Il naufragio degli albanesi e la giornalista Pivetti
Mercoledì scorso l'Italia non ha celebrato il decennale della tragedia della "Kater I Rades", la nave albanese che il 28 marzo del 1997 fu speronata dalla nave militare "Sibilla". Dunque non si è svolta alcuna iniziativa pubblica - a parte quella organizzata a Brindisi da alcune associazioni di base - per ricordare i 108 migranti che morirono annegati nel mare Adriatico.
La mancata celebrazione dell'anniversario, non impedisce però di celebrarne un altro, quasi coincidente. Quello della dichiarazione rilasciata alla vigilia, cioè il 27 marzo del 1997, da Irene Pivetti, che fino a due anni prima era stata presidente della Camera dei deputati e allora era ancora parlamentare della Repubblica. Suggerì che, per fronteggiarne la "invasione", gli albanesi fossero ributtati in mare.
Una dichiarazione che, dopo dieci anni, continua a essere ai primi posti nella classifica delle uscite razziste di esponenti politici italiani. Intervistato qualche giorno dopo da Gian Antonio Stella per il "Corriere della Sera", l'allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede , Joseph Ratzinger, reagì con sgomenta incredulità: "In mare... Così ha detto?", poi il silenzio. Il Movimento per i diritti civili presentò una denuncia per istigazione all'odio razziale e un esponente politico cattolico, Pier Ferdinando Casini, disse di provare "pena". Ma nemmeno dopo la tragedia della "Kater I Rades", Irene Pivetti corresse le sue affermazioni. Anzi. Disse "non li ho buttati in mare io" e avanzò il sospetto che le vittime del naufragio non fossero più di cento (come dicevano i familiari e i superstiti e come poi si è accertato).
Sono passati dieci anni. Irene Pivetti ha cambiato mestiere. E' una giornalista professionista. Non le può essere sfuggita (e in tal caso gliela segnaliamo) l'intervista di Tommaso Di Francesco pubblicata martedì scorso dal "Manifesto". Krenar Xhavara, che nel naufragio della "Kater I Rades" perse la moglie, la figlia di sei mesi, oltre a tutta la famiglia del fratello, in quell'intervista ha raccontato il dolore non sopito, la rabbia, l'indignazione dei familiari delle vittime che ancora chiedono giustizia.
Sono passati dieci anni. In questo tempo la lista delle frasi razziste si è allungata. Abbiamo avuto i 'bingo bongò di Bossi, il 'quella signora abbronzata di Calderoli, le disinfestazioni dei treni degli immigrati di Borghezio. Una semina di odio particolarmente vile perché, sistematicamente, i loro autori, quando vengono chiamati a risponderne, riducono le loro affermazioni a 'scherzi', 'battute'. Ma Irene Pivetti adesso sa benissimo che le parole pesano. A dire il vero avrebbe dovuto saperlo anche dieci anni fa, visto che, come si legge nelle sue biografie, è stata la curatrice della prima e della seconda edizione del dizionario della lingua italiana di Aldo Gabrielli, che era anche suo nonno. Adesso, però, è una giornalista, conduce programmi di attualità, dunque con le parole lavora. Dovrebbe averne cura.
Ecco perché celebriamo il decennale di quella sua dichiarazione. Non solo perché i familiari delle vittime la ricordano benissimo, ma anche per suggerire alla collega Irene Pivetti un modo per contribuire alla difesa delle parole, del loro senso. Dovrebbe solo spiegare quelle che pronunciò dieci anni fa. Non è necessario che si dica "turbata", come ha fatto di recente a proposito dell'inchiesta sul suo amico Lele Mora, che pure non è annegato nell'Adriatico. Basterebbe che le spiegasse. Intanto gliele abbiamo ricordate, e continueremo a farlo a ogni anniversario.
(glialtrinoi@repubblica. it)
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