Free cookie consent management tool by TermsFeed Policy Generator «La legalità? Solo se creiamo un'idea di cittadinanza», Il Manifesto, 09/05/07

«La legalità? Solo se creiamo un'idea di cittadinanza», Il Manifesto, 09/05/07

Intervista Parla il professor Francesco Pompeo, antropologo
«La legalità? Solo se creiamo un'idea di cittadinanza»
«Esiste un razzismo popolare alla romana. Ma a sinistra manca un dibattito vero sulla differenza tra le culture»
Cinzia Gubbini
Roma

Francesco Pompeo è docente di Antropologia Sociale presso l'università di Roma Tre e segretario scientifico dell'Osservatorio sul razzismo della stessa università. Naturalmente, è rimasto molto colpito dalla lettera pubblicata su Repubblica, a firma dell'«uomo della strada» Claudio Poverini.
Professore, il signor Poverini lancia un allarme: sto diventando razzista. Qual è la sua diagnosi?
Beh, certamente il signor Poverini si sta facendo coinvolgere in una circolarità di discorsi che mettono insieme molte cose diverse e che vengono tenute insieme da una sola cosa: l'insofferenza. Cosa che, peraltro, riconosce lui stesso.
Può spiegarsi meglio?
La lettera è molto interessante, sotto diversi aspetti. E' curiosa la sequenza di episodi che descrive: interazioni sull'autobus con stranieri maleducati, poi borseggi delle «zingarelle», dunque stupri - e si immagina lui stesso stupratore a Casablanca chiedendosi quale pena gli spetterebbe - poi accoltellamenti a Bucarest, infine la questione dei nomadi, con cui siamo costretti ad essere buoni. Sono tutti registri diversi. Gli studi sulla costruzione del discorso razzista mettono in evidenza proprio questo elemento: lo straniero diventa ostaggio del discorso pubblico. La lettera, ne è un esempio clamoroso. Nella «scatola straniero» c'è dentro di tutto: il borseggio, lo stupro - ricollegato ai paesi musulmani, e dunque alla subalternità della donna nell'Islam - i nomadi, la prostituzione. E infine la domanda: perché dobbiamo farli votare?
Va detto che questo tipo di riflessioni sono diffuse.
Appunto. Leggendola ho ritrovato molti elementi di osservazione contenuti in un paio di tesi di laurea che ho seguito ultimamente: aiutati anche dagli autisti dell'Atac, gli studenti hanno studiato per un anno cosa accade sui mezzi pubblici romani. Ebbene, a dispetto di quanto spesso dicono il sindaco Veltroni e altri esponenti politici, a Roma il razzismo popolare è molto forte. Si riscontra un livello di conflitto verbale alto, l'uso di un linguaggio aggressivo è molto frequente nel quotidiano della capitale. D'altronde, lo dice lo stesso Poverini. Quando descrive l'episodio della ragazza slava che apostrofa in modo sgarbato un'anziana signora, racconta che alle sue rimostranze la ragazza gli risponde con una serie di epiteti. Poverini: «Proprio così, alla romana». Nell'inconsapevolezza, dice una cosa giusta: questa ragazza non ha fatto altro che assorbire uno stile di interazione che è proprio della città. Allora, mi riesce difficile attribuire la causa di tutto ciò alla categoria «straniero». Lo stesso avviene quando, negli autobus zeppi di persone all'ora di punta, l'italiano guarda i passeggeri immigrati e butta lì: «Semo troppi..». Con questa metafora esprime un disagio verso la presenza dell'altro, e deduce che il problema sta in questo elemento e non nella cattiva gestione - mai risolta a Roma - della mobilità.
Il signor Poverini chiede legalità. Può essere un valore comune?
Io direi di sì. Ma quando, come fa Walter Veltroni, si dice che la legalità è un «diritto fondamentale» è un gioco di parole contraddittorio: la legalità è l'insieme di doveri e diritti che garantiscono una collettività. Non può, dunque, essere disgiunta da un'idea di cittadinanza: quali sono i diritti che condividiamo e come li difendiamo? Mi sembra che nei discorsi di questi giorni di molti esponenti politici la questione sia: nella società c'è violenza, ristabiliamo il monopolio della violenza dello stato.
Che sull'autobus non aiuta..
Né sull'autobus, né nei quartieri. O la società diventa consapevole che garantire ordine e spazi di convivenza è un problema collettivo, o il disordine non si risolve trasferendo tutto il potere nelle mani di un'astratta statualità, che necessariamente si risolve alle forze dell'ordine, le quali non possono certo risolvere il problema tra vicini.
Come la mettiamo con la differenza tra culture, il rispetto delle diversità, parole d'ordine di sinistra...
Le differenze tra culture esistono. Ma parlare di cultura con la "C" maiuscola come se si trattasse di un prontuario di risposte, valori e simboli standard è una grande invenzione ideologica. Sono convinto che il dibattito culturale della sinistra non abbia affrontato sempre con la dovuta lucidità la questione delle differenze. Preoccupata di dare una formulazione molto astratta di rispetto, talvolta ha contributo a sacralizzare le diversità, folklorizzando i tratti più evidenti, tagliando fuori le dinamiche sociali concrete: come si lavora, come si consuma. Tutto questo non viene messo in discussione in mome di un relativismo molto ideologico, che va di pari passo con l'antirelativismo ideologico. Cosicché intorno a quei valori da rispettare si costruiscono dei muri attorno a valori che non possono essere discussi collettivamente: mentre è esattamente questa la sfida da affrontare nell'ottica dell'allargamento della società nazionale.
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