ad un team di esperti con competenze
specifiche in campo correzionale o di mero sostegno.
Per soggetti ad alto rischio
criminale esiste un ulteriore modello, basato sul Balanced Approach, con
finalità educative e di controllo; la misura cerca di favorire il
coinvolgimento della comunità, nonché la responsabilizzazione dei minori
chiamati a riparare alle conseguenze del loro operato11.
5.2
La Francia
La legislazione francese
relativa ai minori delinquenti è contenuta nell’Ordinanza del 2 febbraio 1945,
che, malgrado la sua remota promulgazione, viene considerata specialmente dai
giudici minorili uno strumento estremamente moderno, grazie alla facoltà
riconosciuta agli stessi di adattarla
sia all’evoluzione dei costumi, sia all’interesse del minore12.
Una prima risposta alla
delinquenza degli adolescenti è data dall’istituto della sursis, che
permette al giudice il rinvio della sua pronuncia, allorquando il pubblico
ministero abbia chiesto la condanna ad una pena detentiva. La colpevolezza del
soggetto è stata accertata, ma il Tribunale può decidere di fornirgli un’ultima
occasione, fissando un periodo di prova in cui il minore dovrà seguire delle
obbligazioni specifiche, ad esempio esercitare un’attività o seguire un corso.
In questo caso si parla di sursis con sottoposizione a prova, corrispondente
alle linee tipiche della probation; la sursis può essere anche semplice
e consistere in una sospensione condizionale della condanna13.
Un’altra misura alternativa
alla detenzione è costituita dal lavoro d’interesse generale, il Tig ( Travail
d’Interét Général ), che, per definizione, è una pena pronunciata dal
Tribunale per i minori, a fronte di un reato o di una contravvenzione. Può essere
pronunciata, a seconda dei casi, come pena principale o come modalità di una
pena detentiva, irrogata con il beneficio della sospensione e con l’obbligo di
compiere un Tig 14.
La pena può essere
pronunciata solamente in presenza dell’imputato, e dopo che quest’ultimo abbia
manifestato il suo consenso all’esecuzione di una misura di questo tipo. Si è
detto che il Tig associa lo sforzo di reinserimento con la volontà di
riparazione sociale, permettendo al giovane di misurare le conseguenze del suo
atto e di scoprire dei punti di riferimento nel processo di socializzazione.
Infine anche la Francia
conosce la figura della mediazione riparazione che, quando è organizzata a cura
del pubblico ministero, prima dell’inizio dell’azione penale, può evitare al
ragazzo di comparire di fronte al giudice; la riparazione può essere diretta o
indiretta e, in quest’ultimo caso, effettuarsi a beneficio della collettività.
Fra i presupposti dell’istituto è degno di nota quello che limita la misura ai
casi semplici e completamente chiariti. Se la misura ha avuto corso dopo
l’inizio del procedimento la conseguenza è una sanzione attenuata o la dispensa
dalla pena; quando l’attività di riparazione è stata effettuata su iniziativa
del pubblico ministero si ha l’archiviazione.15
5.3
La Germania e l’Austria
Nel 1990, in occasione della
riforma del diritto minorile tedesco, entrano in vigore le nuove misure
cosiddette ambulanti e viene altresì riconosciuto valore giuridico alla
mediazione, nella sua duplice veste di
misura educativa e alternativa16.
Le misure ambulanti sono
strumenti ad hoc; non fanno parte di una linea operativa mirata, ma
obbligano il minore a fare o a smettere determinate attività in conseguenza dei
reati commessi. Si definiscono ambulanti, perché permettono di reagire in modo
differenziato di fronte alle situazioni di devianza. Tra le misure ambulanti
più tradizionali si ricordano: l’obbligo di eseguire lavori non remunerati;
pagare una multa a favore di una istituzione sociale; vivere a casa di
determinate persone; cominciare un apprendistato o accettare un lavoro;
risarcire la vittima e presentarle le proprie scuse ecc. Queste misure sono
indicate per i reati meno gravi: ad esse, nella scala delle possibili misure,
segue l’arresto17.
Negli ultimi anni si sono
invece sviluppate le nuove misure ambulanti che concernono reati più gravi che
hanno come conseguenza l’arresto o la reclusione; fra queste sanzioni il lavoro di pubblica utilità sembra
assumere un ruolo preminente dal punto di vista quantitativo18.
L’ultima alternativa da
esaminare è la mediazione tra autore e vittima; la mediazione ha conosciuto le
prime sperimentazioni a partire dal 1985, e in seguito si è diffusa su tutto il
territorio dei vecchi Länder e di quelli nuovi risultando una delle
misure proposte dalla Jugendhilfe ( Servizi sociali ), prima o durante
un intervento sanzionatorio penale. In Germania i progetti di mediazione hanno
come idea di fondo la comprensione delle cause che hanno mosso i protagonisti
del fatto – reato, e perseguono tre scopi fondamentali19:
-
la
composizione del conflitto tre reo e vittima;
-
la
riparazione dei danni materiali e morali per mezzo di prestazioni pecuniarie o
simboliche da parte del reo;
-
la
valutazione delle prestazioni riparatorie nel procedimento penale al fine di
evitare un processo formale o almeno di ridurre la pena.
Dal 1985 in Austria viene
applicata la mediazione stragiudiziale, definita dal legislatore con la sigla
ATA ( Auβergerichtlicher Tatausgleich ), che trova solo qualche
anno più tardi regolare applicazione su tutto il territorio della nazione. Per
avviare la mediazione non è necessaria una confessione formale, ma è
sufficiente che il minore risponda del reato, e sia disposto a rimediare alle
conseguenze del suo gesto, risarcendo i danni secondo le sue possibilità.
Quando la mediazione ha esito positivo il pubblico ministero, sulla base della
relazione dei Servizi sociali, può decidere di non proseguire il procedimento
nei confronti del ragazzo. Il giudizio esclusivo sulla riuscita dell’ATA spetta
comunque alla giustizia penale che qui, diversamente dall’esperienza italiana,
è messa al corrente di tutti i fatti accaduti in fase di mediazione 20.
5.4
Inghilterra
In Inghilterra vige la
convinzione, sostenuta da molte scuole di criminologia, della improponibilità
del carcere come strumento idoneo nel trattamento della devianza minorile; per
questo motivo esiste un sistema penale
minorile denso di pene alternative alla detenzione, considerate ottimi
strumenti giuridici per la punizione del minore che delinque. Tra i vari
modelli adottati troviamo la probation: dopo la pronuncia di
colpevolezza, il giudice, se lo ritiene opportuno, propone al giovane una sorta
di periodo di prova, durante il quale, sotto la supervisione di un probation
officer, dovrà sottoporsi a determinate restrizioni comportamentali ed
eseguire alcune prescrizioni socio-educative. Il programma predisposto per il
ragazzo deve basarsi su di una approfondita valutazione della sua vita e della
sua personalità ed è aggiornato in relazione ai suoi progressi21.
Al filone delle sanzioni
sostitutive appartiene poi il Community service order, caratterizzato
dal fatto di essere una misura basata sul lavoro socialmente utile non
retribuito; anche in tale contesto il giudice dovrà valutare, sulla base di una
relazione degli assistenti sociali, se il soggetto sia idoneo al trattamento.
Anche in questa circostanza vengono stabilite prescrizioni ed è richiesta
l’osservanza di obblighi specifici, validi per l’intera durata del periodo. Per
accedere a questo tipo di trattamento, che secondo le ultime statistiche ha
notevolmente ridotto il rischio di recidiva, occorre aver compiuto sedici anni22.
Accanto alla probation e ai
lavori socialmente utili si è sviluppata una terza figura, la cosiddetta Supervision
applicabile ai minori fra i dieci e diciotto anni; il ragazzo, che beneficia
della misura, viene sottoposto alla diretta supervisione di un individuo, a cui
viene conferito un potere di controllo sull’operato del soggetto e sulla
ottemperanza delle prescrizioni stabilite. Questo servizio ha creato delle
credibili alternative alla detenzione, attraverso lo sviluppo di programmi ben
strutturati individuati sulla base delle circostanze concrete in cui il minore
è coinvolto23.
Per ciò che concerne poi la
mediazione fra vittima e autore del reato la Gran Bretagna vanta un notevole
bagaglio di conoscenze, grazie alla pratica ormai ventennale nel settore della giustizia
riparativa, e la rigorosa tipizzazione delle tecniche di conduzione di tale
pratica sono d’esempio anche per l’esperienza italiana24.
CONCLUSIONI
Quando il disagio
adolescenziale si trasforma in devianza, le istituzioni sono chiamate a
confrontarsi con una duplice esigenza: la protezione della minore età
attraverso l’adozione di misure non invasive, e la doverosità di una risposta
adeguata all’atto criminale del ragazzo, in ossequio alle naturali istanze di
ordine sociale. La difficoltà di assolvere una funzione così complessa è
ulteriormente aggravata dal malessere in cui si dibatte da qualche tempo la
giustizia minorile; la crisi in cui versa il settore è dovuta principalmente,
per opinione diffusa, alla struttura arcaica e stratificata della normativa
sostanziale di riferimento, bisognosa di urgenti interventi riformatori. [vedi,
per tutti, L. Pepino, Regole e paradossi del processo penale minorile,
in Questione giustizia, n. 1/1986, pag. 400 e ss. ]
In attesa che il legislatore
prenda in seria considerazione l’opportunità di metter mano ai testi
legislativi, il “ minorile ” ha faticosamente sviluppato un’analisi critica dei
propri limiti e delle proprie contraddizioni, inaugurando un cammino di rilievo
verso una profonda trasformazione dei meccanismi che lo governano.
Il leit motiv, che ha
scandito la ricerca di nuovi orizzonti nel campo del trattamento della
delinquenza minorile, può essere condensato in una sola parola:
responsabilizzazione. Il minore che si rende protagonista di un atto penalmente
illecito, nella maggior parte dei casi non mostra di rendersi conto del
significato del gesto e delle dirette conseguenze; inoltre l’iter formale a cui
è eventualmente sottoposto non costituisce certo l’occasione per acquisire
consapevolezza e sviluppare i presupposti di un impegno morale al rispetto
della legge. [ vedi, P. Gaeta, Il processo penale minorile: condanna
o messa alla prova?, in Questione giustizia, n. 1/1993, pag. 46 ]
Per questo motivo, c’è stato
un rinnovato interesse verso le esperienze europee, dalle quali è stata
mutuata, per quanto qui interessa, la tecnica innovativa della mediazione,
espressione di una giustizia più attenta alle esigenze educative del minore
deviante, ma che finalmente rivaluta la figura della vittima, grande assente
dalla scena processuale.
La ricerca condotta presso
alcuni centri di mediazione, attualmente operativi nel settore della giustizia
minorile, ha permesso di constatare in maniera più diretta i problemi che i
percorsi conciliativi fra autore e vittima del reato comportano a livello
organizzativo e soprattutto normativo.
Gli ostacoli per applicare
in via definitiva la tecnica mediativa sono ancora molti e, forse, il più
significativo è rappresentato in Italia dalla difficoltà di diffusione della
cultura della mediazione, al di là della stretta cerchia degli addetti ai
lavori dell’area penale. Le nuove tendenze, volte a privilegiare l’aspetto
riparatorio, non riscuotono in generale molto successo, perché è ancora troppo
forte la convinzione che la pena detentiva sia l’unica valida risposta agli
episodi di criminalità.
La sperimentazione fino a questo momento è stata condotta con un
criterio selettivo; si è preferito focalizzare l’attenzione su alcuni contesti,
ritenuti più corrispondenti alle “ esigenze ” della mediazione, rispetto ad
altri abbandonati, a quanto è dato sapere, prima ancora di aver sviluppato una
prassi sufficientemente ampia, in grado di stabilire, con il conforto del dato
empirico, la loro inidoneità ad un utilizzo in funzione di strumenti propulsivi
di percorsi conciliativi.
Inoltre le esperienze condotte hanno rilevato alcuni aspetti di incompatibilità fra la figura della mediazione e il nostro sistema di giustizia minorile; i tentativi collocati in fase di esercizio dell’azione penale trovano un’evidente ostacolo nel principio di obbligatorietà che la contraddistingue. Ciononostante i dati concreti sembrano deporre a favore di un ricorso al linguaggio mediativo in un intervallo di tempo preferibilmente vicino al fatto di reato, in nome della comune volontà di offrire una tempestiva risposta al comportamento illecito del minore. Questo tentativo è apprezzabile, ma resta sempre il fatto che il pubblico ministero non può astenersi dal perseguire quei fatti per i quali si prospetta un utile attività di mediazione, in quanto è la legge che lo obbliga in tal senso.
La ricerca empirica ha
invece abbandonato il settore dell’esecuzione, ritenendolo poco adeguato a
sviluppare tentativi di riconciliazione vittima – autore. Probabilmente una
tale scelta è stata determinata dalla considerazione che la funzione principale della
mediazione dovrebbe essere quella di risolvere il conflitto, evitando al minore
di transitare per i cancelli del sistema penale.
Tuttavia queste obiezioni
possono essere valide fino ad un certo punto, perché la mediazione è una figura
poliedrica, capace di estendere il suo potenziale durante tutto l’arco del
procedimento penale, compresa la sede esecutiva, nella quale possono sussistere
delle buone chances di sfruttamento dei suoi aspetti principali. Non
dobbiamo dimenticare poi che nella mediazione è fondamentale il percorso di
riconoscimento “ dell’altro ” e, non sempre le vicende originate dal fatto –
reato sono risolvibili nel breve periodo. In determinati casi occorre un tempo
maggiore, perché reo e vittima riescano a superare le proprie posizioni ed
esprimere il loro pieno consenso ad un momento di incontro e di spiegazione.
La mediazione è prima di tutto la ricerca della comunicazione, e in una società ormai multietnica può essere utile come strumento di confronto fra le varie culture di appartenenza: a livello giudiziario, anche nell’esecuzione della pena, avrebbe l’obiettivo di promuovere nel minore colpevole la conoscenza della “ sua vittima ”, apprezzarne l’identità, e allo stesso tempo guadagnare un atteggiamento critico nei confronti del proprio io.
La mediazione applicata, ad
esempio, alle prescrizioni previste per le sanzioni sostitutive della
semidetenzione e della libertà controllata, potrebbe arricchirle di nuovi contenuti,
più intensi e sicuramente più responsabilizzanti di quelli attuali.
Il periodo di avvicinamento
e di familiarizzazione ha il pregio di mettere in evidenza su quali punti è
necessario intervenire per garantire in modo chiaro lo sviluppo adeguato di questo
tipo di intervento, che non deve essere ristretto e limitato, ma deve offrire
spazi e tipologie differenziate di applicazione. Perciò la circostanza che
nella prassi esecutiva, anche in presenza di premesse favorevoli, sia
improbabile rintracciare episodi di applicazione di percorsi conciliativi
lascia alquanto perplessi.
Da una parte quindi è forte l’esigenza di affidare alla mediazione e, alla giustizia riparativa il compito di rivalutare l’intero sistema di giustizia minorile, amplificando l’operatività delle misure già esistenti, ma dall’altra è evidente che un tal proposito richiede interventi legislativi mirati e precisi investimenti destinati ad indirizzare le professionalità verso una cultura della ricostruzione della relazione interrotta dal fatto illecito.
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA
FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA
Tesi di Laurea
LA MEDIAZIONE
NELL’ESECUZIONE
PENALE MINORILE:
TEORIA E PRASSI
APPENDICE
(abstract)
La valutazione dell’esperienza
della Sezione di Mediazione Penale Minorile di Roma.
(Laura Volpini - Cattedra di Psicologia Giuridica Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Membro dell’équipe della Sezione di Mediazione )
In questo contributo vengono presentate alcune riflessioni relative ai dati significativi emersi dall’analisi del percorso di mediazione penale minorile della Sezione di Roma nel periodo 1997-1999.
Attraverso una ridefinizione del concetto di verifica, per ciò che concerne questo campo applicativo, si rifletterà tra gli altri sugli effetti dell’intervento di mediazione a partire dalla riduzione della conflittualità fra le parti.
Verranno quindi esposti dei dati relativi alla qualità del rapporto degli utenti con gli operatori della sezione di mediazione, il processo penale minorile e il percorso di mediazione dal punto di vista comunicativo relazionale e dei risultati prodotti.
La valutazione dell’esperienza
della Sezione di Mediazione Penale Minorile di Roma.
(Laura Volpini - Cattedra di Psicologia Giuridica Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Membro dell’équipe della Sezione di Mediazione)
in (AA.VV) "Cultura e Pratica della Mediazione, (2001) Istituto Carlo Amore, Roma
Generalmente la valutazione della mediazione (Umbreit 1994, Umbreit, Warner, Roberts 1996) si basa sui criteri del consenso/rifiuto di soddisfazione/ insoddisfazione rispetto a gruppi sperimentali e di controllo intervistati a breve e medio termine con questionario a risposte chiuse.
Nel nostro caso abbiamo ampliato alcuni criteri di verifica del percorso di mediazione, per adattarli alla nostra impostazione teorico-metodologica di tipo strategico-interazionista (Ciacci, 1983; De Leo,1991; Patrizi,1998) e alla fase di sperimentazione che andavamo verificando. Durante la sperimentazione infatti, abbiamo incontrato una serie di difficoltà legate a una nuova concezione della giustizia e del suo intervento che risultava sconosciuta o poco familiare agli utenti, e che inoltre non era di facile coordinazione con i tempi, gli spazi e le prassi operative del sistema giudiziario minorile attuale.
Il nodo più rilevante che abbiamo riscontrato è stato il consenso alla mediazione da parte delle vittime di reato. Queste magari svolgevano con noi una fase piuttosto lunga di pre-mediazione, fatta di diversi incontri, ma poi per ragioni diverse non accettavano l’idea di incontrare direttamente o indirettamente l’autore di reato. Nonostante ciò, nei nostri follow-up informali durante i colloqui separati con entrambe le parti e in quelli svolti immediatamente dopo abbiamo osservato che anche se il percorso di mediazione in senso stretto non si era compiuto, il nostro lavoro sembrava avere inciso sul conflitto interpersonale e su quello del microcontesto socio-familiare delle parti.
Riteniamo infatti che il percorso di mediazione, seguendo un funzionamento sistemico (Cirillo 1990), pur se interrotto, produce comunque dei cambiamenti nella direzione di una riduzione delle tensioni, attivando nuovi significati e nuove aperture rispetto al reato e al danno subito, nella direzione dell’attivazione di responsabilità consapevoli e reciproche e nel senso dell’empowerment (De Leo, 1996;Bruscaglioni, 1994).
La Sezione di Mediazione Penale Minorile di Roma ( Scardaccione G., Baldry, A. C., Scali M., 1998; Baldry, Scali, Volpini, 1998; Scali, Volpini 1999a, 1999b,) ha svolto quindi una verifica della sua sperimentazione relativa al periodo 97-99 includendo il criterio della comunicazione tra utenti, sistema mediazione e sistema della giustizia; e quello degli effetti del percorso di mediazione.
Attualmente la nostra attività è in una fase di riprogettazione assieme all’USSM, al Comune e al Tribunale per i Minorenni di Roma per l’avvio di una fase di intervento vero e proprio. Anche in funzione di questo, e’ stata condotta una valutazione dei risultati ottenuti fino ad oggi.
Nel presente contributo in particolare verranno brevemente messi in evidenza e commentati alcuni principali criteri utilizzati e alcuni risultati di ricerca. Innanzi tutto sono stati analizzati 20 fascicoli dei casi inviati alla sezione contenenti una scheda informativa di alcuni dati anamnestici del minore e della vittima, di informazioni relative all'invio del caso, al lavoro di équipe e all'intervento con gli utenti.
I fascicoli sono stati analizzati attraverso l'analisi del contenuto con l'analisi delle frequenze percentuali e con un commento descrittivo.
Dei 20 fascicoli aperti, abbiamo lavorato direttamente su 15 casi, mentre abbiamo fatto consulenza al servizio in 2 casi e in tre situazioni è avvenuta soltanto la presentazione da parte dell' USSM perché successivamente non è stato possibile procedere per irreperibilità delle vittime.
Le vittime inviate sono17 e 20 sono gli autori di reato. Delle prime il 23,5% (4) sono straniere e dei secondi il 30% (6) degli autori sono stranieri.
La scelta di lavorare con soggetti stranieri è dovuta principalmente al fatto di tentare di offrire un'opportunità a questa tipologia di utenza che non sempre usufruisce delle risorse innovative e promozionali del processo penale minorile (D.P.R. 448/’88).
In questa sperimentazione abbiamo inoltre scelto di lavorare anche con soggetti recidivi che sono il 35% (7) del totale. La maggioranza delle vittime il 58,8% (10) non ha denunciato e/o subito reati in precedenza.
Autore e vittima si conoscevano nel 37,5% (6) dei casi, ed erano sconosciuti nel 18,75% (3), mentre risultano marginali i reati all'interno dello stesso gruppo dei pari o con rapporto di parentela 13,5% (2). Per quanto riguarda la tipologia di reato la maggior parte dei casi sono lesioni gravi nel 37,5% dei casi (6), mentre i furti sono il 18,75% (3). I tipi di provvedimento all'interno del quale abbiamo prevalentemente lavorato sono stati l'art. 28 d.p.r. 488/1988, art.30 d.p.r. 488/1988, art.47 L. Ord. Penit. Il momento processuale in cui è avvenuto l'invio è in prevalenza in funzione del rinvio a giudizio, il 53,3% (8) mentre il 40% (6) è stato inviato in fase di esecuzione della pena.
I criteri utilizzati per la griglia di analisi dei fascicoli comprendono 1) la qualità del rapporto instaurata tra utenti ed operatori della sezione, 2) la qualità del rapporto instaurata con i servizi della giustizia, 3) la percezione del percorso di mediazione, 4) l’elaborazione del reato 5) i risultati ottenuti
1) Questo livello è stato ulteriormente scomposto in :
analisi della domanda dell’utenza:
relazioni
instaurate con i mediatori :
a) senso di accoglienza degli operatori verso gli utenti
b) chiarezza e soddisfazione per le informazioni ricevute
c) emozioni legate al rapporto con gli operatori per il lavoro svolto
Le aspettative nei confronti degli operatori dell’équipe non sono mai espresse in modo esplicito e chiaro, ma emergono implicitamente nella domanda degli utenti.
Uno spazio in cui parlare è ritenuto rilevante, in particolare da parte delle vittime e le loro famiglie.
Alcuni familiari degli autori di reato ritengono invece utile un ascolto del figlio che gli permetta di non irrigidirsi rispetto ai fatti commessi.
Nella domanda degli utenti emerge l’esigenza di essere informati e di riflettere sul senso della mediazione rispetto alla possibilità di incontrare per esempio l’autore di reato per avere spiegazioni sul reato subito. Nel caso degli autori di reato questo tipo di riflessione permette di approfondire la loro disponibilità e motivazione per questo intervento.
Un altro ruolo importante attribuito ai mediatori è quello di potere essere dei referenti che pongono domande all’altra parte, o che sondano la disponibilità dell’altro ad un incontro di mediazione.
Gli aspetti relazionali che le vittime hanno colto degli operatori sono di disponibilità all’ascolto, espressa in tre casi esplicitamente, e negli altri casi rilevabile dal bisogno manifestato dalle vittime di parlare dell’accaduto.
Molto apprezzata è stata la chiarezza espressa rispetto al “contratto” di percorso, anche se non sempre condiviso dalle parti.
I vissuti riguardanti il rapporto con i mediatori sono per lo più impliciti. In tre casi gli utenti hanno riferito di essere stati sostenuti per affrontare più serenamente il processo, oppure di avere recuperato uno stile di vita nuovamente “normale” . In un altro caso, viene espresso il dispiacere per la conclusione del rapporto con le mediatrici.
2) Il rapporto degli utenti con il Tribunale per i Minorenni e con l'Ufficio di Servizio Sociale della Giustizia minorile è stato scomposto:
Per
la vittima:
- vissuti legati al momento processuale
- richiesta di assistenza alle udienze
- garanzia di risposte adeguate al reato subito
-valutazione positiva e negativa nei confronti del processo penale minorile
Per
l'autore di reato:
- vissuti legati al processo
-sicurezza della risposta giudiziaria
Le vittime esprimono in larga maggioranza una forte domanda di giustizia, con aspettattive rispetto al processo minorile, anche se c’è la consapevolezza di un minor peso della vittima rispetto all’autore di reato nel sistema minorile.
Quasi tutte le vittime sono piuttosto sfiduciate verso il processo minorile soprattutto rispetto alla risposta giudiziaria. Il momento dell’udienza risulta particolarmente delicato per questi soggetti perché è in questo momento processuale che sentono di non essere né sostenute né ascoltate rispetto al danni subiti.
Gli autori di reato, in particolare se di origine straniera, temono la sanzione e ne hanno paura, anche per il dispiacere (in un caso) di lasciare i propri familiari.
Nei gravi reati come omicidio o lesioni gravi, il minore si affida alla giustizia per avere una risposta certa rispetto ai fatti commessi. In questi casi, almeno due i minori hanno rifiutato la messa alla prova a favore di una risposta che fosse più accettabile per la vittima e il suo senso di giustizia.
3) Il rapporto
degli utenti (vittima e autore di reato) con la mediazione è stato analizzato
dal punto di vista della mediazione come strumento per avere dei
vantaggi :
Per la vittima
- essere maggiormente informati sul processo minorile ed assumervi un ruolo attivo
- ottenere risposte alle proprie domande legate al reato
- ristabilire una comunicazione anche indiretta con il reo
- avere un senso di garanzia e legittimazione maggiore
Per
l'autore di reato
- favorire la buona riuscita del processo e dell'intervento penale
- responsabilizzare l'autore di reato rispetto all'azione commessa
Le vittime generalmente non hanno una percezione differenziata e immediatamente consapevole dei vantaggi che può produrre il percorso di mediazione. La maggior parte di loro considera in particolare i vantaggi rispetto al processo minorile, piuttosto che rispetto al reo.
Gli autori di reato, non hanno espresso particolare utilità della mediazione sul piano della legittimazione o del senso di giustizia, mentre erano molto interessati alla possibilità di riconciliazione con la vittima di reato, in particolare nei casi di gravi reati dove è più forte il bisogno di scusarsi per il danno causato.
4a) L'elaborazione dell'azione reato da parte della vittima:
a) Vissuti
b) Riconoscimento di un proprio ruolo attivo nella dinamica del reato
c) Cambiamento del proprio stile di vita dopo il reato
d) Coinvolgimento della famiglia e della comunità a seguito del reato
e) Cambiamento del proprio stile di vita
f) Capacità di riflessione sul reato
g) Richiesta di riparazione e risarcimento
Spesso sono le famiglie, in particolare le madri delle vittime a farsi portavoce dei vissuti relativi al danno subito dai figli. Le emozioni prevalenti sono la rabbia e il dolore, che in almeno tre casi, permangono per molto tempo. Il vissuto di chiusura è presente per i fatti sentiti come gravi, anche se non sono tali da un punto di vista del codice penale.
Nella nostra esperienza, in nessun caso le vittime si rendono disponibili ad una riattivazione della comunicazione con i minori autori di reato, almeno esplicitamente. In particolare sono curiose e bisognose di avere delle spiegazioni in merito ai fatti da parte di chi li ha commessi direttamente, anche se non sono stati tali da richiedere un incontro di mediazione diretta.
La capacità di riflettere sul reato viene osservato direttamente dalle vittime, che si rendono conto di avere raggiunto un maggior senso di sicurezza e di non avere più paura del reo.
4b) L'elaborazione dell'azione reato da parte dell'autore.
a) vissuti legati al reato
b) coinvolgimento della famiglia e della comunità dopo il reato
c) consapevolezza del danno
d) desiderio/rifiuto di svolgere attività riparatorie nei confronti della vittima
e) maggiore capacità di riflessione del reato commesso
Il reato e le sue conseguenze produce vissuti diversi che variano anche a seconda della tipologia dei fatti commessi.
Il coinvolgimento dei sistemi significativi di riferimento del minore, comporta una sorta di gruppo di auto aiuto (Madanes,1997) nel senso dell’apertura e dell’elaborazione dei fatti.
A differenza di quanto evidenziato per le vittime, gli imputati, si aspettano di incontrarle anche se ciascuno con motivazioni diverse. In un caso un reo considera l’incontro diretto come un momento per esporre le proprie ragioni. In altri casi incontrare la vittima significa avere la possibilità di spiegarsi e scusarsi per l’accaduto.
4) Il livello dei risultati della mediazione è stato scomposto in:
a) consenso alla mediazione
b) nodi critici del percorso di mediazione
c) effetti della mediazione
Il consenso alla mediazione è stato dato da la maggioranza dei rei e da una parte esigua della vittime su cui si è lavorato in termini di mediazione indiretta.
La fase di pre-mediazione ha riscontrato dei livelli critici che in molti casi ha portato ad interrompere il lavoro di mediazione.
I nodi critici principali hanno riguardato nel 23,6% (4)la non disponibilità della vittima alla mediazione, la gravità del reato nel 17, 6% (3), la presenza di un procedimento amministrativo di risarcimento da parte della vittima, parallelo al lavoro di mediazione 11,8% (2).
In fase di pre-mediazione abbiamo riscontrato una articolata tipologia di effetti: effetti sulla relazione tra le parti 20% (3), effetti sulla dinamica processuale 13,3% (2), effetti sull'autore del reato 40,0% (6), effetti sulla vittima nel 13,3% (2) dei casi, ed effetti sulla dinamica inter e intrafamiliare nel 14,4% (2). Tutti gli effetti vanno nella direzione di una riduzione della conflittualità fra le parti direttamente coinvolte e fra i sistemi allargati di cui fanno parte. Nel caso di due autori di reato stranieri, gli effetti della mediazione hanno avuto un effetto anche all’interno della propria famiglia, si è potuto così parlare del reato e considerare i “danni” indiretti che hanno coinvolto le relazioni sociali delle famiglie di quei minori
Per concludere, ci sembra utile sottolineare che la mediazione è un percorso complesso che include dei vantaggi e produce degli effetti non solo per coloro che concludono il percorso attraverso un incontro diretto, ma anche per coloro, che per differenti ragioni e complesse ragioni che non sono oggetto di questo contributo (De Leo, 1998), non si sentono di intraprendere quest’ultima fase di lavoro.
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1 Cfr. A. Castejon, Protezione e devianza minorile. Controllo sociale e socializzazione,Torino, 1990, pag. 434
2 Cfr A. C. Moro, Manuale di diritto minorile, Bologna, 1996, pp. 356-357
3 Cfr. A.C. Moro, cit., pag. 359
4 Cfr. G. De Leo, L’interazione deviante, Milano, 1981, pp. 3-9
5 Cfr. N. Giordani, L’abuso del concetto di personalità nella devianza minorile: la << messa alla prova >> quale occasione da non sprecare, in Rass. it. Crim,, 1999, nn. 3-4, pp. 453 e ss.
6 Così si è espresso il prof.re A. Salvini, emerito docente di Psicologia della personalità e delle differenze individuali presso l’Università di Padova, in N. Giordani,cit., pag. 455
7 Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, Trattare con adolescenti devianti, Roma, 1999, pp. 21-22
8 Cfr. N. Giordani, cit., pag. 455
Cfr. G. De Leo, cit., pag. 9
9 Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, cit., pp. 27-32
10 Cfr. G. De Leo, cit., pag. 9
11 Cfr. N. Giordani, cit., pag. 456
12 Cfr. N. Giordani, cit., pag. 458
13 Cfr. A. Longo, S. Cappuccio, D. Mollica, Dai muschilli ai baby killer. Indagine sulla criminalità minorile, a cura di Eurispes con il contributo dell’Ufficio centrale per la giustizia minorile e il Ministero di Grazia e Giustizia, Roma, 1988
14 Cfr. G. De Strobel, Analisi critica della statistica giudiziaria e criminale in tema di giustizia minorile dal 1947 ad oggi, in AA.VV., Potere giudiziario, enti locali e giustizia minorile, a cura di L. Bergonzini, M. Pavarini, Bologna, 1985, pp. 235 e ss.
15 Cfr. G. De Strobel, Analisi critica della statistica giudiziaria…,cit., pp. 237 e ss.
16 Cfr. G. De Leo, La devianza minorile. Metodi tradizionale e nuovi modelli di trattamento, Roma, 1990, pag. 119
17 Cfr. G. De Strobel, Analisi critica della statistica giudiziaria…..,cit., pag. 250
18 Cfr. A. C. Moro, Manuale di diritto minorile, cit., pp. 359 e ss.
19 Cfr. A. C. Moro, cit., M. Bouchard, Dal coprifuoco al carcere per adulti, in Questione giustizia, n. 4/1998, pag. 961, I. Merzagora Betsos, Ampiezza, andamento, tipologie della delinquenza minorile e giustizia riparativa, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale, a cura di L. Picotti, Padova, 1998, pag. 166, F. Occhiogrosso, Minorenni e criminalità in Italia, oggi, in Minori e giustizia n. 2/1994, pp. 92-97
20 Cfr. I. Merzagora Betsos, cit.
21 Cfr. A. C. Moro, cit.
22 Cfr. F. Occhiogrosso, Minorenni e criminalità in Italia, oggi, cit., pag. 90
23 Cfr. I. Merzagora Betsos, Ampiezza, andamento, tipologie.. …,cit., pp. 174 - 175
24 Cfr. I. Merzagora Betsos, Ampiezza, andamento , tipologie…..,cit., pag. 172
25 Cfr. I. Merzagora Betsos, Ampiezza, andamento, tipologie….., cit., pp. 175 - 176
26 Così M. Bouchard, Dal coprifuoco al carcere per adulti, cit., pag. 965
27 Cfr. F. Occhiogrosso, Scuola, bulli e ragazzi della mafia, in Minori e giustizia, n. 2/2000, pag. 9
28 Cfr. A. Castejon, Protezione e devianza minorile… , cit., pag. 434
29 Cfr. Relazione del procuratore
generale. Allarme baby gang, in Notiziario speciale per la Presidenza
del Consiglio, a cura di Settimana Legislativa, Anno IX, n. 3/2000, in www.minori.it
[1] Cfr M. Bouchard, Dove va la delinquenza dei giovani, dove va la giustizia minorile?, in Minori e giustizia, n. 4/1994, pag. 11
[2] Cfr. M. Bouchard, cit., pag. 10
[3]
Cfr. S. Di Nuovo, G. Grasso, Diritto e procedura minorile. Profili
giuridici, psicologici,sociali, Milano, 1999, pag. 31
[4] Cfr. S. Di Nuovo, G. Grasso, cit.
[5] Cfr. S. Di Nuovo, G. Grasso, cit., pag. 50
[6] Cfr. M. Dogliotti, A. Figone, F. Mazza Galanti, Codice dei minori, Torino, 1999, pag. 658
[7] Cfr. M. Dogliotti, A. Figone, F. Mazza Galanti, cit.
[8] Cfr S. Di Nuovo, G. Grasso, cit., pag. 51
[9] Cfr. S. Di Nuovo, G. Grasso, cit., pag. 53
[10] Cfr. M. Dogliotti, A. Figone, F. Mazza Galanti, cit.
[11] Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, Trattare con adolescenti devianti, cit. pag. 43
[12] Cfr. G. De Leo. P. Patrizi, cit., pag. 44
[13] Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, cit., pag. 45 e N. Nosengo, Il processo minorile, Conferenza del 4 aprile 2000, Facoltà di Giurisprudenza, Pisa
[14] Cfr. M. M. Correra, P. Martucci, Elementi di criminologia, Padova, 1999, pag. 77
[15] Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, cit.
[16] Cfr. N. Nosengo, cit.
[17] Cfr. M. Betti, M. Pavarini, La giustizia minorile e modello correzionale. Le ragioni profonde della crisi, in AA.VV, Potere giudiziario, enti locali, giustizia minorile, a cura di L. Bergonzini, M. Pavarini, Bologna, 1985, pag. 55
[18] Cfr M. Betti, M. Pavarini, cit., pag. 69
[19] Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, cit., pag. 48
[20] Cfr. M. Betti, M. Pavarini, cit., pag. 50
[21] Cfr. M. Betti, M. Pavarini, cit., pag. 72
[22] Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, cit., pag. 51
[23] Cfr. M. Pavarini, Il rito pedagogico, in Dei delitti e delle pene, n. 2/1991, pag.111
[24] Cfr. M. Pavarini, cit., pag. 113
[25] Cfr. G. Di Gennaro, M. Bonomo, R. Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative, Milano 1980, pag. 377 e G. La Greca, Commento art. 79, in AA.VV. Ordinamento penitenziario, Commentario, a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Padova, 2000, pag. 841
[26] Rubrica così modificata dall’art. 12 della Legge 12/01/1977 n. 1
[27] Cfr. D. Cibinel, Il sistema penale minorile, in DigDPen, XIII, Torino, 1997, pp. 340 e ss. e M. Dogliotti, A. Figone, F. Mazza Galanti, Codice dei minori, cit., pp. 558 e ss.
[28] Cfr. Corte Cost., sentenza 20 aprile 1978, n. 46, in Foro it., 1978, I, 1, pp. 1073-1074
[29] Cfr. Corte Cost., sentenza 21 luglio 1983, n. 222, in GCos, 1983, pag. 1319
[30] Cfr. R. Pinardi, Discrezionalità ed efficacia temporale delle dichiarazioni di incostituzionalità: la sentenza n. 125/1992 come decisione di <<incostituzionalità accertata, ma non dichiarata>>, Commento alla sentenza 25 marzo 1992, n.125, in GCos, 1992, pag. 1086
[31] Cfr. Corte Cost., sentenza 28 aprile 1994, n.168, in GCos, 1994, pag. 1254
[32] Cfr. D Cibinel, cit., pag. 345
[33] Cfr. Corte Cost., sentenza 22 aprile 1997, n. 109, in GCos., 1997, II, pag. 2019
[34] Cfr. Corte Cost., sentenza 10-17 dicembre 1997, n.403, in GD, in 1998 (2), pag. 73
[35] Cfr. Corte Cost., sentenza 30 dicembre 1998, n. 450, in GCos, 1998, III, pag. 3738
[36] Cfr. Corte Cost., sentenza 1 dicembre 1999, n. 436, in GCos, 1999, III, Pag. 3829
[37] Cfr. V. Ferraris, Ancora una supplenza della Corte Costituzionale a lacune normative della disciplina penitenziaria minorile, in LP, n. 1/2000, pp. 89 e ss.
[38] Cfr. D. Cibinel, cit.
[39] Le tesi sono state elaborate dal prof. dr. Frieder Dűnkel, docente di Criminologia all’Università Ernst-Moritz-Arndt, Greifswald, membro autorevole del comitato esecutivo dell’Aimjf. Cfr. F. Dünkel, Le tesi di Brema per un avanzamento della giustizia minorile, in Minori e giustizia, n. 4/1994, pp. 19 e ss.
[40]
Cfr. Progetto di legge n. 7225, Disposizioni relative all’applicazione ai
minori delle misure penali, Camera dei deputati, Luglio 2000, in
www.giustizia.it
[41] Cfr F. Imposimato, Un impegno forte per una realtà difficile, in AA.VV. Le nuove criminalità, a cura di M. Cavallo, Milano, 1995, pag. 71
[42] Cfr L. Pepino, Linee generali di una riforma dell’ordinamento penitenziario per i minorenni, in AA.VV. I minori e il carcere, a cura di P. Pazè, Milano, 1989, pag. 169
[43]Cfr E. Fassone, La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma penitenziaria, Bologna, 1980, pag. 265
[44] Cfr. S. Larizza, Profili sostanziali della sospensione del processo minorile nella prospettiva della mediazione penale, in AA.VV., La mediazione nel sistema penale, a cura di L. Picotti, Padova, 1998, pp. 98-99
[45] Vedi rispettivamente L. 663/1986 e la L. 689/1981
[46] Vedi artt. 98 co. 1 e 65 c.p.
[47] C. Scivoletto, Per i minori stranieri solo accoglienza in carcere, in Minori e giustizia, n. 1/2000, pp. 24-25
[48] Cfr. L. Pepino, op., cit., pp. 168-169
[49] Cfr. L. Pepino, op., cit.
[50] Cfr.S. Larizza, op., cit., pp. 99-100
[51]
Corte Cost., sentenza 25 marzo 1992, n. 125, in GCos 1992, pag. 1073 e
Corte Cost., sentenza 28 aprile 1994, n. 168, in GCos 1994, pag. 1254
[52] Cfr. Co. Cost., sent. 28 aprile 1994 cit.
[53] Cfr. S. Larizza, op., cit., pp. 104-105
[54] Cfr. S. Larizza, op., cit.
[55] Cfr. L. Pepino, op., cit.
[56] Cfr. D. Scatolero, Il carcere negato. Considerazioni sulla decarcerizzazione in ambito minorile, in I minori e il carcere, pag. 108
[57] Cfr. M.V. Randazzo, L’inserimento di minori nella criminalità mafiosa a Palermo, in AA.VV. Le nuove criminalità, pag. 57
[58] Negli istituti penali italiani e, prima ancora, nei centri di prima accoglienza entra un numero stabile di minori, ma la composizione di questo numero sta cambiando, poiché è sempre più alta la percentuale di minorenni stranieri. A conferma diretta di questo dato l’avvocato penalista, dott.sa Sibilla Santoni, patrocinante presso il Tribunale di Firenze ha evidenziato come attualmente, nel carcere minorile del capoluogo toscano gli italiani ivi detenuti raggiungano le 2 unità e in più non appartengano anagraficamente all’area della Toscana.
[59] Questi ragazzi spesso giungono in Italia soli e privi di mezzi si sostentamento attratti dal nostro benessere, per venire poi convogliati all’interno di organizzazioni malavitose e sfruttati come manovalanza a basso costo.
[60] Cfr. D. Scatolero, op.cit.,pag.116
[61] Cfr D. Scatolero, op., cit., pag. 112
[62] Cfr. M. Bouchard, Alcune riflessioni sulle linee di politica giudiziaria dell’Ufficio centrale per la giustizia minorile, in Dei delitti e delle pene, n. 2/1993, pag. 144
[63] Cfr. C. Losana, Risposte possibili al comportamento deviante, in AA.VV. P. Pazè, op.,cit., pag. 133
[64] Può sembrare quasi un paradosso ma, specialmente per quei minori inseriti in contesti famigliari ad alto rischio di criminalità, il più delle volte di tipo mafioso, diventa impossibile iniziare un percorso di ricostruzione di legami sociali autentici, se non si provvede ad allontanare il ragazzo dall’ambiente di provenienza.
[65] Cfr. D. Scatolero, op., cit.
[66] Cfr. M. Bouchard, Le nuove tendenze di diritto penale minorile, in Minori e giustizia, n. 1/1997, pag. 121
[67] Cfr. L. Pepino, op., cit., pag. 174
[68] Cfr. L. Pepino, op., cit., pag. 170
[69] <<Il termine “misura alternativa” è, in effetti, appropriato per il probation solo in larga approssimazione, perché esso consiste in una verifica circa la possibilità o meno di prescindere dalla pena detentiva, non in qualcosa di contrapposto alla stessa.>> Così L. Pepino, op., cit., pag. 183
[70] Cfr. L. Bresciani, Corso di diritto penitenziario. Anno Accademico 1999/2000, Pisa, maggio 2000
[71] Cfr. L. Pepino, op., cit.
[72] Solo per citarne qualcuno fra i tanti, M. Bouchard, M. Cavallo, L. Picotti, C. Scivoletto, S. Larizza
[73] Cfr. M. Bouchard, Vittime e colpevoli: c’è spazio per una giustizia riparatrice?, in Questione giustizia, n. 4/1995, pag. 889
[74] Cfr. S. Nasca, Le alternative alla detenzione tra crisi del Welfare State e dell’ideologia del trattamento, in Marginalità e società, n. 26/1994, pp. 96-98
[75] Cfr. S. Nasca, op., cit., pp. 100-101
[76] Si tratta della trentesima ed ultima delle c.d, Tesi di Brema, presentate al 14º Congresso Internazionale della AIMJF, vedi pag. 60
37 Cfr. G. Scardaccione, A. Baldry, M. Scali, Mediazione penale: ipotesi di intervento nella giustizia minorile, Milano, 1998, pag. 4
38 Cfr. G. Garena, Una riflessione sul
modello riparativo finalizzata allo
sviluppo della comunità, in Minori e giustizia, n. 2/1999, pag. 51
39 Cfr. G. Scardaccione, A. Baldry, M. Scali, cit., pag. 2
40 Cfr. U. Gatti, M. I. Marugo, La vittima e la giustizia riparativa, Relazione presentata al X Congresso Nazionale della Società Italiana di Criminologia, La criminologia e la psichiatria forense di fronte alla vittima, Gargnano del Garda, 13-15 Maggio 1994
41 Cfr. U. Gatti, M. I. Marugo, La vittima e la giustizia riparativa, in AA.VV. Tutela della vittima e mediazione penale, a cura di G. Ponti, Milano, 1995, pag. 87
42 Cfr. U. Gatti, M. I. Marugo, La vittima e la giustizia riparativa, cit.
43 Cfr. U. Gatti, M. I. Marugo, La vittima e la giustizia riparativa, cit., pag. 88
44 In realtà il suggerimento in tal senso provenne da Margery Fry, emblematica figura della Howard League for Penal Reform, e contenuto nel suo celebre libro Arms of Law, e l’applicazione che ne seguì fu condotta a livello sperimentale.
45 Cfr. S. Ciappi, A. Coluccia, Giustizia criminale. Retribuzione, riabilitazione e riparazione: modelli e strategie di intervento a confronto, Milano, 1997, pag. 103
46 Cfr. S. Ciappi, A. Coluccia, Giustizia criminale…, cit. pag. 104
47 La vittimologia è tradizionalmente fatta risalire al 1948, quando viene pubblicato il primo saggio, ad opera di H. Von Hentig sui complessi rapporti che si creano fra le vittime di un atto criminale e il loro aggressore. Lo studio di allora è ancora impostato nella prospettiva del reato, nell’intento di chiarire il ruolo della vittima nella commissione del reato. Solo successivamente saranno oggetto di ricerca gli effetti del reato e i bisogni della vittima. Vedi U. Gatti, M. I. Marugo, Verso una maggior tutela dei diritti delle vittime: la giustizia ristorativa al vaglio della ricerca empirica, in Rass. It. Crim., n. 4/1992, pag. 487
48 Cfr. S. Ciappi, A. Coluccia, Giustizia criminale..., cit., pag. 105
49 Cfr. M. Bouchard, Vittime e colpevoli: c’è spazio per una giustizia riparatrice, cit., pag. 894
50 Cfr. G. Scardaccione, A. Baldry, M. Scali, Mediazione penale: ipotesi di intervento…, cit., pag. 8
51 Cfr. G. Scardaccione, A. Baldry, M. Scali, cit., pag. 7
52 Cfr. M. Pavarini, Decarcerizzazione e mediazione nel sistema penale minorile, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale, cit., pag. 10
53 Cfr C. Scivoletto, C’è tempo per punire, Milano, 1993, pp. 24-30
54 Art. 1754 del Codice Civile
55 Cfr. M. Bouchard, Mediazione: dalla repressione alla rielaborazione del conflitto, in Dei delitti e delle pene, n. 2/1992, pag. 191
56 Cfr. M. Bouchard, Mediazione: dalla repressione…, cit., pag. 192
57 Cfr. J.P. Bonafé-Schimitt, Una, tante mediazioni, in AA.VV La sfida della mediazione, a cura di G.V. Pisapia, Padova, 1997, pag. 24
58 Cfr. E. Esposito, Per una nuova cultura del conflitto tra giurisdizione, riconciliazione e riparazione: una lettura psico-sociale del Decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, in Diritto & Diritti -rivista giuridica on line, gennaio 2001, pag. 2
59 Cfr. M. Bouchard, Spunti di riflessione per un diritto penale mite, in Questione giustizia, n. 2/2001, pag. 207
60 Le tecniche di ristorative justice trovano posto anche in altri settori, per esempio in ambito civile dove costituiscono un valido strumento di salvaguardia dei diritti del minore, quale soggetto maggiormente colpito dagli effetti negativi della separazione o del divorzio dei genitori, spesso non consensuali. Vedi G. Pisapia, La scommessa della mediazione, in AA.VV La sfida della mediazione, cit., pag. 7
61 Cfr. S. Ciappi, A. Coluccia, Giustizia criminale…, cit. pag. 117
62 Cfr. M. Bouchard, Mediazione: dalla repressione…, cit., pag. 193
63 La definizione appartiene a Jean-Pierre Bonafé-Schimitt, ed è contenuta nel famoso testo La Médiation: une justice douce, pubblicato a Parigi nel 1992 e di cui è autore lo stesso Schimitt.
64 Cfr. M. Mattè, Una giustizia per parlarsi, in Il Regno, n.2/1998, pag. 46
65 Vedi Le tesi di Brema per un avanzamento della giustizia minorile (art. 30 ), cap. II
66 Cfr. A. Orsenigo, La mediazione come strumento dell’intervento sociale con gli adolescenti. Una riflessione critica su alcune dimensioni problematiche, in AA.VV La mediazione nel sistema penale, cit., pp. 259-260
67 Cfr F. Cantalupi, mediatrice penale del S.A.E.D. ( Servizio educativo adolescenti in difficoltà ), presso l’Ufficio di Mediazione penale, Milano
68 Cfr. A. Orsenigo La mediazione come strumento dell’intervento sociale, cit., pag. 260
69 Cfr, F. Cantalupi circa l’esperienza personale di mediatrice.
70 Cfr. F. Cantalupi, cit.
71 Si fa riferimento in particolare alla raccomandazione n. R (99)19 adottata dal comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 15 Settembre 1999. Tale documento ribadisce l’importanza dello sviluppo tra gli Stati membri dell’impiego della mediazione in ambito penale come opzione complementare o alternativa alle procedure penali anche in ottemperanza di obiettivi social preventivi.
72 L’Ufficio centrale per la Giustizia minorile è l’istituzione che ha il compito di organizzare e coordinare gli interventi esecutivi penali della giustizia minorile. E’ nato come organo operativo del ministero di Grazia e Giustizia con il compito di rendere effettivi alcuni istituti giuridici e alcune funzioni basilari del nuovo rito minorile del 1989. L’intenso lavoro svolto in molteplici direzioni, grazie alla distribuzione sul territorio nazionale di sezioni decentrate, ha incontrato la generale approvazione e nel 1992 l’Ufficio ha finalmente raggiunto la sospirata autonomia dagli altri settori del Ministero di Grazia e Giustizia, raddoppiando inoltre la propria dotazione organica.
Di recente l’Ufficio centrale (l’aggettivo centrale fa riferimento alla nuova veste di centro dotato di autonomia) ha predisposto un programma dal quale emerge chiaramente la sua funzione di generale protezione dell’infanzia e dell’adolescenza e di promozione dei diritti dei minori. Per un maggior approfondimento: M. Bouchard, Alcune riflessioni sulle linee di politica giudiziaria dell’Ufficio centrale per la giustizia minorile, in Dei delitti e delle pene, n.2/1993, pp.146-147
73 Cfr. L. Viggiani, E. Ciuffo, in AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive, a cura dell’Ufficio centrale per la giustizia minorile, cit., pp. 13-16
74 Cfr. L. Viggiani, E. Ciuffo, cit.
75 Si tratta delle circolari 14 dicembre 1995, prot. 44109 e 1 aprile 1996, prot. 40469 a cura del Ministero di Grazia e Giustizia, Ufficio centrale per la Giustizia minorile. Le due circolari hanno ad oggetto Ipotesi di sperimentazione di un servizio di mediazione giudiziaria penale e di riconciliazione della vittima ed autore del reato ( l’ultima corredata dal documento: Ipotesi di attuazione di programmi di mediazione nell’ambito del d.p.r. 488/1988 ). Cfr. L. Picotti, La mediazione nel sistema penale minorile: spunti per una sintesi, cit., pag. 311
76 Cfr. L. Viggiani, Mediazione penale fra esperienze e progetto, in AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile…, cit., pag. 59
77 Cfr. Documenti, in Minori e giustizia, n. 2/1999, pp. 163-185
78 Cfr. L. Viggiani, E. Ciuffo, cit., pag. 15
79 Si è svolto a Roma nei giorni 17 e 18 dicembre del 1998 un seminario di studio, nel corso del quale sono state confrontate le esperienze dei vari Uffici di Mediazione sorti sul territorio italiano.
80 In particolare margini seri di ambiguità esistono in merito alla questione cruciale se la mediazione debba essere centrata sui bisogni della vittima o sulle esigenze riabilitative del reo, oppure sulle funzioni primarie di giustizia. Per un maggior approfondimento del tema, U. Gatti, M. I. Marugo, La vittima e la giustizia riparativa, in AA.VV. Tutela della vittima e mediazione penale, cit. pag. 20
81 Cfr. L. Picotti , La mediazione nel sistema penale minorile: spunti per una sintesi, in AA.VV. La mediazione…cit., pag. 295
82 Cfr. M. Bouchard, La mediazione: una terza via per la giustizia penale?, cit., pp. 775-776
83 Cfr. I. Merzagora Betsos, Ampiezza, andamento, tipologie della delinquenza minorile e giustizia riparativa, in AA.VV. La mediazione…, cit., pp. 165 e ss.
84 Cfr. M. Pavarini, Decarcerizzazione e mediazione nel sistema di giustizia penale minorile, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit., pp. 17-18
85 Cfr. F. Ruggeri, Obbligatorietà dell’azione penale e soluzioni alternative nel processo penale minorile, in AA.VV. La mediazione…, cit., pp. 192-194
86 Cfr. Commissione consultiva e di coordinamento per i rapporti con le regioni e gli enti locali, L’attività di mediazione nell’ambito della giustizia penale minorile. Linee di indirizzo, Roma, 1999, in www.giustizia.it studi e rapporti, pp. 7-8 e C. Mazzucato, L’esperienza dell’Ufficio di mediazione a Milano, in AA.VV., La mediazione penale in ambito minorile…., cit., pp. 150-151
87 Cfr. L. Viggiani, Mediazione penale fra esperienza e progetto, in AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile…, cit., pag. 58
88 Cfr. G. Scardaccione, A. Baldry, M. Scali, La mediazione penale. Ipotesi di intervento nella giustizia minorile, cit., pag. 6
89 Cfr. C. Scivoletto, C’è tempo per punire, cit.
90 Cfr. A. Ceretti, Progetto per un
Ufficio di mediazione penale presso il Tribunale dei minorenni di Milano,
in AA.VV. La sfida della mediazione, cit., pp. 96-98
91 Cfr. L. Viggiani, E. Ciuffo, in AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile…, cit., pag. 16
92 Cfr. Commissione nazionale e consultiva e di coordinamento per i…., L’attività di mediazione nell’ambito della giustizia minorile, cit., pag. 6
93 Cfr. A. C. De Vanna, L’Ufficio di mediazione civile e penale presso Procura e Tribunale per i minorenni di Bari, in AA.VV. Il progetto riparazione. Atti del percorso formativo, a cura del Centro di Giustizia minorile del Piemonte e della Valle d’Aosta, Torino, 2-3-4 Giugno 1998, pp. 18-30
94 Cfr. A. C. De Vanna, Il progetto di riparazione.Atti del percorso formativo, cit. pag. 26
95 Cfr. M. Scali, L. Volpini, Le principali caratteristiche dell’intervento della Sezione di mediazione penale minorile di Roma, in Minori e giustizia, n. 2/1999, pp. 156-159
96 Cfr. G. De Leo, P. Patrizi, Mediazione e conciliazione con la vittima, in Trattare con adolescenti devianti, cit., pp. 161-163
97 Una differenza di questo tipo è stata rilevata per esempio, comparando l’attività di mediazione svolta dalla sezione di Milano con quella di Roma. La dott.sa Cantalupi ha chiarito che in quel di Milano la prassi conosce un unico incontro diretto fra vittima e reo la cui durata può raggiungere anche le sette ore. L’unica eccezione a questa regola si data dal caso in cui ci siano più parti coinvolte nell’illecito.
98<< Spesso la vittima è molto restia a partecipare a simili iniziative; è ancora scossa da quanto si è verificato a suo danno e si rifiuta di incontrare il suo aggressore. Il mediatore allora cerca di convincerla nel suo stesso interesse a non perdere questa opportunità per riuscire ad ordinare quello che le è accaduto>>. Così si espressa Federica Cantalupi, mediatrice S.A.E.D. di Milano.
99 Cfr. Federica Cantalupi, S.A.E.D. di Milano
100 Cfr. Federica Cantalupi
101 La mediazione può comprendere anche un progetto di riparazione del danno, svolto dal reo in favore della vittima. L’accordo se riesce è opera dei protagonisti.
102 Cfr. Federica Cantalupi
103 Cfr. L. Volpini, M. Scali, Le principali caratteristiche dell’intervento della Sezione di mediazione penale minorile di Roma, cit., pag. 161
104 Cfr. F. Buniva, L’esperienza di mediazione penale nell’area torinese, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit., pag. 242
105 Cfr. M. Abrate, La mediazione nell’ambito penale minorile: il progetto., pag. 2 in www.minori.it
106 Cfr. M. Bouchard, Vittime e colpevoli: c’è spazio per una giustizia riparatrice?, cit., pag. 906
107 Cfr. E. Esposito, La mediazione penale minorile: aspetti, problemi e prospettive in una visione di tipo sistematico, cit., pag. 5
108 Cfr. L. Fadiga, intervento riportato
in La mediazione penale minorile:applicazioni e prospettive, cit., pag.
232
109 Cfr. articolo 9 d.p.r. n. 488 del 1988
110 Cfr. M. Bouchard, Mediazione: diritto e processo penale, in AA.VV. La mediazione penale minorile: applicazioni e prospettive, cit., pag. 208
111 Cfr. M. Pavarini, Decarcerizzazione e mediazione nel sistema penale minorile, in AA.VV. La mediazione penale minorile, cit., pag. 16
112 Cfr. F. Ruggeri, Obbligatorietà dell’azione penale e soluzioni alternative nel processo penale minorile, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit., pp. 194-195
113 Cfr. M. Bouchard, Vittime e colpevoli: c’è spazio per una giustizia riparatrice?, cit. pag. 900
114 Cfr. L. Picotti, La mediazione nel
sistema penale minorile: spunti per una sintesi, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit., pag. 298
115 Cfr. C. Mazzucato, La mediazione nel sistema penale minorile, in AA.VV. Minori, giustizia penale e intervento dei servizi, cit., pag. 145
116 Cfr. D. Scatolero, intervento orale nel dibattito sul tema della mediazione nel sistema penale minorile tenutosi a Bolzano il 31 gennaio e il 1 febbraio del 1997.
117 Cfr. C. Mazzucato, Ufficio per la mediazione di Milano, Giugno 2000
1 Cfr. i documenti dell’Ufficio centrale per la giustizia minorile del 10/11/95, 14/12/95, 1/04/96
2 Cfr. C. Scivoletto, C’è tempo per punire, cit., pag. 58
3 Cfr. R. Ricciotti, La giustizia penale minorile, Padova, 2001, pag. 57
4 Cfr. U. Gatti, A. Verde, Il sistema della giustizia minorile alla riconquista dei territori perduti: osservazioni sulla riforma della procedura penale minorile, in AA.VV. I minori e il carcere, cit., pag. 85
5 Cfr. F. Palomba, Commento all’art. 28, in Esperienze di giustizia minorile, nn. 1-4/1989, pag. 204
6 Cfr. L. Fadiga, intervento, in AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive, cit., pp. 231-232
7 Cfr. P. Patrizi, Potenzialità e rischi operativi del nuovo codice processuale minorile, in Nel segno del minore, a cura di L. De Cataldo Neuburger, Padova, 1990, pag. 134
8 Cfr. M. Bouchard, Mediazione:
diritto e processo penale, in AA.VV. La mediazione penale minorile: applicazioni
e prospettive, cit., pag. 210
8 Cfr. M. Bouchard, La mediazione: diritto e processo penale, in AA.VV. La mediazione penale minorile: applicazioni e prospettive, cit.
9 Cfr. F. Ruggeri, Obbligatorietà dell’azione penale e soluzioni alternative nel processo penale minorile, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit., pag. 197
10 Cfr. S. Santoni, L’esperienza della
sospensione del processo e della messa alla prova nell’ambito del Tribunale per
i minorenni di Firenze, in www.l’altrodiritto.it
11 Nel 1998 sono stati registrati complessivamente 1249 casi di messa alla prova; di questi solo in 403 casi il giudice ha impartito al ragazzo una o più prescrizioni. Le più frequenti riguardano attività di studio, volontariato, lavoro; frequentemente si chiede al ragazzo di aver contatti con il servizio sociale e di avvalersi del sostegno di uno psicologo, in alcuni casi è prescritta la permanenza in comunità. Il giudice ha impartito solo in 29 casi le prescrizioni di tipo riparativo – conciliativo: in particolare è stata prescritta la riconciliazione con la parte lesa in 23 casi e nei restanti 6 si è avuto il risarcimento simbolico del danno. Cfr. USSM di Milano, L’applicazione della messa alla prova: bilancio e prospettive, Milano, Giugno 2000
12 Cfr. A Mestitz, M. Colamussi, Messa alla prova e restorative justice, in Minori e giustizia, n. 2/2000, pp. 252-253
13 Cfr. A. C. Baldry, Conciliazione nell’ambito della giustizia penale minorile, in Critica penale I-II, 1997, pag. 77
14 Cfr. S. Larizza, Profili sostanziali della sospensione del processo minorile nella prospettiva della mediazione penale minorile, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit., pag. 113
15 Cfr. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 1996, pp. 295 e ss.
16 Cfr. I. Mastropasqua, I minori e la giustizia. Operatori e servizi dell’area penale, Napoli, 1997, pag. 62
17 Cfr. P. Martucci, La conciliazione con la vittima nel processo penale, in AA.VV Tutela della vittima e mediazione penale, cit., pag. 159-160
18 Cfr. R. Ricciotti, Gli strumenti della giustizia penale minorile, Padova, 1998, pag. 94
19 Cfr. M.M. Correra, P. Martucci, G. Scardaccione, L’applicazione dell’istituto della sospensione del giudizio con messa alla prova nell’attività giudiziaria dei Tribunali per i Minorenni di Roma e di Trieste, in Rivista di Polizia, n. 1/1992, pp. 523-524
20 Cfr. C. Mazzucato, L’esperienza dell’Ufficio di mediazione a Milano, in AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive, cit., pag. 151
21 Alcuni Tribunali di Sorveglianza stanno sperimentando, con riferimento a persone maggiorenni, la predisposizione di un progetto di riparazione da parte del reo richiedente l’affidamento in prova che, se valutato idoneo, viene inserito tra le prescrizioni della misura. Per un maggior approfondimento vedi L. Monteverde, Mediazione e riparazione dopo il giudizio: l’esperienza della magistratura di sorveglianza, in Minori e giustizia, n. 2/1999, pp. 88-89
22 Cfr. Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. R ( 99 ) 19, in materia di mediazione penale relativa al capo V, Attività dei servizi di formazione, punti n. 22, 23, 24, pp. 25-26
23 Cfr. Raccomandazione n. ( 99 ) 19,
Commento all’appendice. Principi generali, punto n. 4, pag. 20 e F.
Dűnkel, Le tesi di Brema per un avanzamento della giustizia minorile, in
Minori e giustizia, cit., pag. 22
24 Cfr. M. Bouchard, Mediazione: diritto e processo penale, in AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive, cit., pag. 212
25 Cfr. S. Ciavattini, intervento, in
AA.VV. La mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive,
cit., pp. 224 -225
26 Cfr. Colloquio con un Magistrato di Sorveglianza del Tribunale dei Minorenni di Milano
27 La minore è infatti scappata con la famiglia, temendo di dover ritornare in carcere e, in questo modo ha vanificato l’esito sicuramente favorevole della mediazione con lei condotta. La fonte di questo esempio è la dott.ssa Laura Volpini della sezione di mediazione di Roma.
28 La dott.ssa Stefania Ciavattini, vice – direttrice pedagogica del Carcere Beccaria di Milano, mi ha riferito che in quel di Milano i ragazzi rimangono in detenzione per un periodo massimo di 9 mesi, eccezion fatta per i casi più gravi. I progetti trattamentali da loro effettuati prevedono attività di tipo riparatorio, che possono consistere in attività di interesse sociale come la pulizia delle spiagge o dei litorali, oppure in attività che abbiano più in generale un contenuto istruttivo e risocializzante.
29 Cfr. dott. Adolfo Ceretti, professore di Criminologia presso l’Università di Milano.
1 Cfr. G. De Leo, G. Scardaccione, Esperienze di riconciliazione vittima – autore del reato ed ipotesi di applicabilità nel processo penale minorile, in Tutela della vittima e mediazione penale, cit., pag. 150
2 Cfr. M. Bouchard, Le nuove tendenze di diritto penale minorile, in Minori e giustizia, n. 1/1997, pp. 121-125
3 In Italia la giustizia minorile fa frequentemente ricorso all’impegno lavorativo del reo, soprattutto con riguardo all’istituto della Messa alla prova, o nel contesto delle misure sostitutive ed alternative alla detenzione. La natura di queste attività riveste, di volta in volta, le finalità più disparate ( affittiva, risocializzante, promozionale ) di modo che non è possibile nessun tipo di comparazione con i lavori di interesse generale dell’esperienza straniera.
4 Cfr. G. Scardaccione, A.C. Baldry, M. Scali, Mediazione penale. Ipotesi d’intervento nella giustizia minorile, cit., pag. 15
5 Cfr. al capitolo III, pag. 82
6 Cfr. C. Scivoletto, C’è tempo per punire, cit., pp. 26-30
7 La diversion è una procedura amministrativa di natura informale, orientata al recupero dell’autore del reato tramite un’attività di assistenza psicologica, medica o sociale che si pone come alternativa al processo. In sintesi è una misura di de-giurisdizionalizzazione. Per un maggior approfondimento vedi S. Ciappi, A. Cosuccia, Giustizia criminale. Retribuzione, riabilitazione e riparazione…, cit., pp. 74-75
8 La ricerca che ha portato a formulare
tali riflessioni si è svolta soprattutto in Canada. Vedi M.S. Umbreit, Victim – Offender
Mediation with violent Offenders: implications for modification of the Vorp
model, in Viano E., The Victimology Handbook, London, 1990, pag. 337
9 Cfr. S. Ciappi, S. Coluccia, cit., pag. 30
10 Cfr. U. Gatti, M. I. Marugo, La
vittima e la giustizia riparativa, in Tutela
della vittima e mediazione penale,
cit., pp. 89-91
11 Cfr. C. Scivoletto, cit., pp. 65-67
12 Cfr. C. Kulyk, Le misure alternative alla detenzione dei minori in Francia, in Le nuove criminalità, cit. pp. 269-270
13 Cfr. C. Scivoletto, cit., pag. 59
14 Cfr. J. Biegel, Il Lavoro d’Interesse generale. La mediazione-riparazzione, in Il progetto di riparazione. Atti del percorso formativo, cit., pag. 51
15 Cfr. C. Kulyk, Le misure alternative alla detenzione dei minori in Francia, cit., pp. 276-277
16 Cfr. F. Dunkel, La mediazione in Germania, in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit., pag. 117
17 Cfr. D. Vieten-Gross, Le misure alternative nel diritto penale minorile tedesco, in AA.VVLe nuove criminalità, cit., pag. 279
18 Cfr. F. Dunkel, La mediazione in Germania, cit., pag.135
19 Cfr. F. Dunkel, Le legislazioni sui minori in Europa: attuali tendenze di politica penale, cit., pag. 115
20 Cfr. B. T. Kaufmann, Esperienze di
mediazione in ambito austriaco: suggerimenti, modelli, metodologie, strumenti,
in AA.VV. La mediazione nel sistema penale minorile, cit. pp.152-159
21 Cfr. P. Pepe, Il trattamento della
delinquenza minorile in Inghilterra, in Rass. It. Crim., 1998, pag.
337
22 Cfr. J. Curran, La criminalità minorile e giovanile in Gran Bretagna, in AA.VV. Le nuove criminalità, cit., pp. 284-285
23 Cfr. P. Pepe, Il trattamento della delinquenza minorile in Inghilterra, cit., pag. 341
24 Cfr. M. Umbreit, A.W. Roberts, La
mediazione penale : valutazione dei centri di Coventry e Leeds, in
AA.VV. La sfida della mediazione, cit., pag. 66