Durante la riunione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, avvenuta fra il 7 e il 9 giugno 2021, si è discusso di ergastolo ostativo a partire dal caso Viola per il quale l'Italia era stata già condannata. Il Comitato dei Ministri è incaricato di supervisionare l’esecuzione delle sentenze della Corte EDU. Dunque dopo la recente sentenza della Corte Costituzionale, il Consiglio d'Europa torna sul tema. Il Comitato dei Ministri ha ribadito che sono necessarie misure legislative che diano ai tribunali la possibilità di rivedere la condanna all’ergastolo alla luce di una valutazione globale del percorso di risocializzazione anche in assenza di collaborazione con la giustizia.
La morte di Moussa Balde, il 23 maggio, nei così detti “ospedaletti” del CPR di Torino, ci interroga, come cittadini e come giuristi, su alcune fondamentali questioni in merito al trattamento oggi riservato ai migranti.
Moussa Balde è stato trattenuto al C.P.R., e prima ancora è stato condotto presso gli uffici di polizia di Ventimiglia, perché cittadino straniero irregolare, subito dopo aver subito una selvaggia aggressione da parte di tre italiani, a Ventimiglia, il 9 maggio. Per quanto noto in questa fase, la sua condizione di persona offesa è stata immediatamente dimenticata, a causa dell'irregolarità del suo soggiorno, e non gli era stata fornita alcuna delle informazioni conseguenti, quali, tra l'altro, la facoltà di presentare denunce o querele, il diritto di chiedere di essere informato sullo stato del procedimento, la possibilità di avvalersi dell'assistenza linguistica. Gli è stato di fatto negato il diritto di partecipare al procedimento penale. Moussa Balde aveva anzi riferito di non avere neppure compreso che l'aggressione avesse generato delle indagini, che i suoi aggressori fossero stati identificati, né tantomeno sapeva che c'era un video che aveva ripreso quella aggressione (all'ingresso nel CPR i trattenuti vengono privati dei telefoni cellulari, benché la legge garantisca la libertà di comunicazione anche telefonica con l'esterno, e non hanno accesso ad internet). Questa prima parte della vicenda conferma per l'ennesima volta che per lo Stato italiano la persecuzione degli stranieri privi di un permesso di soggiorno è considerata una priorità assoluta, da esercitare a qualunque costo, anche a scapito di diritti fondamentali (in alcuni casi, e il Mediterraneo ne è muto testimone, anche della vita dei migranti).
Si è tenuta oggi la seconda udienza preliminare relativa al procedimento per le presunte violenze commessa da agenti di polizia penitenziaria a danno di un detenuto presso la Casa circondariale di Monza. Durante la stessa il Giudice ha ammesso Antigone tra le parti civili.
"Il 6 agosto 2019 Antigone riceve una telefonata da parte di una che racconta di una violenta aggressione fisica subita dal fratello, detenuto presso il carcere di Monza, ad opera di diversi agenti di polizia penitenziaria. I fatti sarebbero avvenuti nel corridoio della sezione. Il detenuto sarebbe stato preso a calci e pugni". A ricordarlo è Simona Filippi, avvocato dell'Associazione che, il 25 settembre dello stesso anno, presenta un esposto alla Procura della Repubblica di Monza denunciando i fatti. "Anche a seguito di questo esposto - prosegue l'avvocato Filippi - vengono indagati 5 agenti di polizia penitenziaria che a vario titolo sono chiamati a rispondere dei reati di lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, abuso d'ufficio e omessa denuncia a danno del detenuto".
"Quello di Monza è un episodio grave che però è emerso anche grazie alla collaborazione delle istituzioni penitenziarie" sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. "Così come fatto nel procedimento relativo ai fatti avvenuti nel carcere di San Gimignano, ci auguriamo che anche in questo caso il Ministero della Giustizia decida di costituirsi parte civile. E' un segnale importante che si dà, soprattutto alla maggior parte degli operatori che fanno il loro lavoro nel rispetto del senso costituzionale della pena".
La Commissione di inchiesta sulla magistratura voluta da alcune forze politiche, per la sua natura evidentemente politico-punitiva, porta con sé il rischio di una progressiva erosione di indipendenza.
di Patrizio Gonnella su il manifesto del 25 aprile 2021
Sono tanti i motivi per cui ritengo che il Parlamento non debba mettere sotto indagine la magistratura, si muovono su piani diversi pur essendo tra loro correlati in modo inestricabile. Motivi che attengono all’essenza della democrazia costituzionale.
Il principio enunciato all’articolo 101 della Carta secondo cui «I giudici sono soggetti soltanto alla legge» va interpretato in considerazione della necessità democratica di preservare l’indipendenza dei giudici e tenerli fuori dall’orbita del potere, come ci ha insegnato Luigi Ferrajoli.
Non è questo un principio da interpretare come espressione di chiusura corporativa. Sin dalla fine degli anni ‘60 del secolo scorso Magistratura Democratica, nata nel 1964 e a cui tanto dobbiamo per lo sviluppo di una cultura della giurisdizione rispettosa dei diritti fondamentali, interpretava l’art. 101 della Costituzione da un lato per colpire quel legame distorto e pericoloso che aveva tradizionalmente e pericolosamente unito giudici e politica e dall’altro per riconnettere giuridicamente e sentimentalmente la magistratura a norme e spirito costituzionale.
A sua volta l’art. 3 della Carta, con il suo richiamo forte all’uguaglianza e alla dignità, richiede frammentazione del potere pubblico. L’indipendenza della magistratura deve essere sia interna che esterna. La storia italiana è stata segnata da deviazioni istituzionali, crimini, progetti eversivi. L’indipendenza della magistratura deve essere garantita, protetta, promossa a tutti i costi, anche nei momenti più difficili della magistratura stessa, vittima di pratiche consociative.
Ogni piccola erosione allo spazio di autogoverno, autonomia e indipendenza rischia di produrre effetti a catena negativi sull’architrave del sistema costituzionale che, ricordiamolo, retroagisce a Montesquieu il quale così scriveva: «E non vi è libertà neppure quando il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: poiché il giudice sarebbe il legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore».
Giustizia. L’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo è oramai accertata. E se il Parlamento farà finta di nulla, allora sarà la Corte a dover intervenire con una sentenza che a quel punto sarà inevitabile.
di Patrizio Gonnella su il manifesto del 16 aprile 2021
L’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo è oramai accertata. E se il Parlamento farà finta di nulla, allora sarà la Corte a dover intervenire con una sentenza che a quel punto sarà inevitabile. Tutto ritorna dunque nelle mani delle forze politiche, così come era accaduto nel caso della vicenda Cappato sulla non punibilità dell’aiuto al suicidio.
La Corte, ancora una volta quando si tratta di temi delicati e divisivi, lancia un ultimatum al legislatore affinché ascolti le sue ragioni. L’ergastolo senza speranza resterà dunque in vita al massimo fino a maggio 2022, nonostante sia ritenuto illegittimo dalla Consulta che è stata netta, per la seconda volta in due anni, nell’affermare che la collaborazione con la giustizia non può essere l’unica via per riacquistare la libertà. Gli articoli 3 e 27 della Costituzione, nonché l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sono in contraddizione profonda con il carcere a vita senza speranza. La Corte afferma che deve essere sempre concessa al detenuto ergastolano la possibilità di ottenere la liberazione condizionale qualora il ravvedimento sia sicuro.