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Aspetti sociologici

Detenuti stranieri di Alvise Sbraccia, tratto da Antigone in carcere, Terzo rapporto sulle condizioni di detenzione, Carocci, 2004

di Alvise Sbraccia, tratto da Antigone in carcere, Terzo rapporto sulle condizioni di detenzione, Carocci, 2004

1. Introduzione

Ormai un terzo dei detenuti presenti negli istituti di pena italiani è costituito da cittadini stranieri. Nelle regioni del centro-nord questa percentuale cresce sistematicamente almeno al 40% e sovente supera il 50% per raggiungere punte superiori al 70%. Diversi studiosi1 hanno recentemente osservato che tale processo di criminalizzazione sulla base della provenienza geografica e dell’appartenenza etnica sia più accentuato di quello che coinvolge gli africano-americani negli Usa. Naturalmente la rilevanza quantitativa della mass incarceration nordamericana è incomparabilmente superiore rispetto ai tassi di detenzione europei e italiani in particolare. Sarebbe tuttavia irresponsabile non interrogarsi su una tendenza "qualitativa" che in ogni caso ha contribuito significativamente alla recente crescita dei soggetti penalmente sanzionati e incarcerati nei Paesi europei. E infatti risulta ormai consolidata una linea di studi e ricerche che tenta di confrontarsi con questa problematica a partire dagli spunti analitici offerti dalla letteratura socio-criminologica. Gli sforzi esplicativi e l’individuazione di nessi causali che ne derivano si differenziano quindi a seconda delle prospettive teoriche di riferimento, promuovendo un confronto di argomentazioni che ci sembra interessante sintetizzare in questo paragrafo introduttivo.

I processi di criminalizzazione dei migranti si associano a fattori quali la selettività operativa delle agenzie del controllo istituzionale, la crisi delle forme di sostegno e controllo intracomunitario, la ristretta conformazione delle opportunità lavorative e socializzanti disponibili nel paese d’immigrazione e le pratiche di affiliazione gruppale potenzialmente criminogene.

La tradizione riconducibile alla
labelling theory considera cruciali le pratiche di reazione sociale e istituzionale nei processi di definizione e repressione dei soggetti che andranno ad acquisire un’identità deviante o criminale. Le fasi esistenziali, l’influenza delle relazioni praticate e dei fattori ambientali, perfino le condizioni socio-economiche di partenza tendono a sfumare, o meglio, non vengono considerate come chiavi etiologiche decisive. La dimensione evolutiva del soggetto deviante sembra assumere rilevanza a partire dal momento nel quale costui subisce un processo di criminalizzazione incontrando il sistema di sanzioni che giocherà un ruolo decisivo nella fase che Lemert2 ha definito di devianza secondaria.

Gli apparati esplicativi delle scuole criminologiche culturaliste3 e ambienaliste4, seguendo una logica diametralmente opposta, si orientano proprio alla definizione delle cause (psico)sociali del comportamento deviante "primario", alla ricerca dei nessi etiologici, anche molteplici, che possono rendere conto di

3 e ambienaliste4, seguendo una logica diametralmente opposta, si orientano proprio alla definizione delle cause (psico)sociali del comportamento deviante "primario", alla ricerca dei nessi etiologici, anche molteplici, che possono rendere conto di 1 Tra gli altri citiamo: Wacquant, L., 1999, Les prisons de la misère, Raisons d’agir, Parigi; De Giorgi, A., Il Governo dell’Eccedenza: Postfordismo e Controllo della Moltitudine, Ombre Corte, Verona

2Lemert, E., 1981, Devianza, Problemi Sociali e Forme di Controllo, Giuffrè, Milano

3Sutherland, E., Cressey, D., 1996, Criminologia, Giuffrè, Milano; Cloward, R., Ohlin, L., 1960, Delinquency and Opportunity, Free Press, Toronto; Merton, R., 2000, Teoria e Struttura Sociale, Il Mulino, Bologna

4 Rauty, R., 1995, Società e Metropolis: la Scuola Sociologica di Chicago, Donzelli, Roma; Tatum, B., 2000, Crime, Violence and Minority Youth, Ashgate, Aldershot; Massey, D., Denton, N., 1993, American Apartheid: Segregation and the Making of the Underclass, Harvard university press, Cambridge

 

come un soggetto intraprenda un percorso deviante. Le sue appartenenze gruppali, la sua carriera scolastica e lavorativa, la sua collocazione sociale e abitativa, i suoi legami familiari vengono analizzati con l’obiettivo di isolare una o più variabili che risultino significative dal punto di vista causale attraverso un processo di comparazione con altri casi. Secondo gli studiosi che afferiscono al paradigma della "reazione sociale" queste variabili sono invece da considerarsi come attributi in grado di indirizzare l’operato selettivo delle agenzie di controllo verso i soggetti che appartengono ai "gruppi pericolosi".

5 Tale prospettiva teorica è stata sostenuta da MacLeod, J. (1995, Ain’t No Makin’ it: Aspirations and Attainment in a Low-Income Neighborhood, Westview Press, San Francisco)

6 Ci riferiamo in questo caso ai teorici della cosiddetta giustizia attuariale. Si vedano in proposito i lavori di O’Malley (1999, Crime and the Risk Society, Ashgate, Brookfield) e Caplow, T., Simon, J. (1999, Understanding Prison Policy and Population Trends, University of Chicago Press, Chicago)

7 Rusche, G., 1976, Il Mercato del Lavoro e l’Esecuzione della Pena: Riflessioni per una Sociologia della Giustizia Penale, in ‘La Questione Criminale’, 2-3, 1976, pp. 519-538, p. 523

Come la storia dell’ultimo secolo di criminalità statunitense ci insegna, gli attributi etnici si coniugano alle posizioni subordinate nella stratificazione di classe nel processo di criminalizzazione di questi gruppi5. Anche i più recenti sviluppi nella penalizzazione degli stranieri in ambito europeo sembrano confermere la validità dell’ipotesi della selettività del controllo istituzionale verso i gruppi minoritari. Le distanze interpretative che tali divergenti approcci evidenziano vedono quindi nel complesso di svantaggi sociali che caratterizzano le biografie degli individui criminalizzati da un lato i fattori indispensabili per spiegarne la deriva deviante, dall’altro elementi categorizzati dagli agenti del controllo in chiave predittiva6, ovvero come segnali di un più probabile adattamento delinquenziale. Considerando con Rusche come la penalità moderna si diriga "quasi esclusivamente contro chi è condotto al delitto dalla propria origine, dalla miseria sociale, da un’educazione trascurata o dall’abbandono morale7", si tratterebbe allora di specificare se questi elementi siano da valutare come cause del crimine o indicatori della selettività della sua repressione.

Noi preferiamo ritenere che mettere in luce il rapporto tra strutture d’opportunità, affiliazioni gruppali e processi di criminalizzazione non debba necessariamente distoglierci dal valutare l’incidenza delle pratiche operative tipiche del controllo istituzionale. Alla logica della contrapposizione teorica sterile preferiamo indubbiamente quella di una complementarità fondata sulla critica reciproca. Tale preferenza ci è sembrata avvalorata dagli incontri che abbiamo avuto con gli stranieri in carcere nel corso di precedenti ricerche, ma anche dalle descrizioni che abbiamo analizzato nelle relazioni degli osservatori di Antigone relative alla loro condizione all’interno dei penitenziari. Se da un lato ci è parso evidente dai racconti degli stranieri intervistati che le circostanze dei loro arresti possano essere ricondotte alla selettività del controllo istituzionale nei loro confronti o verso i luoghi esposti dove essi svolgevano attività illecite, un semplice sguardo alle loro condizioni di detenzione o una veloce scorsa alle loro storie migratorie dovrebbe indurci a non sottovalutare il peso degli svantaggi sociali esperiti, con particolare riferimento alle strutture di opportunità lavorativa per come esse si presentano attualmente nel nostro Paese.

 

     

  1. 1.1 Nota metodologica
  2.  

 

  • 1.1 Nota metodologica
  •  

    Gli strumenti essenziali che ci hanno consentito di approfondire alcuni aspetti della vita detentiva dei detenuti stranieri sono naturalmente le relazioni che i volontari di Antigone hanno stilato a seguito delle loro visite agli istituti di pena collocati in territorio italiano. Tali rapporti non fanno sempre riferimento a questioni relative, in senso specifico, a questi soggetti. Il dato quantitativo sulla loro presenza è sempre presente, così come sono assai frequenti segnalazioni relative a particolari problematiche ed "emergenze", mentre scarseggiano informazioni attinenti ad eventuali differenze nell’area trattamentale o a discriminazioni relative alla gestione dei trasferimenti. Anche aspetti cruciali quali l’incidenza della tossicodipendenza sulla popolazione detenuta straniera, della partecipazioni di questi internati alle attività scolastiche, formative e di lavoro interno sono purtroppo trattati raramente. Considerando come le visite siano state orientate ad una ricognizione delle condizioni strutturali degli istituti e ad una valutazione generale sulle condizioni di detenzione, dobbiamo ammettere che le distinzioni su base "etnica" non sono abbastanza approfondite. Tenteremo di supplire a queste carenze anche sulla base di nostre precedenti e contemporanee esperienze di ricerca in quest’area.

       

    1. 1.2 Struttura del rapporto per aree tematiche
    2.  

     

  • 1.2 Struttura del rapporto per aree tematiche
  •  

    La struttura di questo contributo è organizzata per aree tematiche che ripropongono in parte la divisione standardizzata di quasi tutti i rapporti provenienti dai singoli istituti, in altra parte, alcune questioni sono trattate congiuntamente seguendo un criterio di coerenza e affinità.

    Nel paragrafo che segue (2) affronteremo il tema delle "clamorose" differenze nella distribuzione dei detenuti stranieri nei penitenziari della penisola.

    Tenteremo in seguito (paragrafo 3) di interpretare la natura del rapporto che sembra associare sistematicamente le condizioni di sovraffollamento alla presenza più cospicua di detenuti non autoctoni.

    I paragrafi 4 e 5 saranno dedicati ad alcune questioni problematiche che ci appaiono cruciali per questo tipo di "utenza": quella delle dipendenze da sostanze stupefacenti (4) e quelle legate alle pratiche di autolesionismo e alla conflittualità interetnica (5).

    Con riferimento alla sfera della tutela dei diritti e della fruizione dei servizi fondamentali, svilupperemo alcune riflessioni conclusive sulle dimensioni dell’ ambivalenza istituzionale (paragrafo 6).

       

    1. 2 Distribuzione territoriale
    2.  

     

  • 2 Distribuzione territoriale
  •  

    Alcuni dati sulla distribuzione per regione dei detenuti stranieri possono aiutarci ad entrare nel vivo di alcune questioni già richiamate in sede di introduzione e costituiscono un congruo quadro di sfondo per analizzare più avanti temi quali il sovraffollamento, la conflittualità intramuraria e l’accesso ai servizi fondamentali.

    TABELLA 1

    Regione

    Totale detenuti

    Detenuti stranieri

    % (e rapporto) detenuti stranieri sul totale

    Campania

    6440

    917

    14.2% (1 su 7.02)

    8 I trasferimenti di detenuti stranieri, come vedremo, possono essere giustificati come provvedimenti disciplinari oppure tesi a diminuire il sovraffollamento di alcuni istituti. I detenuti stranieri intervistati a Trapani e Palermo che provenivano da istituti del centro-nord lamentavano la riduzione di opportunità trattamentali ma, in alcuni casi riconoscevano l’attenuazione dei problemi legati al sovraffollamento. Ciò nonostante, questo tipo di spostamenti è spesso osteggiato. Il nostro inviato alla c.c. di Ravenna riporta ad esempio "episodi relativi ad extracomunitari che rifiutavano il trasferimento attaccandosi alle sbarre, verso i quali gli agenti hanno dovuto forzare la mano per rimuoverli"

    I trasferimenti di detenuti stranieri, come vedremo, possono essere giustificati come provvedimenti disciplinari oppure tesi a diminuire il sovraffollamento di alcuni istituti. I detenuti stranieri intervistati a Trapani e Palermo che provenivano da istituti del centro-nord lamentavano la riduzione di opportunità trattamentali ma, in alcuni casi riconoscevano l’attenuazione dei problemi legati al sovraffollamento. Ciò nonostante, questo tipo di spostamenti è spesso osteggiato. Il nostro inviato alla c.c. di Ravenna riporta ad esempio "episodi relativi ad extracomunitari che rifiutavano il trasferimento attaccandosi alle sbarre, verso i quali gli agenti hanno dovuto forzare la mano per rimuoverli"

    Emilia R.

    3448

    1675

    48.6% (1 su 2.05)

    Lazio

    5440

    2264

    41.6% (1 su 2.40)

    Lombardia

    8475

    3786

    44.7% (1 su 2.23)

    Piemonte

    4524

    1997

    44.1% (1 su 2.21)

    Sicilia

    5719

    864

    15.1% (1 su 6.61)

    Toscana

    3878

    1574

    40.6% (1 su 2.46)

    Veneto

    2440

    1304

    53.4% (1 su 1.87)

    Nostra rielaborazione su fonte DAP 31 dicembre 2003

    L’immagine offerta da questa tabella è quella di un Paese diviso. Prendendo in considerazione i due dati agli antipodi, osserviamo come l’incidenza degli stranieri sulla popolazione detenuta sia in Veneto 3.5 volte più pesante che in Sicilia. Tale confronto, tale asimmetria appaiono tanto più significativi se si tiene presente che la quota stimata di stranieri sugli abitanti è nelle due regioni analoga, ma vi è un ulteriore elemento da non trascurare: solo una parte dei detenuti immigrati presenti nelle regioni del sud è stata arrestata e processata nelle stesse e, nel corso di un nostro lavoro di ricerca sugli stranieri reclusi a Trapani e Palermo, abbiamo avuto l’impressione, confermata da alcuni operatori, che si tratti di una parte minoritaria. I dati presentati, in altre parole, andrebbero analizzati alla luce del fatto che la prassi istituzionale dei trasferimenti8 dalle prigioni del centro-nord a quelle del sud tende a ridurre di fatto la pur sempre abissale differenza nella composizione della popolazione detenuta.

    Il problema è allora quello di fornire un quadro esplicativo di questa distanza. In questa sede non abbiamo la possibilità di svilupparlo compiutamente e ci limiteremo ad avanzare due ipotesi, almeno parzialmente interconnesse:

       

    1. - Le agenzie del controllo istituzionale nelle regioni del sud sarebbero chiamate a confrontarsi prioritariamente con forme strutturate di criminalità autoctona, ancora in grado di contendere allo Stato il controllo sul territorio ma anche capaci di mantenere una sorta di monopolio sulle attività illegali (spaccio, gestione della prostituzione, furti e ricettazioni) per le quali gli stranieri sono in prevalenza sanzionati a livello nazionale.

       

    2. Le agenzie del controllo istituzionale nelle regioni del sud sarebbero chiamate a confrontarsi prioritariamente con forme strutturate di criminalità autoctona, ancora in grado di contendere allo Stato il controllo sul territorio ma anche capaci di mantenere una sorta di monopolio sulle attività illegali (spaccio, gestione della prostituzione, furti e ricettazioni) per le quali gli stranieri sono in prevalenza sanzionati a livello nazionale.

       

       

    3. - Il processo di criminalizzazione dei migranti sarebbe in queste regioni attenuato anche dalle possibilità di costoro di inserirsi nelle economie informali come braccianti e lavoratori a giornata. Tale possibilità, strettamente dipendente dalla conformazione dei mercati del lavoro locale, contribuirebbe a rendere meno esposti a percorsi di delinquenza i migranti privi di uno status di regolarità giuridica (clandestini nell’accezione mediatica) ovvero consentirebbe loro di sopravvivere più agevolmente nelle condizioni di precarietà tipiche di un’economia degli espedienti. Il lavoro irregolare a giornata o stagionale, pur estremamente gravoso e sottopagato, permetterebbe infatti a questi immigrati

       

    4. Il processo di criminalizzazione dei migranti sarebbe in queste regioni attenuato anche dalle possibilità di costoro di inserirsi nelle economie informali come braccianti e lavoratori a giornata. Tale possibilità, strettamente dipendente dalla conformazione dei mercati del lavoro locale, contribuirebbe a rendere meno esposti a percorsi di delinquenza i migranti privi di uno status di regolarità giuridica (clandestini nell’accezione mediatica) ovvero consentirebbe loro di sopravvivere più agevolmente nelle condizioni di precarietà tipiche di un’economia degli espedienti. Il lavoro irregolare a giornata o stagionale, pur estremamente gravoso e sottopagato, permetterebbe infatti a questi immigrati

       

     

  • - Le agenzie del controllo istituzionale nelle regioni del sud sarebbero chiamate a confrontarsi prioritariamente con forme strutturate di criminalità autoctona, ancora in grado di contendere allo Stato il controllo sul territorio ma anche capaci di mantenere una sorta di monopolio sulle attività illegali (spaccio, gestione della prostituzione, furti e ricettazioni) per le quali gli stranieri sono in prevalenza sanzionati a livello nazionale.

     

  • Le agenzie del controllo istituzionale nelle regioni del sud sarebbero chiamate a confrontarsi prioritariamente con forme strutturate di criminalità autoctona, ancora in grado di contendere allo Stato il controllo sul territorio ma anche capaci di mantenere una sorta di monopolio sulle attività illegali (spaccio, gestione della prostituzione, furti e ricettazioni) per le quali gli stranieri sono in prevalenza sanzionati a livello nazionale.

     

     

  • - Il processo di criminalizzazione dei migranti sarebbe in queste regioni attenuato anche dalle possibilità di costoro di inserirsi nelle economie informali come braccianti e lavoratori a giornata. Tale possibilità, strettamente dipendente dalla conformazione dei mercati del lavoro locale, contribuirebbe a rendere meno esposti a percorsi di delinquenza i migranti privi di uno status di regolarità giuridica (clandestini nell’accezione mediatica) ovvero consentirebbe loro di sopravvivere più agevolmente nelle condizioni di precarietà tipiche di un’economia degli espedienti. Il lavoro irregolare a giornata o stagionale, pur estremamente gravoso e sottopagato, permetterebbe infatti a questi immigrati

     

  • Il processo di criminalizzazione dei migranti sarebbe in queste regioni attenuato anche dalle possibilità di costoro di inserirsi nelle economie informali come braccianti e lavoratori a giornata. Tale possibilità, strettamente dipendente dalla conformazione dei mercati del lavoro locale, contribuirebbe a rendere meno esposti a percorsi di delinquenza i migranti privi di uno status di regolarità giuridica (clandestini nell’accezione mediatica) ovvero consentirebbe loro di sopravvivere più agevolmente nelle condizioni di precarietà tipiche di un’economia degli espedienti. Il lavoro irregolare a giornata o stagionale, pur estremamente gravoso e sottopagato, permetterebbe infatti a questi immigrati

     

    9 Marzio Barbagli ha riportato più volte (1998, Immigrazione e Criminalità in Italia, Il Mulino, Bologna; 2002, Immigrazione e Reati in Italia, Il Mulino, Bologna) percentuali superiori all’80% di clandestini tra i detenuti sranieri. Da parte nostra, ci limitiamo ad osservare come questi dati si inseriscano in un quadro socio-giuridico all’interno del quale gli sforzi più rilevanti sostenuti per affrontare le problematiche connesse ad un afflusso massiccio di newcomers sono andati nella direzione di regolarizzarli attraverso le "sanatorie". Dopo cinque provvedimenti legislativi di questo tipo in dodici anni, è possible per noi sottolineare quanto paradossale sia una distinzione dei cittadini stranieri sulla base della loro posizione giuridica: solo una ridotta minoranza di costoro, infatti, è rimasta sempre in condizioni di legalità e la netta maggioranza di quelli che lo sono ora ha esperito in Italia lo status di irregolare.

    10 Sarebbero in effetti più numerosi al centro-nord gli ingressi in carcere di stranieri che non hanno rispettato i decreti di espulsione: gli osservatori di Antigone ne segnalano la presenza negli istituti di Trento e Treviso.

    11 La definizione della capienza tollerabile, come ci informano diversi autori delle visite, è oggetto di contenziosi tra gli stessi operatori penitenziari. Nella tabella proposta, il lettore avrà osservato che sovente tale numero equivale a quello dei detenuti presenti (*) il dato va quindi trattato con la dovuta prudenza poichè a fornirlo, nei diversi istituti, potrebbero essere stati soggetti con interessi o opinioni divergenti. In alcuni casi diversi operatori all’interno del medesimo istituto si sono contraddetti perfino sulla capienza regolamentare.

       

    1. irregolari, che altrove affollano gli istituti di pena9, di far fronte a costi di mantenimento (vitto, alloggio) significativamente contenuti rispetto a quelli delle regioni centro-settentrionali. Avallando l’idea che l’inserimento nei mercati del lavoro informali costituisca l’alternativa più plausibile e percorsa alla delinquenza, avanziamo quindi l’ipotesi che il suo rapporto con il costo della vita e con una diffusa tolleranza culturale e istituzionale10 possa paradossalmente favorire chi lo persegue nelle regioni economicamente meno sviluppate del Paese.

       

      Tali osservazioni appaiono esulare dal tema specifico di questo rapporto, ma a nostro avviso sono invece fondamentali per giustificare il fatto che gli spunti tratti dalle relazioni degli inviati di Antigone che utilizzaremo sono in netta prevalenza relativi a visite negli istituti del centro-nord. Con riferimento al tema fondamentale del sovraffollamento il differenziale nord-sud apparirà subito cruciale: è a questa problematica che rivolgiamo ora la nostra attenzione.

         

      1. 3 Sovraffollamento e condizioni detentive: riproduzione degli svantaggi
      2.  

    2. 9, di far fronte a costi di mantenimento (vitto, alloggio) significativamente contenuti rispetto a quelli delle regioni centro-settentrionali. Avallando l’idea che l’inserimento nei mercati del lavoro informali costituisca l’alternativa più plausibile e percorsa alla delinquenza, avanziamo quindi l’ipotesi che il suo rapporto con il costo della vita e con una diffusa tolleranza culturale e istituzionale10 possa paradossalmente favorire chi lo persegue nelle regioni economicamente meno sviluppate del Paese.

       

      Tali osservazioni appaiono esulare dal tema specifico di questo rapporto, ma a nostro avviso sono invece fondamentali per giustificare il fatto che gli spunti tratti dalle relazioni degli inviati di Antigone che utilizzaremo sono in netta prevalenza relativi a visite negli istituti del centro-nord. Con riferimento al tema fondamentale del sovraffollamento il differenziale nord-sud apparirà subito cruciale: è a questa problematica che rivolgiamo ora la nostra attenzione.

         

      1. 3 Sovraffollamento e condizioni detentive: riproduzione degli svantaggi
      2.  

     

  • irregolari, che altrove affollano gli istituti di pena9, di far fronte a costi di mantenimento (vitto, alloggio) significativamente contenuti rispetto a quelli delle regioni centro-settentrionali. Avallando l’idea che l’inserimento nei mercati del lavoro informali costituisca l’alternativa più plausibile e percorsa alla delinquenza, avanziamo quindi l’ipotesi che il suo rapporto con il costo della vita e con una diffusa tolleranza culturale e istituzionale10 possa paradossalmente favorire chi lo persegue nelle regioni economicamente meno sviluppate del Paese.

     

    Tali osservazioni appaiono esulare dal tema specifico di questo rapporto, ma a nostro avviso sono invece fondamentali per giustificare il fatto che gli spunti tratti dalle relazioni degli inviati di Antigone che utilizzaremo sono in netta prevalenza relativi a visite negli istituti del centro-nord. Con riferimento al tema fondamentale del sovraffollamento il differenziale nord-sud apparirà subito cruciale: è a questa problematica che rivolgiamo ora la nostra attenzione.

       

    1. 3 Sovraffollamento e condizioni detentive: riproduzione degli svantaggi
    2.  

  • 9, di far fronte a costi di mantenimento (vitto, alloggio) significativamente contenuti rispetto a quelli delle regioni centro-settentrionali. Avallando l’idea che l’inserimento nei mercati del lavoro informali costituisca l’alternativa più plausibile e percorsa alla delinquenza, avanziamo quindi l’ipotesi che il suo rapporto con il costo della vita e con una diffusa tolleranza culturale e istituzionale10 possa paradossalmente favorire chi lo persegue nelle regioni economicamente meno sviluppate del Paese.

     

    Tali osservazioni appaiono esulare dal tema specifico di questo rapporto, ma a nostro avviso sono invece fondamentali per giustificare il fatto che gli spunti tratti dalle relazioni degli inviati di Antigone che utilizzaremo sono in netta prevalenza relativi a visite negli istituti del centro-nord. Con riferimento al tema fondamentale del sovraffollamento il differenziale nord-sud apparirà subito cruciale: è a questa problematica che rivolgiamo ora la nostra attenzione.

       

    1. 3 Sovraffollamento e condizioni detentive: riproduzione degli svantaggi
    2.  

     

  • 3 Sovraffollamento e condizioni detentive: riproduzione degli svantaggi
  •  

    Dai riferimenti statistici che i visitatori di Antigone hanno raccolto nel corso delle loro visite negli istituti penitenziari del Paese emerge una netta correlazione tra elevate percentuali di detenuti stranieri e condizioni di sovraffollamento: le prigioni che vedono una presenza elevata di costoro si caratterizzano sistematicamente per un numero di internati superiore a quello della capienza massima prevista, spesso anche notevolmente più elevato rispetto alla cosiddetta capienza tollerabile11. Le conseguenze di un tale sovaraffollamento sono affrontate altrove in questo rapporto: degrado strutturale, limitazioni nelle attività socializzanti e trattamentali, riduzione delle ore d’aria, della luminosità, dell’acqua e dell’aria per cella sono solo le più evidenti e immediatamente preoccupanti.

    Tornando ai nostri temi specifici, si osservino i seguenti dati, relativi per le prime due colonne al momento della visita degli inviati di Antigone:

    TABELLA 2

    ISTITUTO

    % STRANIERI \TOTALE (2003-

    POPOLAZIONE DETENUTA (2003-2004)

    CAPIENZA REGOLAMENTARE

    CAPIENZA TOLLERABILE

    12 Verde, S., 2002, Massima sicurezza, Odradek, Roma

    Verde, S., 2002, Massima sicurezza, Odradek, Roma

    2004)

    c.c. Bologna

    50

    920

    350

    400

    c.c. Bolzano

    65-70

    150

    67

    86

    c.c. Civitavecchia

    50 (+)

    501

    250

    475 (!)

    c.c. Firenze

    60

    1030

    430-454

    490

    c.c. La Spezia

    70-75

    208

    149

    210 (*)

    c.c. Lucca

    60 (-)

    176

    87

    116

    Modena

    50 (+)

    370

    185 (-)

    -

    c.c. Padova

    90 (!)

    220

    92

    120

    Padova

    50

    673

    400

    700 (*)

    Piacenza

    50

    304

    168

    -

    c.c. Pisa

    50

    323

    204

    285

    c.c. Ravenna

    50

    117

    60

    -

    c.c. Regina Coeli

    60

    931

    600-830 (!)

    950 (*)

    Rimini

    70

    220

    177

    190

    c.c. Rovereto

    50

    88

    28

    50

    c.c. Trento

    60

    121

    98

    125 (*)

    Treviso

    55

    260

    127

    150

    c.c. Trieste

    45

    219

    140

    219 (*)

    c.c. Verona

    55-60

    586

    250

    500 (!)

    c.c. Viterbo

    40

    585

    260

    -

    Come ha recentemente osservato Salvatore Verde12, non è possibile attribuire al solo incremento nella quota straniera nella popolazione detenuta l’espansione di quest’ultima nel suo complesso. La crescita progressiva dei soggetti penalmente sanzionati attraverso la reclusione è ovviamente connessa con i processi di criminalizzazione dei migranti, anche se i dati sui nuovi giunti in carcere hanno evidenziato nell’anno 2001 una leggera flessione, peraltro subito compensata nei dati degli anni successivi:

    TABELLA 3

     

    ANNO

    % DI STRANIERI SUL TOTALE DEI NUOVI INGRESSI

    1995

    26.8

    1998

    33.0

    1999

    33.4

    2000

    36.2

    2001

    35.8

    2002

    37.0

     

    13 Si veda in proposito: Melossi, D., 2002, Stato, Controllo Sociale, Devianza, Bruno Mondadori, Milano

    Si veda in proposito: Melossi, D., 2002, Stato, Controllo Sociale, Devianza, Bruno Mondadori, Milano

    2003 (primi 7 mesi)

    38.7

    Tale flessione, che potrebbe ripetersi nei prossimi anni, sembrerebbe derivare da una tendenza alla diminuzione dei cittadini extracomunitari che, esposti ai rischi più elevati di criminalizzazione e alle attenzioni degli agenti del controllo istituzionale in quanto newcomers e irregolari, potrebbero entrare nelle prigioni nazionali per la prima volta. L’estensione delle procedure di espulsione, l’inasprimento della legislazione in merito e la consolidata tendenza alla recidiva degli autori di reato non autoctoni13 potrebbero definire il quadro interpretativo utile a comprendere questo fenomeno. Un altro elemento esplicativo sarebbe da ricercarsi nella recentissima riduzione nei flussi di migranti che approdano clandestinamente -le quote regolari in ingresso sono negli ultimi anni notoriamente bassissime- alle nostre frontiere.

    In sede di introduzione abbiamo già proposto una riflessione sul rapporto tra clandestinità e criminalizzazione. Considerando peraltro come le innovazioni della Bossi-Fini rendano ancora più difficoltose e incerte le pratiche di rinnovo del permesso di soggiorno, subordinandole di fatto alla stabilità contrattuale in un periodo caratterizzato dalla precarizzazione e dalla flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, dovremmo attribuire loro un peso determinante per quanto attiene il nuovo aumento percentuale che riscontriamo nel 2002 e nei primi mesi del 2003. I soggetti destinati a (ri)entrare in uno status di irregolarità appaiono in altre parole invertire la tendenza che stiamo tentando di analizzare, riproponendo così i migranti come figure chiave dell’ipertrofia del sistema carcerario.

    In attesa di verificare queste ipotesi e tenendo presente quanto osservato nel paragrafo precedente a proposito delle differenze nella distribuzione territoriale dei reclusi stranieri, riportiamo alcuni commenti relativi alle visite effettuate che associano alla presenza cospicua di questi ultimi alle condizioni di sovraffollamento più marcate o, viceversa, alla loro presenza limitata situazioni relativamente buone.

    Quest’ultimo è il caso di Spoleto dove
    "i detenuti stranieri sono pochi...e la struttura risulta visibilmente in ottime condizioni ed anche molto accogliente e confortevole". Analoga la descrizione delle strutture di Rossano Calabro (7 stranieri su 150 detenuti) e Palermo (Pagliarelli, 10% di reclusi stranieri).

    A Rimini, invece, "il 70% dei detenuti è extracomunitario...i corridoi sono bassi e con finestre poco luminose. Le celle sembrano disporre di luce sufficiente, ma sono strette e ospitano in media sei detenuti...ai piani non vi è ambulatorio, le pareti sono sporche come i pavimenti e...nei passeggi mancano le tettoie". La situazione di questa casa di reclusione induce la dirigenza ad interloquire con il nostro inviato nei termini che seguono a proposito della presenza nettamente maggioritaria di internati stranieri: "I neri puzzano, non si lavano sa, non sono abituati all’uso del water e fanno tutto nella doccia. E gli italiani poi ci rimangono male...E’ inutile organizzare attività sportive per gli arabi, quelli lo sport non ce l’hanno nel sangue...Bisogna essere franchi, dire le cose come stanno...Lei non si immagina, dottore, arrivano, vogliono andare in bagno, vogliono il dottore, sono impossibili da gestire".

    "il 70% dei detenuti è extracomunitario...i corridoi sono bassi e con finestre poco luminose. Le celle sembrano disporre di luce sufficiente, ma sono strette e ospitano in media sei detenuti...ai piani non vi è ambulatorio, le pareti sono sporche come i pavimenti e...nei passeggi mancano le tettoie". La situazione di questa casa di reclusione induce la dirigenza ad interloquire con il nostro inviato nei termini che seguono a proposito della presenza nettamente maggioritaria di internati stranieri: "I neri puzzano, non si lavano sa, non sono abituati all’uso del water e fanno tutto nella doccia. E gli italiani poi ci rimangono male...E’ inutile organizzare attività sportive per gli arabi, quelli lo sport non ce l’hanno nel sangue...Bisogna essere franchi, dire le cose come stanno...Lei non si immagina, dottore, arrivano, vogliono andare in bagno, vogliono il dottore, sono impossibili da gestire".

     

    Con il 50% di detenuti non autoctoni, la casa circondariale di Ravenna si presenta "ai limiti della fatiscenza: pareti scrostate, crepate...ambienti assolutamente carenti dal punto di vista igienico...Le celle si presentano anguste, prive di luce sufficiente. I detenuti dormono in letti a castello di tre posti l’uno, fatti di ferro arrugginito". Le strutture padovane presentano anch’esse problemi legati al sovraffollamento. Alla casa di reclusione (50% gli stranieri) "esiste una cucina per 700 persone quando il regolamento fissa il limite di non più di 200 persone, non c’è acqua calda nelle celle e...le strutture risultano nel complesso inadeguate". Ancor più drammatica la situazione al circondariale, abitato quasi in esclusiva da extracomunitari (90%) e segnato da un degrado ambientale al quale si somma una cronica carenza di personale. Per quanto riguarda la casa circondariale di La Spezia, gli stranieri variano dal 70 al 75% e "la direttrice avverte che l’edificio deve essere completamente ristrutturato perchè è di fatto invivibile", mentre quella di Trieste (molto estesa la comunità cinese) presenta "cortili con l’asfalto rotto, un’afflizione aggiuntiva, e...celle, alcune con il muro scrostato di 20 mq., che sarebbero da due persone ma ci stanno in quattro e a volte in sei".

    "ai limiti della fatiscenza: pareti scrostate, crepate...ambienti assolutamente carenti dal punto di vista igienico...Le celle si presentano anguste, prive di luce sufficiente. I detenuti dormono in letti a castello di tre posti l’uno, fatti di ferro arrugginito". Le strutture padovane presentano anch’esse problemi legati al sovraffollamento. Alla casa di reclusione (50% gli stranieri) "esiste una cucina per 700 persone quando il regolamento fissa il limite di non più di 200 persone, non c’è acqua calda nelle celle e...le strutture risultano nel complesso inadeguate". Ancor più drammatica la situazione al circondariale, abitato quasi in esclusiva da extracomunitari (90%) e segnato da un degrado ambientale al quale si somma una cronica carenza di personale. Per quanto riguarda la casa circondariale di La Spezia, gli stranieri variano dal 70 al 75% e "la direttrice avverte che l’edificio deve essere completamente ristrutturato perchè è di fatto invivibile", mentre quella di Trieste (molto estesa la comunità cinese) presenta "cortili con l’asfalto rotto, un’afflizione aggiuntiva, e...celle, alcune con il muro scrostato di 20 mq., che sarebbero da due persone ma ci stanno in quattro e a volte in sei". Da Regina Coeli (60% stranieri) veniamo a sapere che "l’edificio è strutturalmente inadatto per la detenzione" e che, volendo trovare l’aspetto comico a tutti i costi, "nel locale attiguo e comunicante con la cucina circolano topi" rispetto ai quali gli agenti sostengono che "si tratta di uno solo che passa solamente e poi se ne va a una certa ora". Dalla casa circondariale di Civitavecchia (50% stranieri) che "c’è il problema del razionamento dell’acqua corrente, manca qualsiasi attività e il clima generale risulta opprimente". Nella struttura a ‘media sicurezza’ della stessa città, al contrario, "non ci sono problemi di spazio e i detenuti sono in numero ridotto rispetto alla capienza potenziale", forse anche perchè gli stranieri non superano il 10% sul totale dei detenuti. Tra gli istituti visitati, comunque, le condizioni più indecorose sembrano riservate ai detenuti di Belluno (stranieri per il 50%) dove alla fatiscenza dei locali si accompagna la circostanza secondo la quale "d’inverno le celle rimangono chiuse tutto il giorno". Dal Corriere delle Alpi del 7 ottobre 2003, l’inviata di Antigone riporta in proposito quanto segue:

    Belluno è l’unico carcere visitato (il gruppo ha effettuato analoghe visite a Treviso, Venezia, Padova e Rovigo) dove oltre al cancello siano chiusi tutto il giorno anche i blindati. Ossia, oltre alle sbarre anche un portone di ferro, che oscura completamente. Non bastasse, lo spioncino che è uno sportelletto che consentirebbe almeno di vedersi e di dialogare da una cella all’altra è chiuso anche quello.

    Tali osservazioni, di limitata valenza statistica, non sono chiaramente estendibili alla totalità degli istituti visitati. Ad esempio: il carcere di Ancona (70% la percentuale di detenuti stranieri) si caratterizza per
    "cubatura sufficiente" e presenta "condizioni sufficienti di luminosità e aereazione, buone di riscaldamento, pulizia, fornitura d’acqua e elettricità"; quello di Fermo (47% di stranieri) per condizioni complessive relativamente buone. Sono state inoltre accertati livelli importanti di sovraffollamento presso istituti che presentano

     

    14 Rusche, G., Kircheimer, O., 1978 (trad. it.), Pena e Struttura Sociale, il Mulino, Bologna 15 Dalla relazione sulla casa circondariale di Padova: "L’approvvigionamento di vestiario è reso necessario dal fatto che molti detenuti privi di qualsiasi supporto e riferimento sociale possiedono letteralmente i soli abiti indossati al momento dell’arresto e l’amministrazione non fornisce biancheria intima". Segnalazioni analoghe provengono anche da altre strutture come quelle di Trieste e Fermo.

    16 Emblematico, a questo proposito, quanto riportato dal visitatore della casa circondariale di Pescara, che si caratterizza per condizioni complessive più che discrete e per una direzione "illuminata": "La procedura relativa alle telefonate è a norma di legge, se non addirittura più permissiva. Anche i detenuti stranieri possono telefonare, nonostante gli operatori non comprendano la conversazione e la direzione accetta da parte loro la pratica dell’autocertificazione, che non varrebbe nel caso che essi siano sprovvisti del permesso di soggiorno". La ricca relazione sulla struttura di Pesaro, così come quella di Fermo, mette invece in luce come i detenuti stranieri debbano attendere per lungo tempo, prima di effettuare le telefonate, le autorizzazioni dei loro consolati. A Pesaro, inoltre, "i volontari riferiscono di varie segnalazioni provenienti dai detenuti riguardanti il mancato o tardivo arrivo di corrispondenza attesa e la mancanza di valori che sarebbero dovuti essere contenuti nelle missive": vittime di questi incidenti sarebbero soprattutto detenuti stranieri.

    "La procedura relativa alle telefonate è a norma di legge, se non addirittura più permissiva. Anche i detenuti stranieri possono telefonare, nonostante gli operatori non comprendano la conversazione e la direzione accetta da parte loro la pratica dell’autocertificazione, che non varrebbe nel caso che essi siano sprovvisti del permesso di soggiorno". La ricca relazione sulla struttura di Pesaro, così come quella di Fermo, mette invece in luce come i detenuti stranieri debbano attendere per lungo tempo, prima di effettuare le telefonate, le autorizzazioni dei loro consolati. A Pesaro, inoltre, "i volontari riferiscono di varie segnalazioni provenienti dai detenuti riguardanti il mancato o tardivo arrivo di corrispondenza attesa e la mancanza di valori che sarebbero dovuti essere contenuti nelle missive": vittime di questi incidenti sarebbero soprattutto detenuti stranieri.

    una popolazione straniera anche molto inferiore (c.c. Avellino, Catania, Palermo) o in pari (c.c. Livorno, c.c. Rebibbia, Sulmona, Camerino, Teramo, c.c. Velletri) rispetto alla media nazionale.

    Ma si tratta di eccezioni: negli istituti dove il sovraffollamento non è indicato come problema e le condizioni spaziali appaiono più vivibili, il numero di stranieri è quasi sempre (molto) inferiore ai valori medi delle prigioni italiane.

    Quindi la relazione tra presenze straniere massicce e condizioni di detenzione più pesanti non sembra poter essere messa in discussione e appare fornire un supporto sostanziale alla sempre attuale speculazione teorica di Rusche e Kircheimer
    14. Il timore\terrore che l’istituzione carceraria deve garantire nella prospettiva dei due autori, si rivolge in questo caso a soggetti le cui condizioni di vita all’esterno sono caratterizzate dalla marginalità più radicale, le cui aspettative sono drammaticamente ancorate alla precarietà economica e di status.

    Nei prossimi due paragrafi tenteremo di affrontare due aspetti estremamente problematici che l’istituzione carceraria sembra importare tra le sue mura da una realtà esterna cupa e deteriorata: la tossicodipendenza e la conflittualità interetnica che coinvolgono una parte rilevante dei cittadini stranieri criminalizzati. Alla luce di quanto osserveremo, il lettore potrà considerare come i gravi disagi che il sovraffollamento impone si associno al disagio del quotidiano esperito all’esterno da queste persone; come in qualche modo lo rispecchino fedelmente15, oppure perfino come, nella logica ferrea e stringente della less eligibility, tendano ad amplificarlo. Perfino le difficoltà relative all’inserimento dei migranti autori di reato nei progetti di misure alternative (segnalate esplicitamente per quanto riguarda le carceri di Treviso, Trento e Fermo) -difficoltà notoriamente derivanti dalla precarietà della loro condizione abitativa e dalla labilità o assenza dei loro legami familiari nel Paese d’immigrazione- contribuiscono a consolidare questo quadro di svantaggi. Per completarne la definizione, dobbiamo osservare, insieme ad alcuni degli osservatori di Antigone (c.c. Rovigo, Ancona, c.c. L’Aquila), come i detenuti stranieri siano frequentemente deprivati del conforto delle visite dei parenti e come a volte subiscano limitazioni perfino nella possibilità di comunicare attraverso il telefono

    15, oppure perfino come, nella logica ferrea e stringente della less eligibility, tendano ad amplificarlo. Perfino le difficoltà relative all’inserimento dei migranti autori di reato nei progetti di misure alternative (segnalate esplicitamente per quanto riguarda le carceri di Treviso, Trento e Fermo) -difficoltà notoriamente derivanti dalla precarietà della loro condizione abitativa e dalla labilità o assenza dei loro legami familiari nel Paese d’immigrazione- contribuiscono a consolidare questo quadro di svantaggi. Per completarne la definizione, dobbiamo osservare, insieme ad alcuni degli osservatori di Antigone (c.c. Rovigo, Ancona, c.c. L’Aquila), come i detenuti stranieri siano frequentemente deprivati del conforto delle visite dei parenti e come a volte subiscano limitazioni perfino nella possibilità di comunicare attraverso il telefono16 e il servizio postale. Chiunque abbia un minimo di conoscenza della vita detentiva, sa quale enorme importanza abbiano questi contatti con l’esterno per gli internati, soprattutto

     

    perchè sono in grado di interrompere la monotonia istituzionale e fornire una sorta di salvagente affettivo.

    Un altro dato da non sottovalutare, tanto che viene segnalato da alcuni nostri ispettori (Camerino, Padova) sembrarebbe connesso al precedente: i detenuti stranieri, spesso i più indigenti, faticano ad accedere al sopravvitto e ovviamente ricevono meno generi alimentari dalle famiglie. Vi è infine da avanzare un’ipotesi relativa allo scarso coinvolgimento dei migranti nel cosiddetto lavoro interno. Nel corso di precedenti ricerche sul carcere ci siamo spesso imbattuti in lamentele di internati extracomunitari che affermavano di essere discriminati nell’attribuzione di tali mansioni a vantaggio di detenuti autoctoni, spesso condannati a pene più lunghe e quindi più stabilmente inseriti nei meccanismi di funzionamento istituzionale. A dire il vero abbiamo anche incontrato migranti che affermavano di essere riusciti per la prima volta a mandare qualche soldo a casa proprio grazie al lavoro intramurario poichè i loro sforzi all’esterno erano radicalmente ancorati a prospettive di mera sopravvivenza. Nelle relazioni delle visite relative al periodo 2003-2004, non sono presenti osservazioni specifiche sul tema del lavoro interno degli stranieri, tuttavia queste ultime considerazioni tendono a rivelare i contenuti ambivalenti della detenzione degli immigrati: li riprenderemo nel paragrafo 6, in sede di conclusioni.

       

    1. 4 Stranieri e tossicodipendenza
    2.  

     

  • 4 Stranieri e tossicodipendenza
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    I dati forniti dal DAP nel 2001 sull’incidenza dei tossicodipendenti nel complesso dei detenuti in Italia la stimvano al 27.3% circa. In quell’anno veniva inoltre offerta anche una percentuale analoga (25.4%) per i reclusi stranieri con prblemi legati al consumo di stupefacenti.

    Questi dati vanno interpretati con prudenza e permangono molti dubbi sulla loro affidabilità. Da un primo punto di vista appaiono infatti discutibili i criteri di rilevazione, che sarebbero difformi a seconda degli istituti ovvero a volte basati sull’esame delle urine, altre sulle dichiarazioni dei nuovi giunti al loro ingresso. In secondo luogo non ci sarebbe unità di vedute sulle sostanze l’utilizzo regolare delle quali provochi dipendenza. Per rimanere nell’ambito di un paradosso ormai cronico, dovremmo peraltro osservare come solo presso alcune strutture venga segnalato il problema della dipendenza da alcolici. E’ il caso del ‘Pagliarelli’ di Palermo, dove la direzione, con esplicito riferimento ai detenuti stranieri, stima il numero di alcooldipendenti ben più elevato di quello dichiarato.

    Il pregiudizio che comunque tramonta alla luce di questi dati incerti è quello relativo ad una sorta di immunità degli stranieri rispetto a percorsi di tossicodipendenza. Si tratta di un pregiudizio a fondamento razionalista, secondo il quale i piccoli spacciatori di strada stranieri, quelli più esposti alla repressione degli agenti del controllo istituzionale, sarebbero stati più affidabili dal punto di vista criminale a causa dei loro orizzonti motivazionali, ancorati ad aspettative di arricchimento rapido piuttosto che limitati al soddisfacimento del bisogno da oppiacei tipico invece della "generazione" precedente di
    dealers di strada, composta in prevalenza da tossicodipendenti italiani.

    Con riferimento alla nostra esperienza in alcuni istituti penitenziari, siamo invece propensi a ritenere che la percentuale di detenuti stranieri afflitti da

     

    17 Discorso analogo, anche se su base statistica meno inequivocabile, si può fare sulla casa circondariale di La Spezia.

    18 Emblematico il caso del penitenziario di Rebibbia a custodia attenuata per tossicodipendenti, dove non sono presenti stranieri al momento della visita.

    questo tipo di problematica sia complessivamente sottostimata: a conferma di questa tesi, una semplice annotazione statistica dalla casa circondariale di Padova, dove i detenuti non autoctoni arrivano al 90% del totale e il 60% degli ospiti risulta tossicodipendente17. Gli stranieri afflitti da questo tipo di dipendenza (anche multipla) sarebbero inoltre trattati meno spesso in strutture specificamente dedicate a questo tipo di "utenza"18, meno seguiti, in collaborazione con i serT, con trattamenti metadonici a scalare o di mantenimento e più frequentemente "gestiti" con la somministrazione esclusiva di farmaci inadeguati e non terapeutici quali sedativi e barbiturici, comunque consumati in gran quantità dalla popolazione detenuta (e non solo).

       

    1. 5 Disagio e problemi disciplinari
    2.  

     

  • 5 Disagio e problemi disciplinari
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    Il tema dell’utilizzo massiccio di psicofarmaci negli istituti di pena ricorre sistematicamente nelle relazioni che abbiamo analizzato e sembra coinvolgere i detenuti di tutte le nazionalità. Ce ne siamo occupati anche in una serie di interviste (33) con detenuti stranieri, in prevalenza maghrebini, presso le strutture penitenziarie di Trapani, Palermo, Venezia e Padova. Si tratta di un campione ovviamente insufficiente per formulare deduzioni statisticamente fondate ma, al di là del consumo personale ammesso di frequente, questi detenuti ci hanno offerto una stima allargata ai compagni di cella (controllo diretto sull’assunzione) e di istituto (informazioni attraverso il dialogo o il "sentito dire") che testimonia come l’utilizzo di tali farmaci riguardi almeno il 50% dei detenuti stranieri.

    E’ allora necessario interrogarsi sulle valenze di un simile livello di consumo. Abbiamo già avanzato l’ipotesi che esso sostituisca a volte terapie più efficaci di contrasto all’astinenza da altri stupefacenti, ma comunque riteniamo possa essere ricondotto a due ordini di obiettivi. Il primo sarebbe in effetti (pseudo)terapeutico: attraverso sedativi e barbiturici possono essere contenuti il disagio psichico che i reclusi portano con sè dall’esterno e le forme d’ansia ed angoscia proprie della reclusione, quali l’insonnia cronica e il senso d’oppressione. A questo proposito ci sembra interessante riportare alcuni passaggi della relazione congiunta di Maria Grazia Grazioso e Luigi Pagano, direttori di carcere intervenuti al convegno ‘Carcere e Immigrazione’ tenutosi a Firenze nel maggio 1999:

    Lo psicologo ha difficoltà ad usare come corretto strumento di relazione il linguaggio verbale e, soprattutto, ha problemi nell’utilizzare sussidi psicodiagnostici quali test proiettivi, in quanto questi rispecchiano regole culturali diverse da quelle di appartenenza degli extracomunitari...Altra difficoltà è il riconoscimento del ruolo, nel senso che è difficile far comprendere, a chi è al di fuori di determinate logiche, la professionalità dello psicologo...In tal senso, dunque, si comprende come il servizio psicologico messo a disposizione di tali detenuti finisca per essere spesso privo di qualunque risultato in quanto non solo non è in grado di

     

    19 Forse non è superfluo precisare che si tratta di una descrizione indiretta, ovvero riportata ai visitatori di Antigone dagli operatori penitenziari e quindi non frutto di una testimonianza in prima persona.

    Forse non è superfluo precisare che si tratta di una descrizione indiretta, ovvero riportata ai visitatori di Antigone dagli operatori penitenziari e quindi non frutto di una testimonianza in prima persona.

    individuare i reali rischi per i gesti di aggressività o di autolesionismo, ma non è neanche in grado di contrastare adeguatamente lo stato d’ansia ed il turbamento collegabili all’entrata in carcere e...anche durante la rimanente fase della carcerazione, poichè le resistenze, non solo linguistiche, ma anche culturali, permangono nel soggetto.

    Una conseguenza logica di queste "difficoltà comunicative", anche se gli autori non lo dicono, sarebbe appunto il ricorso sistematico ai barbiturici, rispetto all’utilizzo dei quali, evidentemente, le "resistenze culturali" sarebbero meno invalicabili.

    Il secondo aspetto fondamentale relativo al loro uso massiccio sarebbe legato alla necessità di supportare chimicamente la difficile gestione della quotidianità detentiva, attenuando le espressioni comportamentali più estreme e favorendo forme invero discutibili di disciplinamento interno.

    Ed è proprio in questo campo che i rapporti dei nostri osservatori chiamano sistematicamente in causa i problemi dei reclusi non autoctoni. In effetti, la descrizione dei momenti di crisi più acuti è quasi esclusivamente legata ad episodi di autolesionismo degli stranieri e al manifestarsi di forme anche gravi di conflittualità interetnica19. Siamo di fronte a due aspetti problematici diversi, accomunati dal vedere protagonisti soprattutto detenuti stranieri.

    19 Forse non è superfluo precisare che si tratta di una descrizione indiretta, ovvero riportata ai visitatori di Antigone dagli operatori penitenziari e quindi non frutto di una testimonianza in prima persona.

    Forse non è superfluo precisare che si tratta di una descrizione indiretta, ovvero riportata ai visitatori di Antigone dagli operatori penitenziari e quindi non frutto di una testimonianza in prima persona.

    individuare i reali rischi per i gesti di aggressività o di autolesionismo, ma non è neanche in grado di contrastare adeguatamente lo stato d’ansia ed il turbamento collegabili all’entrata in carcere e...anche durante la rimanente fase della carcerazione, poichè le resistenze, non solo linguistiche, ma anche culturali, permangono nel soggetto.

    Una conseguenza logica di queste "difficoltà comunicative", anche se gli autori non lo dicono, sarebbe appunto il ricorso sistematico ai barbiturici, rispetto all’utilizzo dei quali, evidentemente, le "resistenze culturali" sarebbero meno invalicabili.

    Il secondo aspetto fondamentale relativo al loro uso massiccio sarebbe legato alla necessità di supportare chimicamente la difficile gestione della quotidianità detentiva, attenuando le espressioni comportamentali più estreme e favorendo forme invero discutibili di disciplinamento interno.

    Ed è proprio in questo campo che i rapporti dei nostri osservatori chiamano sistematicamente in causa i problemi dei reclusi non autoctoni. In effetti, la descrizione dei momenti di crisi più acuti è quasi esclusivamente legata ad episodi di autolesionismo degli stranieri e al manifestarsi di forme anche gravi di conflittualità interetnica19. Siamo di fronte a due aspetti problematici diversi, accomunati dal vedere protagonisti soprattutto detenuti stranieri.

    19. Siamo di fronte a due aspetti problematici diversi, accomunati dal vedere protagonisti soprattutto detenuti stranieri.

    5.1 Autolesionismo

    Gli atti che possiamo ricondurre a pratiche autolesionistiche segnalati dal personale ai visitatori di Antigone sono prevalentemente eseguiti da detenuti provenienti dall’area geografica del Maghreb: sono questi, ormai per antonomasia, i reclusi che "si tagliano" esprimendo così, a seconda delle interpretazioni, "nel sangue, una forma liberatoria" (casa circondariale di Verona) oppure "una forma di protesta" (c.c. di Trento). La seconda interpretazione sarabbe suffragata dal fatto che a questi atti si accompagnano anche scioperi della fame (c.c. di Pisa e Livorno), che coinvolgerebbero peraltro più spesso anche detenuti provenienti dai Paesi dell’Est. Episodi acuti legati a incisioni del corpo si segnalano anche a Bolzano, Trieste, Cremona e Pistoia, ma chi conosce la vita detentiva è consapevole del fatto che essi siano all’ordine della settimana, se non del giorno, quasi ovunque.

    Il disagio che segnalano può essere accostato all’assenza di ascolto cui abbiamo appena fatto riferimento, alle condizioni detentive, all’assenza di prospettive future, all’impossibilità di immaginare altre forme rivendicative. Lascia pertanto perplessi l’affermazione udita nel corso della visita alla casa circondariale di La Spezia, dove si segnala una situazione strutturale molto problematica ma anche la diminuzione degli episodi di autolesionismo da quando è stato proibito il consumo di alcolici: in vino veritas?

    Della forma di autolesionismo più estrema, dell’aumento di suicidi tentati e riusciti tra le mura delle nostre prigioni si parla di rado all’interno delle relazioni esaminate. Il tema sembra suscitare una sorta di pudore istituzionale, o innescare meccanismi di autodifesa tra gli operatori che in questi gesti non possono che vedere un fallimento professionale. Altre fonti sono tuttavia a

     

    20 Morire di Carcere: suicidi, morti non chiare, episodi di overdose (a cura di Ristretti Orizzonti, rivista dei detenuti del Carcere di Padova)

    21 Affermazioni di un Commissario di Polizia Penitenziaria e di un Direttore riportate dopo le visite a due diverse prigioni del Nord Italia

    disposizione; apprendiamo allora da un rapporto del 200420, che nel solo mese di maggio i suicidi in carcere sono stati 5, di cui uno ha visto vittima un cittadino marocchino.

    In effetti, i tentativi di mettere fine alla propria esistenza sarebbero più frequentemente opera di reclusi italiani, mentre gli immigrati si orienterebbero a condotte autolesioniste di tipo espressivo, per definire le quali alcuni operatori penitenziari utilizzano l’aggettivo "strumentali". Strumentali rispetto a che cosa, verrebbe da chiedersi, se non a segnalare un disagio, a manifestare la propria rabbia?

    Certo è presente un’altra modalità piuttosto consolidata per veicolare all’esterno le proprie frustrazioni e la propria aggressività: ce ne occuperemo nel prossimo sottoparagrafo.

    5.2 Conflittualità interetnica e risposte organizzative

    "Il problema è che agli extracomunitari non gliene frega niente, non hanno niente da perdere"

    "Lavorare con 50% stranieri è difficile, cerchiamo di limitare i danni"21

    21

    "Il problema è che agli extracomunitari non gliene frega niente, non hanno niente da perdere"

    "Lavorare con 50% stranieri è difficile, cerchiamo di limitare i danni"21

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    La gestione della disciplina carceraria, a detta di molti operatori ascoltati durante le visite di Antigone, sarebbe negli ultimi anni ben più problematica a causa del mutamento nelle tipologie di "utenti". I processi di accentuata criminalizzazione dei migranti porterebbero con loro pesanti conseguenze nella quotidianità detentiva, elevando i livelli di conflittualità di matrice culturale e portando all’interno delle istituzioni penitenziarie quella esterna, legata alla concorrenza per il controllo di alcuni mercati illegali (spaccio di stupefacenti, sfruttamento della prostituzione). Anche in questo caso si tratta di fenomeni che meritano di essere trattati distintamente, pur essendo entrambi all’origine di una reazione istituzionale piuttosto diffusa. Facciamo riferimento in questo senso alla divisione etnica delle celle, quando non di interi settori degli istituti di pena.

    Si tratta di una modalità di gestione dei reclusi discutibile dal punto di vista costituzionale in quanto può comportare differenze sul piano del trattamento. Vi è inoltre da osservare come essa determini di fatto un processo di concentrazione dell’indigenza più radicale. Se, come risulta da numerose testimonianze, i detenuti non autoctoni risultano sistematicamente i più poveri e i più deprivati di contatti familiari con l’esterno, "confinarli" in sezioni etniche significa impedire loro di beneficiare indirettamente dei vantaggi legati alla presenza di uno o più compagni di cella meno poveri ed isolati. Si potrebbe peraltro aggiungere che tale distribuzione impedisca ai detenuti stranieri di esercitarsi nella lingua del Paese "ospitante" e inibisca gli scambi interculturali, ma ci rendiamo conto che tali sottigliezze dell’integrazione non trovano negli istituti di pena i luoghi più adatti ad essere sviluppate, con buona pace del

     

    22 Per quanto riguarda il carcere di Fermo, la relazione da noi esaminata parla di "regola non scritta di divisione etnica"

    Per quanto riguarda il carcere di Fermo, la relazione da noi esaminata parla di "regola non scritta di divisione etnica"

    23 Anche in questo caso il rapporto parla di una divisione etnica informale (e negata dalla direzione)

    24 Vengono segnalati in riferimento al recente passato per la c.c. di Trento, dove risse e aggressioni avrebbero indotto lo staff a una separazione dei detenuti italiani e stranieri anche nel "passeggio" e per il carcere femminile di Empoli.

    fatto che essi, considerando i dati riportati nei precedenti paragrafi, si presterebbero strutturalmente a questo tipo di sperimentazioni.

    Non sarebbe d’altra parte onesto sottovalutare alcune segnalazioni che ci provengono dai resoconti delle visite secondo le quali la cosiddetta divisione etnica dei detenuti risponderebbe almeno in parte ad esplicite preferenze dei detenuti stessi. E’ il caso, tra gli altri, della casa circondariale di Verona, dove la dirigenza si è espressa nei termini che seguono:
    "Vogliono stare tra connazionali, cerchiamo di accontentarli". Una simile preferenza, come detto, deriva in alcuni casi da una conflittualità di tipo culturale (politica e religiosa). Nelle strutture di Ancona e Fermo22 si segnalano ad esempio momenti di giubilo dei detenuti maghrebini alla notizia dell’attacco alle torri gemelle. Dalla relazione sulla c.c. di Trieste vale la pena di estrarre il brano che segue:

    Recentemente si è verificato un problema con un detenuto italiano, che ha scagliato fuori dalla cella il Corano del suo compagno albanese, provocando la reazione di altri detenuti musulmani. I testimoni nordafricani del fatto, chiamati al consiglio di disciplina a testimoniare, hanno dovuto cambiare l’orario dell’aria. Tutti i detenuti arabi e turchi hanno protestato e fatto uno sciopero della fame anche perchè nessuno voleva come compagno di cella il detenuto italiano responsabile dell’offesa.

    In altre strutture si osserva il rifiuto dei detenuti italiani di dividere la cella con stranieri: senza contemplare la possibilità di un’attitudine razzista, gli operatori ascoltati (ad esempio nella casa di reclusione di Padova
    23) attribuiscono tale rifiuto al fatto che i detenuti stranieri avrebbero rapporti più tesi con gli agenti di polizia penitenziaria rispetto agli autoctoni. Una tensione che ritorna drammaticamente in altre testimonianze raccolte alla casa circondariale di Rebibbia (grave violenza contro un detenuto maghrebino malato che insisteva per avere medicine) e in un istituto del centro-nord, visitato il quale l’inviato di Antigone scrive:

    Quando visito il sanitario, l’infermiera, precisando ‘io non le ho detto niente’ mi racconta che almeno una volta l’anno arriva un extracomunitario con evidenti segni di maltrattamento da parte degli agenti. Poi mi dice che gli altri casi ‘li fanno scivolare’.

    All’origine della separazione tra detenuti italiani e stranieri all’interno di numerosi istituti ci sarebbero quindi semplici preferenze legate al desiderio di condividere gli spazi con persone culturalmente affini evitando che altre tensioni si sommino a quelle della detenzione e, in particolare, che l’attitudine degli stranieri non deteriori i rapporti (anche degli autoctoni) con gli agenti. Problemi legati ad una conflittualità più "fisica" e diretta tra reclusi italiani e immigrati sono in effetti riportati di rado dagli osservatori di Antigone
    24.

     

    25 Distanziamento che, ad esempio nella struttura trevigiana, prenderebbe anche la forma di regolari trasferimenti ad altri istituti di detenuti stranieri giustificati da motivi disciplinari. Un operatore ascoltato durante la visita si è spinto a parlare di "poco rispetto per la vita da parte dei detenuti albanesi".

    26 Il caso di Tolmezzo è particolare perché la direzione ha sottolineato come il criterio della sicurezza e della convivenza pacifica non sia stato l’unico ad ispirare l’assegnazione delle celle: si tenterebbe infatti di mettere insieme quei detenuti che dimostrano impegno nello studio e frequentano assiduamente i corsi di scuola.

    27 Il nostro osservatore ha raccolto alla c.c. di Firenze testimonianze particolarmente crude (macchie di sangue ovunque nel corridoio) di una rissa tra maghrebini e albanesi avvenuta nel 2001.

    Il tema del conflitto interetnico è invece sistematicamente declinato in riferimento a gruppi di stranieri che si contrappongono tra loro, originando risse e aggressioni e inducendo i responsabili degli istituti a contenere gli episodi di violenza attraverso il distanziamento fisico dei detenuti25. Sezioni e celle etniche vengono giustificate in questo senso dagli operatori ascoltati presso le prigioni di Belluno, Bologna, Tolmezzo26, Trento e Treviso. Episodi legati a scontri frequenti o gravi tra gruppi etnici sono inoltre segnalati alle c.c. La Spezia (marocchini contro tunisini), di Mantova e Firenze27 (maghrebini contro albanesi) e Rieti. Nel caso di Bologna e Trento emerge anche il problema dei conflitti intraetnici, ovvero incarnati da detenuti provenienti da singoli Paesi. A Bologna lo storico campanilismo tra tunisini di Sfax e Tunisi si sarebbe tradotto dapprima in un conflitto tra gruppi concorrenti alla conquista di aree dedicate allo smercio di strada di stupefacenti e poi in dinamiche di contrapposizione interna alla struttura di reclusione. A Trento i problemi coinvolgerebbero invece diversi gruppi di albanesi. In sintesi, lo stesso richiamo alla divisione tra ‘etnie compatibili’ appare scontrarsi con una realtà più complessa e articolata che si manifesta all’interno delle prigioni, ma vede le sue radici alimentate all’esterno: in un ambiente, cioè, caratterizzato dalla contesa di risorse scarse legate ad una concorrenza spietata nelle aree delle economie irregolari e illegali.

       

    1. 6 Osservazioni conclusive: verso il carcere assistenziale?
    2.  

     

  • 6 Osservazioni conclusive: verso il carcere assistenziale?
  •  

    Nei paragrafi che precedono queste conclusioni ci siamo concentrati prevalentemente su una serie di aspetti problematici che sembrano rispecchiare, riprodurre e consolidare all’interno delle prigioni nazionali gli svantaggi sociali e relazionali che i migranti esperiscono quotidianamente all’esterno, specialmente quando si trovino in condizioni di irregolarità giuridica.

    Prime "vittime" del sovraffollamento penitenziario, oggettivamente discriminati nell’accesso alle misure alternative, sfavoriti nell’accesso a terapie di contrasto alla tossicodipendenza e ai colloqui con gli psicologi, probabilmente meno considerati al momento di selezionare il personale per il lavoro interno e protagonisti degli episodi più acuti e frequenti di violenza e autolesionismo, i detenuti stranieri sembrano destinati a subire un surplus di pena che a volte può estendersi a provvedimenti di espulsione successivi alla stessa.

    Detto questo, la logica della
    less eligibility appare ancora una volta confermata. A fronte di condizioni di estrema precarietà all’esterno, il carcere si adeguerebbe abbassando complessivamente gli standard di gestione della sua utenza.

    Usiamo il condizionale non tanto perchè questa tesi non ci convinca, ma poichè sulla base delle ricostruzioni biografiche dei detenuti stranieri che abbiamo

     

    28 A tale proposito di veda: Wacquant, L., 2002, Simbiosi Mortale: Neoliberismo e Politica Penale, Ombre corte, Verona

    29 Nelle strutture di Pisa e Livorno si segnalano iniziative di mediazione culturale, in quella di Arezzo la presenza di un educatore esclusivamente dedicato ai detenuti non autoctoni.

    30 Questa carenza di personale comporta come conseguenza la difficile gestione di classi con allievi caratterizzati da livelli anche molto differenti di scolarizzazione precedente, ad esempio segnalata alla c.c. di Verona.

    ascoltato in carcere cominciamo a dubitare perfino del fatto che la prigionia peggiori effettivamente le loro condizioni complessive.

    In altre parole, abbiamo in questi anni trovato conferme di quella che ritenevamo in precedenza un’odiosa e fuorviante considerazione: quella relativa al carcere come complesso contenitivo della marginalità anche in senso assistenziale
    28. Veniamo dunque ai fattori che, dalle relazioni analizzate, sostengono il cambio di prospettiva che proponiamo come riflessione conclusiva, certo non collegabile ad un intento di legittimazione tardiva ed improbabile dell’ideologia rieducativa. La grande maggioranza dei reclusi stranieri, fossero essi stabilmente impegnati nell’illegalità o, più spesso, mobili tra economie illegali e lavoro irregolare nel quadro di una vita di ricerca degli espedienti, ha avuto all’esterno scarsissime possibilità di imparare la lingua italiana, almeno al di fuori delle poche parole indispensabili a gestire transazioni economiche minimali. Inutile spiegare la centralità della lingua nelle dinamiche dell’integrazione, più significativo riconoscere che il carcere consente a queste persone di impadronirsi di strumenti comunicativi di grande importanza29. I corsi di alfabetizzazione sono presenti quasi ovunque e i nostri visitatori testimoniano di una scuola interna che funziona anche in istituti (Ravenna, Rimini) che si caratterizzano per un serio degrado strutturale ed un elevato sovraffollamento.

    Discorso analogo si può avanzare in riferimento all’accesso ai servizi sanitari che il carcere garantisce, quando all’esterno perfino le prestazioni di pronto soccorso -le uniche alle quali gli irregolari hanno diritto- sono poste in discussione, se non altro per il fatto che prevedono una registrazione nominale che a volte spaventa chi ne vorrebbe beneficiare.

    E’ forse utile precisare che ci riferiamo a una scolarizzazione intramuraria ostacolata dal sovraffollamento e dai limiti strutturali e resa problematica a causa del numero troppo basso di insegnanti
    30 che però consente a tanti stranieri di fare passi da gigante dal punto di vista della comprensione e della possibilità di espressione e, come segnalato dalle prigioni di Verona e Trento, induce gli stranieri che hanno (ri)cominciato a studiare a chiedere di continuare.

    Bisogna poi sottolineare che la sanità penitenziaria delle riforme abortite, falcidiata senza ritegno dagli ultimi tagli, sembra ancora in grado di garantire un minimo di assistenza e di sostegno terapeutico a chi, fuori, non ne può beneficiare. Per fare un esempio si potrebbe citare il sanatorio giudiziario di Paliano, dove sono 12 su 40 i detenuti stranieri in cura per la tbc.

    Per quanto attiene i diritti relativi alla pratica religiosa, con riferimento particolare ai detenuti musulmani, i rapporti esaminati non segnalano violazioni: la dieta differenziata sarebbe sempre garantita e gli istituti si sarebbero quasi sempre organizzati per favorire coloro che rispettano i precetti alimentari nel periodo del Ramadam e per allestire spazi di preghiera praticabili anche se spesso un po’ improvvisati. Anche su questo tema verrebbe

     

    spontaneo operare un confronto con quanto avviene all’esterno, con gli annosi dibattiti, compendiati da mobilitazioni di stampo razzista, sulla destinazione di strutture dismesse a moschee.

    Operando una comparazione tra le relazioni che ci sono pervenute, dobbiamo invece segnalare un aspetto poco chiaro. In alcuni casi si segnalano detenuti musulmani, in maggioranza maghrebini, molto ligi nella preghiera ed esigenti per quanto riguarda il rispetto dei loro costumi religiosi. In altri, come ad esempio Treviso, l’immagine è quella di reclusi maghrebini disinteressati alla religione, lontani dal richiedere le visite di un imam. Si tratta di una differenza difficilmente comprensibile, che tenderemmo ad attribuire più alle convinzioni degli operatori ascoltati piuttosto che a un reale valutazione delle propensioni religiose degli internati.

    Siamo dunque di fronte a un carcere che, pur gravato da limiti di risorse, spazi e carenze di personale si configura come surrogato assistenziale a fronte di un utenza via via più marginalizzata, pauperizzata e priva di prospettive di riscatto sociale? Oppure deve prevalere l’immagine del dispositivo di contenimento "nudo e crudo" di una popolazione eccedente rispetto alle condizioni di un mercato del lavoro sempre meno garantito? O ancora dobbiamo pensare ad un’istituzione in grado di orientare perfino la componente più refrattaria dei migranti irregolari ad accettare le componenti più violente e discriminatorie del sistema produttivo?

    Qualunque sia la tesi prediletta dal lettore, sembra inevitabile che si confronti con l’ambivalenza che il carcere sembra oggi più che mai esprimere proprio nei confronti della sua utenza immigrata. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di concentrare l’attenzione sugli aspetti discriminatori dei sistemi giudiziari e penitenziari senza volgere lo sguardo alle dinamiche sociali che ne innescano il funzionamento, chiamandoli a risolvere o contenere problemi e disagi che hanno altrove le loro radici.

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