Il lavoro

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1024 561 XV rapporto sulle condizioni di detenzione

Dario Di Cecca

 

Modifiche alla disciplina del lavoro in carcere e l’introduzione dei lavori di pubblica utilità.

La riforma non stravolge la disciplina previgente ma introduce alcune importanti novità. La più controversa però è quella dei lavori di pubblica utilità. E intanto si nega al detenuto che ha lavorato in carcere l’indennità di disoccupazione.

Numeri e statistiche
«Il lavoro dei detenuti è senz’altro un tema centrale in un sistema di esecuzione penale volto a favorire il reinserimento della persona condannata. È in questa prospettiva che occorre promuovere percorsi di formazione professionale, portare all’interno degli Istituti lavorazioni di aziende piccole, medie e grandi attraverso incentivi fiscali, sostenere il lavoro esterno attraverso l’applicazione di misure alternative, sostenere le attività delle cooperative sociali dentro e fuori gli Istituti». Con queste parole si apre la Relazione al Parlamento del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, presentata nel marzo del 2019.
Eppure gli ultimi dati pubblicati dal Ministero della Giustizia fotografano una situazione che si discosta non poco dagli auspici del Garante.
Al 31 dicembre 2018 su 59.655 detenuti complessivamente presenti nelle carceri italiane, i lavoranti erano 17.614, di cui 6.373 stranieri e 809 donne. Questo dato registra il primo – seppur lieve – calo dopo un costante incremento nella serie storica delle rilevazioni che, dall’inizio degli anni novanta, hanno visto sostanzialmente crescere in modo progressivo il numero dei detenuti impiegati in attività lavorative.

Percentuale degli occupati tra i detenuti

Fonte: nostra elaborazione su dati DAP

Data Detenuti Lavoranti Lavoranti Totale % Lavoranti
Rilevazione Presenti alle dipendenze non alle dipendenze lavoranti sui detenuti
dell’Amministrazione dell’Amministrazione presenti
Penitenziaria Penitenziaria
30/06/1991 31.053 9.594 1.106 10.700 34,46
31/12/1991 35.469 9.615 1.287 10.902 30,74
30/06/1992 44.424 10.698 1.031 11.729 26,4
31/12/1992 47.316 9.766 1.247 11.013 23,28
30/06/1993 51.937 9.861 1.301 11.162 21,49
31/12/1993 50.348 9.398 1.361 10.759 21,37
30/06/1994 54.616 9.995 1.496 11.491 21,04
31/12/1994 51.165 10.061 1.426 11.487 22,45
30/06/1995 51.973 9.979 1.925 11.904 22,9
31/12/1995 46.908 10.351 1.603 11.954 25,48
30/06/1996 48.694 9.989 1.747 11.736 24,1
31/12/1996 47.709 10.222 1.746 11.968 25,09
30/06/1997 49.554 10.156 1.870 12.026 24,27
31/12/1997 48.495 10.033 1.677 11.710 24,15
30/06/1998 50.578 10.691 1.661 12.352 24,42
31/12/1998 47.811 10.356 1.483 11.839 24,76
30/06/1999 50.856 10.253 1.717 11.970 23,54
31/12/1999 51.814 10.421 1.482 11.903 22,97
30/06/2000 53.537 10.978 1.613 12.591 23,52
31/12/2000 53.165 11.121 1.684 12.805 24,09
30/06/2001 55.393 11.784 2.031 13.815 24,94
31/12/2001 55.275 11.784 2.039 13.823 25,01
30/06/2002 56.277 12.110 2.245 14.355 25,51
31/12/2002 55.670 11.213 2.261 13.474 24,2
30/06/2003 56.403 11.198 2.432 13.630 24,17
31/12/2003 54.237 11.463 2.310 13.773 25,39
30/06/2004 56.532 11.951 2.263 14.214 25,14
31/12/2004 56.068 12.152 2.534 14.686 26,19
30/06/2005 59.125 11.824 2.771 14.595 24,68
31/12/2005 59.523 12.723 2.853 15.576 26,17
30/06/2006 61.264 12.591 2.910 15.501 25,3
31/12/2006 39.005 10.483 1.538 12.021 30,82
30/06/2007 43.957 11.005 1.603 12.608 28,68
31/12/2007 48.693 11.717 1.609 13.326 27,37
30/06/2008 55.057 11.633 1.780 13.413 24,36
31/12/2008 58.127 12.165 1.825 13.990 24,07
30/06/2009 63.630 11.610 1.798 13.408 21,07
31/12/2009 64.791 12.376 1.895 14.271 22,03
30/06/2010 68.258 12.058 2.058 14.116 20,68
31/12/2010 67.961 12.110 2.064 14.174 20,86
30/06/2011 67.394 11.508 2.257 13.765 20,42
31/12/2011 66.897 11.700 2.261 13.961 20,87
30/06/2012 66.528 10.979 2.299 13.278 19,96
31/12/2012 65.701 11.557 2.251 13.808 21,02
30/06/2013 66.028 11.579 2.148 13.727 20,79
31/12/2013 62.536 12.268 2.278 14.546 23,26
30/06/2014 58.092 11.735 2.364 14.099 24,27
31/12/2014 53.623 12.226 2.324 14.550 27,13
30/06/2015 52.754 12.345 2.225 14.570 27,62
31/12/2015 52.164 13.140 2.384 15.524 29,76
30/06/2016 54.072 12.903 2.369 15.272 28,24
31/12/2016 54.653 13.480 2.771 16.251 29,73
30/06/2017 56.919 15.307 2.295 17.602 30,92
31/12/2017 57.608 15.924 2.480 18.404 31,95
30/06/2018 58.759 15.643 2.293 17.936 30,52
31/12/2018 59.655 15.228 2.386 17.614 29,53

Fonte: Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Ufficio del Capo del Dipartimento – Segreteria Generale – Sezione Statistica

Scarica dati

L’anno precedente, ad esempio, a fronte di un più basso numero di detenuti presenti nei nostri istituti penitenziari (57.608) i lavoranti erano, infatti, 18.804.
Inoltre, scomponendo il dato dell’ultima rilevazione, si può capire meglio quali siano le peculiarità del lavoro in carcere.

Detenuti impiegati dall'Amministrazione penitenziaria

Fonte: nostra elaborazione su dati DAP

Lavorazioni Colonie agricole Servizi d’istituto Manutenzione ordinaria fabbricati Servizi extramurari (Art. 21) Totale
637 249 12.522 938 882 15.228

Detenuti impiegati da datori di lavoro esterni

Fonte: nostra elaborazione su dati DAP

Semiliberi (*) Lavoro Lavoranti (**) in istituto Totale
all’esterno per conto di:
ex art. 21
In per datori L. 354/75 Imprese Cooperative
Proprio di lavoro
esterni
39 622 794 245 686 2.386

“La stragrande maggioranza dei detenuti lavoratori, dunque, presta la propria attività per la stessa Amministrazione penitenziaria e, per lo più, all’interno dell’istituto”

Dei detenuti impiegati, 15.228 risultano lavorare alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (pari al 86,45 %) e 2.386 alle dipendenze di altri lavoratori (pari al 13,55 %). All’interno della prima categoria, 637 sono impiegati in lavorazioni, 249 nelle colonie agricole, ben 12.522 nei servizi di istituto, 938 nella manutenzione ordinaria di fabbricati e solo 882 in servizi extramurari ex art. 21 OP. Tra coloro che non lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, i semiliberi impiegati in attività lavorative sono 661, di cui 39 lavorano in proprio e 622 per datori di lavoro esterni; 749 detenuti lavorano all’esterno ex art. 21, mentre lavorano in istituto ma per conto di imprese o cooperative rispettivamente 245 e 686 detenuti.
La stragrande maggioranza dei detenuti lavoratori, dunque, presta la propria attività per la stessa Amministrazione penitenziaria e, per lo più, all’interno dell’istituto. Secondo quanto rilevato dall’Osservatorio di Antigone nel corso delle visite del 2018 sono ben 17 gli istituti (pari al 20%) in cui non ci sono lavoratori alle dipendenze di soggetti diversi dall’amministrazione.
Pochissimi sono i lavori qualificati, come basso è l’accesso a percorsi professionalizzanti all’interno del carcere. La media dei detenuti attualmente coinvolti nei corsi di formazione professionale, sempre secondo quanto osservato da Antigone, è del 4,7%, mentre, ad esempio, quella delle persone coinvolte nei corsi scolastici è 27,2%. A fronte di alcune rare eccellenze come, ad esempio, la Casa di Reclusione di Chiavari, dove la percentuale media di detenuti attualmente coinvolti nei corsi di formazione professionale raggiunge la cifra record del 44,2%, si deve riscontrare che in ben 31 istituti, pari al 36,5% del totale, sono del tutto assenti corsi di formazione professionale.

La recente riforma dell’Ordinamento penitenziario
È in questo quadro che si è inserita la recente riforma dell’ordinamento penitenziario, che ha interessato anche il lavoro in carcere. Il Capo II del d.lgs 2 ottobre 2018, n. 124, in attuazione della legge 13 giugno 2017, n. 103, ha apportato alcune modifiche che non hanno stravolto la disciplina del lavoro penitenziario ma hanno introdotto alcune importanti novità. Tra queste: un nuovo articolo dedicato al lavoro, in cui viene espunto il suo carattere obbligatorio; la sostituzione della vecchia commissione incaricata di formare le graduatorie con un nuovo organo con attribuzioni più articolate; una maggiore pubblicità delle convenzioni stipulate tra amministrazione penitenziaria e soggetti interessati a fornire opportunità di lavoro ai detenuti, anche attraverso la pubblicazione sul sito del Dap; l’introduzione del nuovo art. 20-ter che disciplina dettagliatamente il lavoro di pubblica utilità, sino a ora diffuso come sanzione penale sostitutiva ma marginale nella fase di esecuzione; l’obbligo per l’amministrazione penitenziaria di fornire assistenza ai detenuti in materia di lavoro e previdenza mediante il ricorso a enti specializzati; il diritto all’assegno di ricollocazione anche a favore dei detenuti, una volta dimessi; la valorizzazione della possibilità per i detenuti di produrre beni destinati all’autoconsumo, che sembra accogliere in parte gli auspici degli Stati generali, così come la modifica del criterio di quantificazione della retribuzione, ora determinata in misura proporzionale (due terzi) rispetto a quella stabilita, a parità di attività, dai contratti collettivi, eliminando la discrezionalità dell’amministrazione e il riferimento al criterio dell’equità.

“Restano dubbi sulla effettiva attuazione della delega, laddove prevedeva l’obiettivo dell’incremento delle opportunità di lavoro retribuito e delle attività di volontariato individuale e di reinserimento sociale dei condannati anche attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna.”

Luci e ombre nell’attuazione della riforma: Il lavoro di pubblica utilità
La riforma della disciplina del lavoro penitenziario segna sicuramente un passo in avanti rispetto alla normativa previgente, anche se non mancano alcuni profili problematici e nodi irrisolti.
Restano dubbi sulla effettiva attuazione della delega, laddove prevedeva l’obiettivo dell’incremento delle opportunità di lavoro retribuito e delle attività di volontariato individuale e di reinserimento sociale dei condannati anche attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna. Oltre alla succitata disciplina volta alla valorizzazione delle produzioni carcerarie, infatti, tale potenziamento sembra essere stato affidato unicamente alla nuova disciplina del lavoro di pubblica utilità. Sul nuovo art. 20-ter, tra l’altro, occorre evidenziare che, ancora una volta, le “esigenze di sicurezza” sono state anteposte ai principi di rieducazione e reinserimento dei detenuti, con la previsione, ad esempio, di preclusioni per i condannati per associazione mafiosa e di limitazioni per i “detenuti ostativi” ex art. 4-bis. Inoltre va segnalata l’espunzione dal testo definitivo pubblicato in Gazzetta ufficiale delle modifiche all’art. 54 previste, invece, dallo schema di decreto legislativo n. 16, che disponeva una ulteriore detrazione di pena nella misura di un giorno per ogni cinque di proficua partecipazione ai progetti di pubblica utilità, la cui valutazione sarebbe stata demandata al gruppo di osservazione e trattamento dell’istituto.
Resta tuttavia il dubbio che, così come evidenziato anche dal Garante, il lavoro di pubblica utilità, così come, in generale, ogni altra forma di lavoro in carcere, possa continuare ad essere considerato come una «attività risarcitoria della collettività, quasi che alla privazione della libertà – che è in sé il contenuto della sanzione penale – debba aggiungersi qualcos’altro perché la comunità esterna possa vedere l’effettività della punizione». È infatti noto che, recentemente, alcuni Comuni italiani hanno siglato protocolli con l’Amministrazione coinvolgendo detenuti in attività considerate di pubblica utilità, senza contemplare una retribuzione a fronte del loro impiego (come, ad esempio, il caso del Comune di Roma che ha utilizzato alcune decine di detenuti in attività di recupero ambientale). Solo recentemente la Cassa ammende ha stanziato tre milioni di euro circa per far fronte alla copertura di 2500-3000 sussidi nel 2019.

“Solo un effettivo stanziamento di risorse adeguate permetterà, infatti, di fare in modo che le novità introdotte nell’ordinamento penitenziario non rimangano delle dichiarazioni di intenti.”

Le remunerazioni
D’altra parte il fattore economico è fondamentale per comprendere se e in che modo la riforma sarà concretamente attuata. Solo un effettivo stanziamento di risorse adeguate permetterà, infatti, di fare in modo che le novità introdotte nell’ordinamento penitenziario non rimangano delle dichiarazioni di intenti. Con particolare riguardo alla remunerazione del lavoro dei detenuti, la rideterminazione di quelle che, ante riforma, erano denominate “mercedi”, per adeguarsi alla indicizzazione dei salari, è strettamente connessa alla dotazione annuale di cui può disporre ogni istituto. Questo anche in ragione del fatto che, come sopra evidenziato, buona parte del lavoro in carcere è svolto proprio in favore dell’amministrazione penitenziaria. Attualmente, in base ai dati rilevati da Antigone nel corso del 2018, a fronte di un numero medio di 371,6 detenuti per istituto, la dotazione annuale media per le mercedi è pari a € 391.743.
Pur non essendo ancora chiaro quanto verrà stanziato nel prossimo bilancio per coprire le remunerazioni dei detenuti, possiamo notare che ad una certa narrazione politica e giornalistica che vorrebbe un continuo inasprimento delle condizioni detentive, si contrappone, invece, una burocrazia che sembra persistere nell’attuare il mandato costituzionale dell’esecuzione della pena.
Analizzando i bilanci consuntivi e di previsione dell’Amministrazione penitenziaria pubblicati negli ultimi anni si scopre, infatti, un costante aumento delle risorse stanziate per il lavoro dei detenuti, che sono quasi raddoppiate dal 2014 (82,1 milioni di euro) alle previsioni per il 2018 (147 milioni).

“Il messaggio del 5 marzo 2019, n. 909, l’INPS ha previsto la non erogabilità della prestazione di disoccupazione NASpI nei confronti dei detenuti che lavorano all’interno e alle dipendenze dell’istituto penitenziario, in occasione dei periodi di inattività

L’indennità di disoccupazione
Quando si parla di lavoro, per capire l’effettività delle tutele approntate dall’ordinamento, occorre non trascurare l’altra faccia della medaglia, ovvero la disoccupazione. La NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego, istituita dall’articolo 1, decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22), prevede una indennità mensile in favore di chi abbia subito la perdita del lavoro per cause indipendenti dalla propria volontà. Essa dovrebbe operare non solo nella società libera ma, a maggior ragione, laddove si presentano ulteriori fragilità nella condizione del disoccupato, come nel caso dei detenuti.
Eppure il DAP è intervenuto con circolare n. 3681/6131 del 19/11/2018 avente ad oggetto la riforma dell’ordinamento penitenziario, fornendo “indicazioni al fine di una univoca e corretta applicazione delle nuove norme sul lavoro penitenziario”. In particolare, il DAP, su richiesta di parere da parte dell’ufficio legislativo a seguito di sollecitazioni del Ministero del Lavoro e dell’INPS, si è espresso sull’art. 20 OP, affermando che la cosiddetta indennità di disoccupazione non è dovuta in favore dei detenuti impiegati in turni di rotazione, poiché il periodo di inattività non può essere equiparato al licenziamento, in linea con quanto espresso dalla Corte di Cassazione. La Ia sez. Penale, con sentenza n. 18505 del 3 maggio 2006, infatti, ha dichiarato che “l’attività lavorativa svolta dal detenuto non è equiparabile al lavoro svolto fuori dall’ambito carcerario, per la sua funzione rieducativa e di reinserimento sociale”.
Di conseguenza, con il messaggio del 5 marzo 2019, n. 909, l’INPS ha previsto la non erogabilità della prestazione di disoccupazione NASpI nei confronti dei detenuti che lavorano all’interno e alle dipendenze dell’istituto penitenziario, in occasione dei periodi di inattività, sostenendo che, viceversa, l’indennità spetta a coloro che svolgono attività lavorativa al servizio di un datore di lavoro diverso dall’amministrazione penitenziaria.
Per molti detenuti la remunerazione che ricevono a fronte del lavoro penitenziario, così come la relativa indennità in caso di disoccupazione involontaria, sono fondamentali non solo per acquistare beni di prima necessità non forniti dall’amministrazione seppur indispensabili durante la detenzione, ma rappresentano spesso anche l’unico sostentamento per le famiglie fuori dal carcere. Il paradosso di questa decisione risiede nel fatto che, a questi tali lavoratori, viene negata l’indennità di disoccupazione in caso di licenziamento, nonostante debbano continuare ad adempiere all’obbligo al versamento della relativa contribuzione. Se il loro lavoro è considerato regolare a tutti gli effetti, anche contributivi, occorrerebbe trovare il modo affinché comporti anche il diritto all’indennità di disoccupazione in caso di perdita involontaria.
Alcuni Garanti regionali dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale hanno criticato tale visione riduttiva del lavoro penitenziario la quale disattenderebbe la sostanziale equiparazione del lavoro delle persone detenute a quello di tutti gli altri lavoratori, prodotta anche dalle decisioni della Corte Costituzionale. Questi Garanti hanno altresì affermato l’esistenza del diritto dei lavoratori detenuti di far valere le proprie ragioni ricorrendo in via amministrativa e al Giudice del lavoro, invitando l’Amministrazione penitenziaria e i Patronati sindacali a operare per il regolare inoltro all’INPS delle domande di indennità di disoccupazione dei lavoratori detenuti, al fine della loro valutazione da parte dell’ente previdenziale, quale soggetto competente ad adottare l’eventuale provvedimento negativo della prestazione.