Il dibattito lanciato da Repubblica su sicurezza e legalità ha ricevuto il contributo determinante di Marco Travaglio e Michele Santoro. La puntata di Annozero di giovedì scorso su immigrati e indulto è stata un condensato di luoghi comuni, travisamenti di fatti, confusioni concettuali, qualunquismo mediatico. In quel salotto ben si trovava infatti Alessandra Mussolini. Travaglio ha dato il meglio di sé. Tutti d’accordo erano nel dire che la giustizia deve essere dura e inflessibile, che la clemenza è roba da democristiani, che l’Italia è un paese dove si rischia la vita ogni minuto e puoi essere stuprato a ogni angolo di strada, che la punizione deve essere sempre esemplare, che è assurdo assicurare diritti e garanzie alla difesa. Travaglio con un’ironia facile e senza una parvenza di contraddittorio ha sparato a zero contro l’indulto, ha mistificato i dati sulla criminalità e sulla recidiva degli indultati. Tutto questo è però secondario rispetto a una affermazione buttata là nel dibattito, stupefacente e che ha ripetuto per ben due volte. Una frase più o meno così riassumibile: “Si sapeva che coloro che usufruivano dell’indulto avrebbero commesso un nuovo reato. Non avevano alternativa sociale. Per questo dovevano rimanere dentro.” Se Travaglio si fosse limitato a dire, accedendo a tesi neo-lombrosiane, che i poveri e gli immigrati hanno un dna criminale, allora ne avremmo contestato il fondamento scientifico e tutto sarebbe finito lì. Ma lui, usando un contenitore televisivo che sa essere in particolare visto dal popolo della sinistra, fa un ragionamento alla Rudolph Giuliani: la società è una coperta troppo corta per coprire testa e piedi; coloro che per forza di cose ne restano fuori, piuttosto che vederli nelle strade li mettiamo in galera, così avremo fatto un servizio completo almeno a quelli sotto la coperta. Marco Travaglio è un giustiziere della notte televisiva, un sobillatore di allarmi sociali, taglia tutto con l’accetta, trasforma le vittime in colpevoli. E lo fa cercando di pescare consensi nel mondo anti-berlusconiano di sinistra. A quel mondo chiediamo di opporre una resistenza culturale all’ondata populista, illiberale e violenta della giustizia televisiva. Speriamo che a sinistra non si arrivi a rinunciare almeno all’orizzonte culturale di una società capace di includere tutte e tutti. Molti, anche a sinistra, ritengono oggi che chi sbaglia debba pagare scontando una pena affittiva e in odor di vendetta. A loro chiedo di fare due gesti interiori: 1) di indignarsi per una società che sceglie di mandare al macero una parte di sé, non offrendole a monte altra opportunità che la delinquenza e sbattendola in galera non appena a valle. Può sbagliare solo chi aveva la possibilità di agire altrimenti. “Non avevano alternative”, continuava ieri a dire Travaglio. Poveri, senza integrazione lavorativa, senza rete sociale, si sapeva che per sopravvivere avrebbero commesso un reato; 2) non rinunciare all’orizzonte culturale di una giustizia mite, fondata su garanzie liberali e rispettosa dei diritti umani. Spero che i miei interlocutori vogliano seguirmi su entrambi i punti. Ma se sceglieranno di non farlo sul secondo - seguendo invece la deriva di questi tempi, segnati da campagne stampa di media “democratici” e da prediche di guru dell’informazione - non potranno non farlo sul primo, una volta lo abbiano riconosciuto nelle parole di Travaglio. Carlo Levi intitolava il suo duro libro di condanna della situazione italiana Le parole sono pietre. Le parole sono pietre, macigni, possono far male. Se recitate dall’altare televisivo, senza contraddittorio, fanno ancora più male. Speriamo che i grandi media italiani ridiventino luoghi di un pensiero articolato e non si riducano a scontati megafoni di battaglie law and order.
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