"La legge approvata dalla maggioranza che guida la Provincia di Trento è incostituzionale e mina alla base il principio affermato dall'articolo 27 della Costituzione sulla funzione rieducativa della pena che, in tal modo, diviene irrealizzabile". A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, che così commenta la norma, a prima firma del governatore leghista Maurizio Fugatti, approvata definitivamente dal consiglio provinciale di Trento alcuni giorni fa. Il disegno di legge provinciale 36/2019 prevede l'esclusione dal bando per l'assegnazione di una casa popolare di una persona, o di un nucleo famigliare al cui interno ci sia una persona che, nei dieci anni precedenti la data di presentazione della domanda, abbia subito condanne definitive per i delitti non colposi con pena edittale di almeno 5 anni, oltre che per reati come il furto aggravato, la rapina, tutti i reati che riguardano sostanze stupefacenti.
"Oltre ad essere incostituzionale - prosegue il presidente di Antigone - questa norma cancella anche il principio della responsabilità penale individuale, andando a colpire un intero nucleo famigliare che versi in condizioni di bisogno solo perché un suo componente ha una condanna passata in giudicato e scontata. Per queste ragioni - conclude Patrizio Gonnella - chiederemo al Governo di sollevare la questione di costituzionalità su questa norma".
Il Ministro Lamorgese invoca pene più severe per i pusher. Pur comprendendo le preoccupazioni espresse dal Ministro, Antigone chiede di evitare l’ennesimo intervento di solo inasprimento delle pene per riaprire un dibattito sulle droghe più equilibrato ed efficace.
“La legalizzazione delle droghe leggere restituirebbe più sicurezza ai cittadini eliminando alla radice lo spaccio di strada contro cui il Ministro cerca un rimedio efficace. Legalizzare significa sferrare un duro colpo al narcotraffico e sfoltire le aule dei tribunali” dichiara Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone.
Cosa accadrebbe alle mafie se ci fosse la legalizzazione? Quanto guadagnerebbe lo Stato dalla legalizzazione della cannabis? Quanto risparmierebbe non incarcerando in massa i consumatori? Quanti vedrebbero migliorate le proprie condizioni di salute grazie al consumo di sostanza controllate o al non ingresso nel circuito penale e penitenziario? Quanti processi in meno ci sarebbero e quanti poliziotti in più potremmo utilizzare per reprimere il crimine organizzato?
In molti paesi europei - e non solo - da anni esiste un Garante per i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale. Una figura che può entrare senza preavviso in carcere e negli altri luoghi di privazione della libertà, per verificare che la legalità vi sia rispettata e per prevenire eventuali violazioni.
In Italia, nonostante diversi impegni internazionali assunti, si è arrivati all'istituzione di questa figura solamente nel 2013, sull'onda delle riforme successive alla c.d. sentenza Torreggiani, con cui la Corte Europea dei diritti dell'Uomo ha condannato l'Italia per i trattamenti inumani e degradanti che avevano luogo nelle sue carceri. Dal 2016 è dunque entrata in attività questa figura di garanzia. Il Garante è un organismo statale indipendente - nominato dal Presidente della Repubblica, cosa che ne garantisce l'indipendenza rispetto ai partiti al Governo - che monitora tutti i luoghi di privazione della libertà (carceri, stazioni di polizia, centri di detenzione per migranti, REMS, voli su cui si effettuano i rimpatri forzati, i reparti dove si effettuano i trattamenti sanitari obbligatori, ecc.).
Nei giorni scorsi Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale, ha chiesto chiarimenti al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede in merito ad una esercitazione che aveva visto protagonisti alcuni agenti della Polizia Penitenziaria (esercitazione ripresa in questo video) e che in alcun modo verteva sulle delicate funzioni assegnate ai componenti di questo corpo. Proprio questa richiesta ha portato alcuni sindacati autonomi della penitenziaria ad attaccare il Garante. Questa la nostra presa di posizione in merito a questi ultimi:
"L'attacco di alcune organizzazioni sindacali autonome di polizia penitenziaria al Garante nazionale delle persone private della libertà va oltre l'ordinaria polemica. Addirittura si arriva a chiedere la chiusura dell'ufficio. Ricordiamo che organismi di controllo dei luoghi di detenzione sono previsti dall'ordinamento internazionale e sono presenti in tutti i paesi democratici e non solo; temere il lavoro di prevenzione di un organismo indipendente significa barricarsi dentro le proprie funzioni e non fa presagire nulla di buono. Notiamo purtroppo con dispiacere che non si è radicata dentro alcune sigle sindacali una cultura dei diritti umani. Ricordiamo anche che la tortura è un crimine contro l'umanità. Siamo certi che la gran parte dei poliziotti che lavorano nel solco della legalità sono invece grati a chi, come il Garante nazionale, fa uscire il loro lavoro da quel con d'ombra dove altri vorrebbero riporlo".
di Patrizio Gonnella su il manifesto del 15 novembre 2019
Dieci anni fa Stefano Cucchi è stato torturato fino alla morte. I giudici lo hanno scritto nella loro sentenza. Non si può mai essere felici quando qualcuno è condannato a dodici anni di carcere, neanche in questo caso.
Si può però essere rinfrancati, finalmente rasserenati e protetti da una decisione che avvicina le istituzioni ai cittadini. Nessuno deve ritenersi infatti al di sopra della legge. Non c’è divisa che tenga. La divisa non è uno scudo penale, non è un fattore di immunità. La divisa è fonte di accresciuta responsabilità. Chiunque svolga una delicata funzione di ordine pubblico, di sicurezza e di custodia deve sentire il peso morale di essere il primo garante della legalità e dei diritti umani.