Free cookie consent management tool by TermsFeed Policy Generator Rapporto Luglio 2008, fortresseurope.blogspot.com, 01/08/09

Rapporto Luglio 2008, fortresseurope.blogspot.com, 01/08/09

Luglio 2008

français english italiano deutsch turkish português greek danish
ROMA – Vittime di una mappa. Dalla nascita. Pensate a un bambino di pochi mesi, stretto al petto della madre. E poi pensate a un'onda che se lo porta via, sfinito, dopo giorni passati sotto il sole in alto mare. Chiedetevi perché. E fatevi la stessa domanda per 13 volte. Tredici è il numero dei neonati morti annegati sulle rotte dell'immigrazione nel Mediterraneo nel solo mese di luglio. Undici al largo delle coste andaluse, due nel Canale di Sicilia, dove sono annegate anche due donne incinte. Sono i figli dei viaggi lunghi anni che le loro madri – somale, nigeriane, eritree - percorrono alla volta dell'Europa. Sono i figli della speranza che carica di tante aspettative il loro arrivo nel Vecchio continente. Le madri non hanno scelta. Non possono lasciarli da soli in Paesi stranieri come il Marocco o la Libia. Soprattutto le donne rifugiate. E allora li portano con sé, salgono sugli zodiac coi pannolini e si tengono strette a una preghiera. Tuttavia i muri invisibili delle frontiere non risparmiano nemmeno i più piccoli. Al contrario, la loro innocenza indica con ogni certezza la colpa dei genitori: essere nati nel posto sbagliato. Ad ucciderli, prima ancora del mare, sono state le mappe.

Le stragi dell'immigrazione non si fermano. Sono almeno 158 le persone che hanno perso la vita nel mese di luglio tentando di raggiungere l'Europa. Tra Libia, Malta e Italia, le vittime sono almeno 48, tra cui due bambini di due e quattro anni e due donne incinte. Sulle rotte tra il Marocco e la costa spagnola dell'Andalusia sono invece annegate 30 persone, tra le quali si contano almeno cinque donne e 11 bambini neonati. Altri 18 migranti sono morti al largo delle isole Canarie, sempre in Spagna. Mentre tra l'Algeria e la Sardegna – secondo le testimonianze dei sopravvissuti, raccolte in esclusiva da Fortress Europe – due imbarcazioni si sarebbero rovesciate in alto mare, facendo 38 dispersi. Un altro naufragio al largo dell'isola francese di Mayotte, nell'oceano Indiano, ha fatto sei morti e molti dispersi. Mentre due uomini hanno perso la vita nei pressi di Calais, in Francia. Altre due persone sono state uccise sotto il fuoco della polizia di frontiera egiziana, al confine con Israele. E il cadavere di un rifugiato iraqeno è stato rinvenuto in un container sbarcato nel porto di Venezia dalla Grecia. In Turchia infine, sono stati ritrovati a Istanbul i corpi senza vita di 13 uomini, abbandonati dall'autista del camion dentro il quale erano morti per asfissia. Viaggiavano nascosti in un container con decine di altre persone, stipati, lungo una rotta rodata. Dalla provincia orientale di Van, al confine con l'Iran, in direzione della capitale, per poi raggiungere la Grecia, meta sempre più ambita, soprattutto dopo la stretta anti-immigrazione voluta dalla Spagna.

Già nel 2007 gli arrivi alle Canarie erano crollati del 60% rispetto al 2006. E nei primi sette mesi del 2008 gli arrivi registrati nelle isole spagnole sono stati 4.557 contro i 5.594 dello stesso periodo nel 2007. Merito dei respingimenti in mare operati dalle missioni Frontex e degli accordi di riammissione, che per Marocco e Senegal riguardano anche i minori non accompagnati. Di pari passo gli arrivi sulle coste italiane sono triplicati nei primi sei mesi del 2008. E sono aumentati anche gli arrivi sulle isole greche dell'Egeo. Nei primi sette mesi del 2008 sono state intercettate 7.263 persone nell'Egeo, contro le 9.240 di tutto il 2007. A poco servono le pratiche della Guardia costiera greca, accusata da Pro Asyl di respingere le barche dei rifugiati verso la Turchia e affondarle. Una pratica che sembra ormai appartenere anche alla Guardia costiera turca.

Navi della marina militare turca nel porto di Ceçme“Quando riparti allora, oggi o domani?” John scherza con Hammady nella piazzetta davanti alla moschea. Si mettono a ridere e finalmente si salutano con una lunga e articolata stretta di mano. L'hanno scampata bella e adesso si sentono invincibili. Pochi giorni prima hanno visto la morte in faccia. Quella notte John non faceva che gridare come un pazzo: “Nina! Nina!” Nina – la moglie – era l'unica donna a bordo. Si è salvata anche lei. Si sono salvati tutti. Ma poteva essere una strage. Hammadi e John sono due dei 25 sopravvissuti dell'ennesimo affondamento in mare nell'Egeo, operato stavolta non dalla Guardia costiera greca, ma da quella turca. I fatti risalgono al 4 giugno 2008, in un imprecisato punto della costa turca, a un paio d'ore di macchina da Izmir. È a Izmir che ho incontrato Hammady, un giovane calciatore professionista ivoriano in cerca di fortuna. Nel quartiere Basmane. Una rete di vicoli dietro il grande bazar, in pieno centro, nella zona vecchia della città. È l'anticamera della partenza. Dopo aver pagato i kaçakçi a Istanbul, dormono qua almeno un paio di notti tutti quelli che attraverseranno l'Egeo. Gli otel economici del quartiere chiudono un occhio sui documenti dei propri clienti e hanno il pieno garantito tutto l'anno. Nei bar dei vicoli siedono sudanesi e somali, eritrei e senegalesi, nigeriani e ivoriani. E anche molti algerini e marocchini.

Vista della città di Izmir“Eravamo in 25. - racconta Hammadi – Stavamo in mare da circa un'ora, quando abbiamo visto una grande luce venire su di noi. Poi abbiamo sentito un rumore – paf! - e abbiamo capito che avevano forato il gommone. Era il rumore di un'esplosione. Credo ci abbiano sparato. La barca ha iniziato a affondare. Siamo finiti tutti in acqua. Per fortuna avevamo tutti un giubbetto di salvataggio o una camera d'aria intorno alla vita”. Alla fine la motovedetta turca li ha tratti in salvo e arrestati. Sono stati rilasciati dopo 24 ore e sono tornati a Basmane perché in questi casi si ha diritto a un secondo tentativo. E poi a un terzo. E poi a casa non si può tornare se la famiglia si è indebitata per mandarti in Europa. Hammadi ce l'ha fatta alla sesta volta. È arrivato in Grecia pochi giorni fa. Ci siamo sentiti per telefono.

Vista di IstanbulFrançois invece partirà tra poche settimane. Viene dal Burkina Faso. L'ho incontrato nel quartiere di Kunkapi, a Istanbul. Come Hammadi è entrato in Turchia bruciando la frontiera siriana. Funziona che si arriva a Damasco con un visto turistico, si contatta un connection man della propria nazionalità e si viene affidati alle guide siriane che da Aleppo, a piedi, ogni notte accompagnano gruppi di 20 o 30 persone sulle mulattiere che attraverso i boschi portano oltre la frontiera, in direzione della città turca di Hatay (Antakya), l'antica Antiochia. La marcia dura sei o sette ore. François era con un gruppo di burkinabé, egiziani, bangladeshi e srilankesi. Avevano pagato 700 dollari a quattro guide siriane. Una delle guide procedeva staccato dal gruppo e dava istruzioni agli altri via telefono. In quel punto la frontiera tra Turchia e Siria è delimitata da un rotolo di filo spinato alto non più di un metro e mezzo. Le guide controllano l'orientamento delle telecamere e danno l'ordine di saltare, al momento opportuno. Da Antakya poi basta prendere l'autobus per Istanbul. Ma a François è andata male. Il suo gruppo è stato intercettato dalla polizia turca e sono finiti in un campo di detenzione, a Hatay, dove ha passato sei mesi. François lo ricorda così: “Era all'interno della stazione di polizia. Era un locale con due camerate, cucina e bagni, per un totale di non più di cinque metri per dieci. Eravamo in 150 persone. C'erano letti a castello, ma la gente dormiva dappertutto. Per terra, sotto i tavoli, nelle docce”. L'arresto risale al 23 novembre 2007, in pieno inverno. “Faceva freddo, chi aveva due paia di pantaloni se li infilava uno sull'altro”. Il cibo era scarso. E l'assistenza sanitaria inesistente.

Interno di una stanza del vecchio campo di detenzione di Samos, in GreciaSi parla poco delle condizioni di detenzione in Turchia. L'unico rapporto è stato recentemente pubblicato da Hyd. La testimonianza di François conferma tutti i capi di accusa. “Ci picchiavano soprattutto prima e dopo gli interrogatori. Dopo l'arresto infatti un giudice doveva decidere sulla nostra sorte, ovvero sulla possibilità del riaccompagnamento alla frontiera. Sapevamo che per non essere rimandati in Siria non dovevamo dire di essere entrati da Aleppo. Mentivamo per salvarci. Ma la polizia ci riempiva di manganellate per questo. Un ragazzo fu bastonato così tanto che rimase due mesi a letto, prima di riuscire ad alzarsi”. Una forma di tortura utilizzata è quella di spruzzare gas ossigeno negli occhi. Provoca un bruciore insopportabile. C'è anche una cella di isolamento. Non è molto piccola, ma estremamente sporca. Kayum e Amal, due bangladeshi, ci hanno passato 48 ore dopo aver rifiutato di parlare con la propria ambasciata. Per le donne la situazione è ancora più difficile. “Gli agenti le corteggiavano – racconta François -, approfittando del loro ruolo di forza. Entravano di notte e dicevano a tutti di rientrare nelle stanze, poi portavano con loro alcune donne, al piano di sopra. Ad alcune davano dei soldi. Altre le minacciavano che non le avrebbero rimesse in libertà se rifiutavano di fare sesso con loro”.

Detenuti alla grata della Guesthouse di Kunkapi, a IstanbulSotto il peso delle minacce e della violenza, alcuni perdono il lume della ragione. François mi racconta di Tokuti, nigeriano, che negli ultimi periodi urinava addosso agli altri detenuti, si aggrappava alle gambe dei poliziotti e girava in mutande piangendo e chiedendo perché al suo dio. Poi c'è Rafael. Vive a Istanbul. L'ho incontrato nell'appartamento che François condivide con una decina di burkinabé. Anche lui viene dal Burkina. Ha 32 anni. Viene da un piccolo villaggio, non sa parlare nemmeno francese. Il viaggio glielo aveva pagato il fratello, dalla Spagna. Sta seduto su un materasso e scuote la testa avanti e indietro. Ogni tanto piange. Ha paura. Ha paura che lo ammazzino. La polizia turca l'ha talmente minacciato e pestato durante la detenzione a Hatay, che crede di essere perseguitato. Lungo le caviglie si vedono le cicatrici dei ferri delle manette che gli hanno tenuto strette per giorni. E le tibie sono deformate dal soprosso cresciuto dove il manganello ha colpito più forte. Per i poliziotti era diventato un divertimento. Gli mettevano la pistola alla tempia e lo minacciavano di morte, racconta. Da quando è arrivato a Istanbul, per tre mesi non è voluto uscire dalla camera, per paura che lo vedessero i poliziotti.

Mappa della TurchiaTelefoniamo ad uno dei detenuti di Hatay, François ha il suo numero. Non possiamo rivelare il suo nome né la sua nazionalità per evidenti motivi di sicurezza. Vi basti sapere che in Europa avrebbe tutte le carte in regola per essere riconosciuto come rifugiato politico. Sta dentro da otto mesi. Racconta di essere stato gasato negli occhi con l'ossigeno, quando ha rifiutato di parlare al telefono con la sua ambasciata. Dice che al momento ci sono 103 detenuti. Un sudanese, cinque somali, un liberiano, due nigeriani, 22 birmani, 13 bangladeshi, 10 eritrei, 26 afgani. Le donne sono 15: nove dall'Afghanistan, una dall'Eritrea e quattro dalla Somalia. E ci sono cinque bambini: tre afgani, un somalo e un eritreo. Il più piccolo ha sei mesi, il più grande nove anni. Tredici bangladeshi sono stati portati via. Forse li hanno riportati alla frontiera con l'Iran, perché non avevano i soldi per pagarsi il biglietto aereo per il rimpatrio. Una pratica abituale quella del riaccompagnamento, che lo scorso 23 aprile si risolse nella morte di quattro uomini, tra cui un rifugiato iraniano, durante la loro espulsione al confine con l'Iraq, nonostante le critiche dell'Unhcr, che in Turchia assiste 13.000 tra rifugiati e richiedenti asilo. Altri detenuti di Hatay invece, secondo la nostra fonte sarebbero stati rimpatriati nei mesi passati verso Nigeria, Bangladesh, India, Pakistan, Sri Lanka, Marocco e Egitto.

Facciata della Guesthouse di Kunkapi, a IstanbulRiaccompagno François al marciapiede di Aksaray dove vende orologi cinesi a cinque euro. Abbiamo passato la serata a Kunkapi in cerca di informazioni sul rifugiato somalo ucciso nel campo di detenzione di Kırklareli, vicino alla frontiera greca, da uno sparo della polizia. Ma nessuno qua sembra conoscerlo. Le vie tra Kunkapi e Aksaray sono un fazzoletto di Africa. A Zeytinburnu invece ci vivono gli afgani. E a Kurtuluş e Tarlabaşı gli iracheni. In ogni casa sono stipate decine di persone. Il pavimento delle spoglie stanze è ricoperto di materassi. Niente lenzuola. Si aspetta di partire. Sotto la luce dei lampioni per strada gruppetti di connazionali, somali, eritrei, senegalesi o sudanesi, scambiano gli ultimi consigli utili per il viaggio e confrontano le offerte dei diversi connection man e dei kaçakçi per cui lavorano. Poco distante, a due passi dai ristoranti turistici, i volti dei migranti detenuti al commissariato di Kunkapi si affacciano spenti tra le grate di ferro.

Prima di salutarmi, François si mette a cantare uno dei testi rap che avevano composto a Hatay, un po' per passare le giornate, un po' per ricordarsi che la ragione non è sempre e solo quella del vincitore.

“If you want to kill me, kill me! kill me!
I will never follow you to the Siryan border.
I've no mother, I've no father, I've only my god!
Before you use to tell me
Turkey is a democracy,
now I know it's not true!
And now why do you want our women?
You're a crazy man! yes you're a crazy man!”