È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 15 settembre 2023 il testo del cosiddetto decreto Caivano, il quale testimonia fin dal nome della assai discutibile ma diffusa pratica di intervenire normativamente, quasi sempre ricorrendo alla decretazione d'urgenza, all'indomani di fatti di cronaca drammatici, con l'illusione di inseguire questa o quella emergenza attraverso l'irrigidimento degli strumenti penali.
Ieri siamo stati auditi in Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia (qui il video completo delle audizioni), presentando un documento che riporta la posizione di Antigone sui vari aspetti di questo decreto, a beneficio della discussione parlamentare nel processo di conversione in legge.
Questa che segue è l'introduzione. Il documento completo si può leggere qui.
di Patrizio Gonnella su il manifesto del 27 settembre 2023
Uno spaccato della vita in carcere nelle motivazioni della condanna emessa dal Tribunale di Siena per 5 agenti penitenziari. “Ripugnante e disinvolto esercizio di violenta disumanità” per “esibire manifestazioni di dominio” a “guisa di aberrante e perversa forma di pedagogia carceraria”.
“Quanto emerso corrisponde ad un ripugnante e disinvolto esercizio di violenta disumanità e di ostentato disprezzo nei confronti di una persona detenuta, praticato per giunta in assenza del benché minimo indice o cenno di atteggiamento violento o aggressivo da parte di quella persona”. La sentenza che ha portato il Tribunale di Siena a condannare per tortura cinque agenti penitenziari del carcere di San Gimignano, infliggendo pene dai cinque anni e dieci mesi sino ai sei anni e sei mesi di reclusione è di quelle che andrebbero lette nelle scuole, nelle università e nei luoghi di formazione delle forze dell’ordine, sia per la sua lucidità, chiarezza e puntualità che per costituire un vero e proprio manuale di scienza giuridica e antropologia carceraria.
I fatti risalivano all’11 ottobre 2018 quando, utilizzando le stesse parole dei giudici senesi, “è stata posta in essere, da parte di una squadra composta da quindici agenti, assistenti e ispettori del Corpo di polizia penitenziaria in servizio presso la Casa di reclusione di San Gimignano, una spedizione punitiva ai danni di un detenuto straniero” al “solo scopo” di “esibire manifestazioni di dominio e in funzione di supposta deterrenza rispetto a comportamenti scorretti e mal tollerati, a guisa di aberrante e perversa forma di pedagogia carceraria”.
di Alessio Scandurra su il manifesto del 9 settembre 2023
Lo hanno chiamato decreto Caivano. È il pacchetto di misure con cui il governo di Giorgia Meloni ha affrontato l’emergenza creata dagli ultimi fatti di cronaca nera che hanno visto come protagonisti dei minorenni. Fatti a cui i media, e la politica, hanno dato grande risalto. E ai quali questo governo risponde mostrando i muscoli, ma mostrando anche di capire poco, o di essere poco interessato, alla concretezza dei fenomeni con cui si misura.
Anzitutto più pene e più carcere, la risposta con cui da molti anni in Italia si affrontano tutti i problemi. Una strategia notoriamente inutile, che non ha mai funzionato ma che viene continuamente riproposta, e che questa volta colpisce i giovani e il sistema della giustizia minorile che avevamo costruito intorno ai loro bisogni.
Da tempo l’Italia non è un paese per giovani. Non vogliamo metterli al mondo, sono sempre meno ma non gli mettiamo a disposizione le strutture e gli spazi per crescere, mancano asili, scuole e insegnanti, e abbiamo tassi record di abbandono scolastico e numeri bassi di giovani che proseguono e concludono gli studi universitari. Li accusiamo poi di essere fannulloni e poco disposti a fare lavori in condizioni che in altri paesi europei sono fuori dalla legge. E infine negli ultimi anni li abbiamo resi i protagonisti di ogni storia di degrado urbano.
Abbassare l'età di chi entra in carcere non è la soluzione. Così come non lo è mai la reazione repressiva. Chiunque ha a che fare coi ragazzi sa che le responsabilità vanno estese agli adulti e alla società. Punire un ragazzo non è mai la risposta, specie a quell'età.
Il sistema della giustizia minorile italiana è un sistema che funziona, dove la detenzione negli istituti di pena è dal 1988 sempre più residua. Se qualche provvedimento deve essere intrapreso in tal senso, questo deva andare verso una modifica del sistema sanzionatorio prevedendo pene diversificate per i minori e non, come si discute in queste ore, abbassando l'età in cui un minore può entrare in carcere o solo con interventi delegati alla polizia. Servono educatori e non questori per occuparsi di ragazzi nei luoghi a rischio. Servono investimenti sociali e culturali nelle periferie urbane e in tutti quei luoghi dove i contesti economici e sociali sono difficili e non lasciano grande spazio a percorsi diversi da quelli che possono portare alla commissione di reati. Serve la lotta alla dispersione scolastica, che non può passare dal carcere per i genitori.
Anche se autori di reato, si parla di ragazzi in un'età cruciale del loro sviluppo, che hanno bisogno di un percorso educativo e non punitivo, che spesso arrivano da contesti sociali ed economici diffusi. Pensare al carcere come soluzione dei problemi della criminalità significa invece ancora una volta scaricare sul sistema penale la responsabilità dei vuoti che lo Stato lascia in tutti gli altri ambiti. Un problema enorme quando si parla di adulti, drammatico quando se ne discute per i minori.
di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti su il manifesto del 17 agosto 2023
In Sardegna, nascosto da qualche parte, c’è un evaso. Oppure no: forse ha già lasciato l’isola, chissà con quale mezzo, e ha raggiunto il continente. Non si hanno più notizie da quando, lo scorso 25 febbraio, si è calato con le lenzuola annodate lungo il muro del carcere di Nuoro ed è scappato via correndo. In internet gira mille volte il filmato. Di lui si sente parlare, aleggia nell’aria. Non capita spesso di evadere. Ma, soprattutto, non capita quasi mai di non venire riacciuffati nelle ore immediatamente successive all’evasione. Lo nominano gli operatori delle carceri che visitiamo, lo nominano i nostri colleghi della sede locale di Antigone, lo nomina l’albergatore dove alloggiamo quando ci chiede cosa facciamo in Sardegna.
Abbiamo una prova concreta della sua influenza quando arriviamo in una delle tre colonie penali sarde. Ci accompagna nella visita il comandante della polizia penitenziaria. È molto tempo che è qui? No, non ha la memoria storica dell’istituto, sono altri operatori che ci raccontano cosa accadeva negli anni passati. Sono solo pochi mesi che il comandante è arrivato in questa colonia isolata e lontana da tutto. Prima era in servizio a Nuoro.
È una pratica tanto ipocrita quanto consueta in ambito carcerario. Nessuno è responsabile delle grandi falle del sistema, della recidiva alle stelle, delle morti in cella, dell’assenza di attività o delle strutture fatiscenti, ma di fronte al singolo evento di cronaca deve esserci sempre un singolo nome da additare, punire, trasferire.
Il lavoro in carcere è uno degli strumenti principali di reintegrazione sociale. Lavorare, guadagnare, imparare una professione, può essere l'elemento che consente alle persone detenute di rompere con il proprio passato criminale, portando così ad un abbattimento della recidiva. Tuttavia il lavoro in carcere è poco. Le nostre rilevazioni ci dicono che, nel 2023, solo il 33% delle persone detenute ha un impiego, fra l'altro non particolarmente qualificato. La maggior parte di loro lavora alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e per poche ore al giorno o per periodi brevi, così da distribuire le opportunità lavorative - e di guadagno - tra più persone possibili. Solo il 2,5% lavorano poi alle dipendenze di un datore di lavoro esterno, con professioni che possono accompagnarli anche a fine pena.
Il lavoro è dignità, emancipazione sociale. Il lavoro deve essere reddito altrimenti si torna ai lavori forzati. I prelievi forzosi dagli stipendi dei detenuti che lavorano per darli alle vittime hanno già subito nel 1992 la censura della Corte Costituzionale. Non si vede perché far gravare l'onere generico della restituzione alle vittime sui detenuti che lavorano. Viene violato il principio di uguaglianza oltre che l'articolo 36 della nostra Costituzione in materia di dignità del lavoro. I risarcimenti alle vittime sono già decisi nei procedimenti penali e civili. Lavorare e guadagnare per un detenuto significa, soprattutto per chi proviene da contesti di marginalità e povertà, poter avere qualche soldo per acquistare beni al sopravvitto (ad esempio i ventilatori per combattere il grande caldo che in carcere si vive), per far fronte alle spese di mantenimento che ogni detenuto deve all'amministrazione penitenziaria a fine pena e per aiutare i familiari fuori.
Per questo il sottosegretario alla Giustizia Ostellari farebbe bene ad occuparsi di come incentivare l'aumento delle opportunità di lavoro - cosa che lo stesso ministro della Giustizia Nordio ha dichiarato più volte essere una priorità del governo - anziché proporre di togliere soldi ai detenuti lavoranti. Ne guadagnerebbe la sicurezza di tutti.
Inoltre a proposito delle telefonate. Pensare a una modifica della norma regolamentare estendendo da 4 a 6 telefonate mensili significa non cambiare le regole già in corso. In moltissimi istituti sono già sei. Coraggio, ci vuole coraggio. Vanno previste telefonate quotidiane per evitare solitudine, depressione, abbandono.
Queste le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.
L'ESTATE AL FRESCO. Meriterebbero di entrare in un tour di turismo sociale, le isolate fattorie di Is Arenas, Isili e Mamone dove lavorano più di 300 detenuti. Tra benefici e solitudine: un modello penitenziario che ha bisogno di futuro
di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti su il manifesto del 11 agosto 2023
«Purtroppo, nella condizione in cui devo vivere, i capricci nascono da soli: è incredibile come gli uomini costretti da forze esterne a vivere in modi eccezionali e artificiali sviluppino con particolare alacrità tutti i lati negativi del loro carattere» (Antonio Gramsci in Lettere dal carcere). Gramsci era nato ad Ales, un piccolo paese che si attraversa arrivando da ovest alla colonia penale di Isili, aperta nel 1878, qualche anno prima della nascita del fondatore del Partito Comunista d’Italia. Nello sguardo e nel linguaggio profondi, autentici e mai banali, di chi deve garantire la sicurezza della colonia, si percepisce la stratificazione della storia difficile di quei luoghi. Si ha anche la fortuna di poter intravedere una copia (rigorosamente in pdf, in quanto il giornale non si trova purtroppo nell’isola) de il manifesto.
QUELLA DELLE COLONIE penali è una storia ottocentesca. Non sono molti gli studi che ripercorrono le tappe della loro nascita, evoluzione, progressiva dismissione. Di certo – spiegava Guido Neppi Modona, a cui si deve la più ricca ricostruzione della storia carceraria italiana – le finalità rieducative, seppur proclamate, stentavano a essere raggiunte: «Basti pensare – scriveva – alle condizioni di vita cui erano costretti i condannati e, con loro, le guardie carcerarie: nelle colonie, collocate appunto in terreni incolti e malarici, la malaria e le disastrose condizioni igieniche mietevano vittime in altissima percentuale, con picchi di mortalità dall’8 al 10% e di infermità dal 30 al 40%, secondo quanto dichiarato dallo stesso direttore generale delle carceri Beltrani Scalia in una relazione del 1891».
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