di Patrizio Gonnella, su il manifesto del 27 dicembre 2022
Era il 1988 quando fu approvato il codice di procedura per minorenni, ispirato a principi di ragionevolezza, adeguatezza alla età in formazione dei ragazzi sotto processo, minimizzazione dell’impatto penale e carcerario, contrasto alla stigmatizzazione del processo e della condanna. Ogni ragazzo o giovane è una vita in evoluzione che non ha ancora portato a compimento il suo percorso di maturazione e responsabilizzazione. Il carcere fa male a chi lo subisce. Fa male come esperienza in sé. Crea dolore. È una pena. E può costituire un ostacolo alle successive tappe di vita in quanto inchioda, a volta anche per sempre, una persona a un momento della vita.
Da quel 1988, fortunatamente, il sistema penitenziario minorile italiano si è contratto nei numeri. Da molti anni il numero complessivo dei ragazzi ristretti negli istituti penali per minori è intorno alle quattrocento unità, compresi coloro che hanno un’età tra i 18 e i 25 anni sempre che abbiano commesso il delitto quando erano minorenni. I fatti del Beccaria non devono essere strumentalizzati per giustificare passi indietro a una legislazione moderna, bensì per progettare ulteriori accelerazioni verso un modello sanzionatorio ancora più avanzato. Il campo della giustizia minorile è ricco di professionalità che ben possono chiarire come sono banalizzazioni argomentative quelle che spiegano i fatti di Milano come esito del sovraffollamento o dello scarso numero di poliziotti. Si tratta di interpretazioni fuorvianti.
di Patrizio Gonnella su il manifesto del 28 novembre 2022
La vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame contro il carcere duro del 41 bis, ci aiuta a fare alcune considerazioni intorno a ciò che dovrebbe essere la pena in una società democratica e ci porta ad affrontare questioni di grande rilievo giuridico ed etico.
In primo luogo si pone il tema delle modalità di esecuzione della sanzione carceraria nei confronti di una certa tipologia di detenuti. I regimi differenziati – come ad esempio il 41-bis – incidono significativamente sulla vita e i diritti delle persone recluse. Riducono notevolmente le occasioni di socializzazione, le possibilità di partecipazione alle attività interne all’istituto penitenziario nonché le relazioni con il mondo esterno. Sostanzialmente intervengono eliminando ogni opportunità di aderire a progetti di reintegrazione sociale.
La Corte Costituzionale, nella nota sentenza numero 376 del 1997, ha ben spiegato come anche nel caso del regime di cui all’art. 41-bis, pensato per contrastare la criminalità organizzata, sia necessario sempre tenere in adeguata considerazione l’articolo 27 della Costituzione, con i suoi riferimenti alla dignità umana e alla rieducazione del condannato. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, nel suo rapporto rivolto alle autorità italiane relativo a una visita effettuata nel 2019, raccomandò alle stesse di effettuare sempre «una valutazione del rischio individuale che fornisca ragioni oggettive per la continuazione della misura». Il cosiddetto risk assessment deve essere fondato «non solo sull’assenza di informazioni che dimostrino che la persona in questione non è più legata a una determinata organizzazione».
Per le presunte torture nel carcere di Ivrea la procura della città piemontese ha notificato 45 avvisi di garanzia ad altrettanti indagati. Tra loro agenti, medici, operatori e funzionari che, a vario titolo, risultano indagati per diversi reati tra cui quelli di tortura, falso in atto pubblico e altri reati collegati.
"Con queste 45 persone sono oltre 200 gli operatori penitenziari attualmente indagati, imputati o già passati in giudicato all'interno di procedimenti che riguardano anche episodi di tortura e violenza avvenuti nelle carceri italiane. Un dato che ci racconta di un problema evidente che si riscontra negli istituti di pena dove, con troppa frequenza, da nord a sud emergono fatti di questo tipo". A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.
"L'approvazione della legge sulla tortura, avvenuta nel 2017, ha certamente influito positivamente sull'emersione di queste condotte, aumentando la predisposizione dei detenuti a denunciarle e l'attenzione che la magistratura pone nell'indagarle e perseguirle. Tuttavia, ciò che occorre - continua Gonnella - è un attività di prevenzione che dovrebbe portare ad investire risorse nella formazione degli agenti penitenziari, nella costruzione di una vita interna agli istituti che sia più distesa, contrastando il sovraffollamento penitenziario e con i detenuti impegnati in attività, cosa che aiuterebbe a stemperare quel clima di tensione che si registra e che ravvisiamo in forma crescente anche con le visite del nostro osservatorio. Si dovrebbero poi offrire maggiori riconoscimenti per coloro che, in carcere, lavorano nel pieno rispetto delle proprie funzioni e della dignità della persona. Cosa che riguarda, occorre ricordarlo, la maggior parte degli operatori".
15 persone sono indagate per le presunte torture ai danni di un detenuto avvenute nel carcere di Bari. Di queste, 9 agenti penitenziari sono accusati di "concorso in tortura" e tre di loro sono stati posti agli arresti domiciliari.
Di seguito le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone:
"Come sempre avviene in questi casi ci auguriamo che la giustizia faccia il suo corso e si chiariscano le eventuali condotte e responsabilità. Da quando è stata introdotta la legge contro la tortura nel 2017 sono diversi i processi e le indagini in corso che vedono coinvolti appartenenti alla Polizia penitenziaria. Segno di un testo che era e continua ad essere fondamentale per prevenire e perseguire abusi in un luogo chiuso come il carcere. Ci auguriamo, altresì, che chiarezza venga fatta anche sul coinvolgimento del personale medico, più di una volta indagato o condannato in procedimenti simili, per la mancata refertazione di ferite e lesioni. Nel caso specifico di Bari la buona notizia è stata la collaborazione dei vertici del carcere - sia della direzione che della stessa Polizia Penitenziaria - per individuare i presunti colpevoli delle violenze e arrivare ad un primo accertamento dei fatti. Anche in questo caso, come ripetiamo, la legge sulla tortura può aiutare a rompere il muro di omertà che spesso si è creato in passato, garantendo ampio riconoscimento a chi porta avanti il proprio lavoro nel rispetto dei diritti e della dignità degli individui".
A Patrizio Gonnella fa eco Maria Pia Scarciglia, presidente di Antigone Puglia:
"Quanto è accaduto è di assoluta gravità e chiediamo che si faccia chiarezza. Come associazione operiamo all'interno del carcere di Bari da qualche anno attraverso uno sportello di informazione legale rivolto ai detenuti e ben conosciamo il grande lavoro che svolgono la direttrice del carcere e la comandante della Polizia Penitenziaria. Non siamo dunque sorpresi della loro collaborazione alle indagini e continuiamo a riporre fiducia nel loro operato".
di Patrizio Gonnella su il manifesto del 4 novembre 2022
Chi si sorprende della violenza fa il gioco dei violenti. Chi si sorprende della nuova norma sui raduni fa il gioco di chi l’ha pensata, proposta, approvata. Neanche nel Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza del 1931 si arrivò a scrivere qualcosa del genere.
In primo luogo l’articolo è scritto in modo sciatto e in un italiano claudicante. Sarà un buon esempio per quei professori che a lezione di diritto vorranno spiegare agli studenti come non si deve scrivere una norma penale. Siamo molto lontani da quella necessità di chiarezza invocata da Cesare Beccaria nel lontano 1764. Con il nuovo articolo 434-bis siamo al primitivismo linguistico che potrebbe funzionare per la comunicazione social ma non per una legge che i giudici dovranno applicare.
La norma parte con un’espressione tautologica. Si scrive letteralmente che l’invasione di terreni o edifici consiste in un’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui. Troviamo domanda e risposta all’interno della stessa norma, come se fossimo a un quiz. Ogni reato dovrebbe punire un’azione o un’omissione. In questo caso essa consisterebbe in un’invasione. Sarà la giurisprudenza a dover distinguere ciò che è ingresso da ciò che è invasione. Quest’ultima sembrerebbe rimandare a pratiche belliche. Se un certo numero di persone alla spicciolata, senza danneggiare cose o persone, entra in un terreno altrui per raccogliere i fichi e non per ascoltare musica techno, è accusabile di invasione?