5 agenti penitenziari sono stati rinviati a giudizio, a vario titolo, per i reati lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, abuso d'ufficio e omessa denuncia a danno di U.M. un uomo detenuto, all'epoca dei fatti, nel carcere di Monza.
"Il caso - ricorda Simona Filippi, avvocato che segue questi casi per conto dell'Associazione - fu portato a conoscenza di Antigone nell'agosto del 2019, quando venimmo contattati dal fratello dell'uomo che raccontò di una violenta aggressione fisica ad opera di diversi agenti di polizia penitenziaria. I fatti sarebbero avvenuti nel corridoio della sezione dove il detenuto sarebbe stato preso a calci e pugni. II 25 settembre presentammo un esposto alla Procura che avviò le indagini. Antigone si è costituita anche parte civile nel procedimento".
"Nei giorni in cui è esploso il caso delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, quello che arriva da Monza è un altro segnale importante di come non ci debba essere spazio per l'impunità davanti ad episodi di questo tipo - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Ora attendiamo l'inizio del processo penale che, anche in questo caso, dovrà stabilire cosa accadde nell'istituto di Monza. Come sempre, ci auguriamo che anche in questo caso il governo si costituisca parte civile per dare un segnale forte a tutti gli operatori penitenziari, soprattutto a coloro che ogni giorno svolgono il proprio lavoro nel rispetto della Costituzione e quindi della dignità dei detenuti. Segnale - conclude Gonnella - arrivato dall'Amministrazione Penitenziaria che, nel caso specifico, ha collaborato affinché si accertassero i fatti".
S. Maria Capua Vetere. Non c’è attenuante che regga: lo stress, le proteste dei giorni precedenti, il virus. Quella che abbiamo visto è una pratica pianificata di violenza machista di massa che coinvolge decine e decine di poliziotti
di Patrizio Gonnella su il manifesto dell'1 luglio 2021
Le immagini interne al carcere di Santa Maria Capua Vetere parlano chiaro. Tutti abbiamo potuto vedere le violenze gratuite e brutali commesse da agenti di Polizia Penitenziaria su qualunque detenuto gli passasse sotto mano, finanche se su sedia a rotelle. È’ stata una rappresaglia indiscriminata, illegale, disumana che non ammette alcuna giustificazione. Non c’è attenuante che regga: lo stress, le proteste dei giorni precedenti, il virus. Quella che abbiamo visto è una pratica pianificata di violenza machista di massa che coinvolge decine e decine di poliziotti. È qualcosa che ci porta dentro l’antropologia della pena e della tortura.
L'inchiesta. Il provvedimento con cui la procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha eseguito ben 52 misure cautelari nei confronti di altrettanti appartenenti al corpo di Polizia penitenziaria e funzionari dell’amministrazione costituisce un manuale di etnografia carceraria
di Patrizio Gonnella su il manifesto del 29 giugno 2021
Torture, lesioni, depistaggio, falso. Non è questo un sommario dei fatti accaduti a Genova nel 2001 ma è il cuore dell’inchiesta sulle violenze avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020 in pieno lockdown. Il provvedimento con cui la procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha eseguito ben 52 misure cautelari nei confronti di altrettanti appartenenti al corpo di Polizia penitenziaria e funzionari dell’amministrazione costituisce un manuale di etnografia carceraria.
Il primo elemento è la pianificazione della rappresaglia. Dalle conversazioni via whatsapp avvenute tra gli agenti, tratte dagli smartphone sequestrati all’indomani dei fatti, emerge chiara la voglia di vendicarsi per le proteste inscenate dai detenuti nei giorni precedenti. La vendetta si consuma sempre con un’azione spettacolare di forza e violenza. L’operazione a Santa Maria Capua Vetere, che viene giustificata con l’esigenza di fare una perquisizione straordinaria alla ricerca di armi improprie, è condotta da centinaia di agenti quando oramai in carcere non c’era più tensione.
Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nei giorni della Settimana Santa, un commando di oltre un centinaio di poliziotti, a viso coperto e in tenuta antisommossa, secondo le testimonianze, entrava nell’istituto dando vita ad un pestaggio disumano ai danni dei detenuti reclusi nel reparto Nilo. Queste denunce sono state poste all’attenzione della nostra Associazione da diversi familiari dei ristretti nelle immediate ore successive al 6 aprile 2020. Da subito abbiamo avuto la percezione che quello di cui ci veniva raccontato avrebbe costituito una grave sospensione delle garanzie del nostro stato di diritto, che aveva condotto all’esercizio incondizionato e brutale della violenza da parte delle forze dell’ordine.
Un dossier sull'applicazione della legge a quattro anni dall'introduzione del reato di tortura. E' quello che ha realizzato Antigone in occasione della Giornata Internazionale per le Vittime di Tortura.
Quattro anni fa fu introdotto nel codice penale italiano il reato di tortura (il 613-bis). Erano passati quasi 30 anni da quando l'Italia aveva ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite impegnandosi davanti agli organismi internazionali a perseguire e punire questo crimine contro l'umanità. Tuttavia i vari tentativi compiuti non avevano portato all'esito atteso. Nel frattempo nel paese la tortura esisteva e veniva - purtroppo - praticata, come ci hanno dimostrato alcune sentenze della Corte Europea per i Diritti dell'Uomo che condannò il nostro paese per le torture nel carcere di Asti e per quelle nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova.
"Quel testo - ricorda Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - fu figlio di un compromesso che lo staccò da quella che erano le previsioni contenute nella Convenzione Onu. Tuttavia come associazione, lo difendemmo e chiedemmo l'approvazione. Sappiamo infatti che non sempre avere la migliore possibile delle leggi basta. Quello che conta, spesso, è la cultura giuridica di chi poi quelle leggi le applica. Inoltre eravamo certi che anche con l'attuale formulazione, mantenesse i criteri per una ampia applicazione. A distanza di quattro anni ne abbiamo avuto prova, con diversi procedimenti e processi avviati contro presunti torturatori e le prime condanne".