di Chiara Ingrao
Intanto grazie. Grazie alla Casa delle donne, a tutti voi che siete qui, e alle persone che oggi prenderanno la parola per ricordare mia madre, e soprattutto per riflettere sulla sua esperienza come un patrimonio che non va imbalsamato, ma messo a frutto nel presente. È un grazie non solo mio ma di tutta la mia famiglia, e in particolare di mio padre, che non è qui fisicamente ma è come se ci fosse. E il grazie più caldo lo vogliamo dire alle persone splendide che hanno costruito questa iniziativa con noi, e cioè, oltre a Susi, Stefano Anastasia, Sergio Giovagnoli, Mariangela De Blasi, Giovanna Giorgini, Andreina Albano che ha curato l’ufficio stampa, e Giovanni Toro che ha fatto il montaggio dei video.
Il video che avete appena sentito si conclude con una frase: “mi sono offerta per fare qualcosa di utile”. È una frase semplicissima, ma che per me suona come una sfida, in un mondo in cui “utile” è venuto a significare solo l’utile personale, la spinta ossessiva a fare ciò che procura più soldi, o più potere, o più notorietà. Per Laura, molto semplicemente, utile è fare al meglio ciò che sai fare meglio, con gli altri e per gli altri.
In altre parole, per lei, fare anche a Rebibbia ciò che aveva fatto tutta la vita: la professoressa. “Professoressa” è una parola che per molti suona antipatica. Lei invece la rivendicava, ostinatamente: e nel rivendicarla la trasformava, giorno per giorno. Il luogo di lavoro che aveva scelto non era un liceo, ma un istituto magistrale pieno di pendolari e di studenti lavoratori. Il suo riferimento era Don Milani, negli anni ’60 e ’70. E nei ’50 Makarenko, il pedagogista russo che aveva scritto che la scuola deve essere una fabbrica senza prodotti di scarto, perché una vite o un trapano possono essere buttati via, una vita umana, un’anima umana no.
Erano le parole di un comunista, per una donna che scelse di essere comunista e lo rimase sempre: ma sempre a modo suo. Un’intellettuale innamorata della cultura, ma che ci teneva a essere e definirsi una compagna di base, e che i suoi più feroci strali polemici, oltre che contro l’arretratezza della scuola italiana, li riservava proprio agli intellettuali comunisti, i quali, come scrisse una volta, sono tanto umili da “andare a scuola dalla classe operaia”, ma lo fanno come quel nobile citato nei Promessi Sposi, che “a servire a tavola Renzo e Lucia ci arrivava, a sedersi a tavola con loro, no”.
Laura non “andava a scuola” dai detenuti di Rebibbia, non “serviva a tavola” i suoi ragazzi proletari dell’Oriani: ci si sedeva a tavola, e non solo metaforicamente. Come scrisse Francesca Spano, che frequentò intensamente la nostra casa negli anni ’60, Laura teneva la casa aperta a chi passava e cercava una cena e altro, offrendo, come diceva lei, un boccone di pane raffermo e un pezzo di formaggio rancido, e – come adesso dico io – un luogo di pensiero e di relazione.
Nella pratica di Laura, relazione voleva dire investire tempo, energie, capacità di ascolto diverse da persona a persona. Non per generosità, anche se generosa lo era moltissimo; ma perché per lei era questo, il cuore e il senso dell’impegno pedagogico, e più in generale del nostro stare al mondo, e perfino del far politica.
Oggi non è facile, spiegare a chi vive tempi così diversi che cosa è stato in altre stagioni l’intreccio fittissimo fra relazioni umane, dimensione personale e affettiva, e impegno politico e sociale. Eppure è proprio questo intreccio, che a volte è stato anche soffocante, ma di cui ci siamo nutriti, che ha accomunato due generazioni diverse e spesso fra loro contrapposte, come quella di mia madre e la mia – quella generazione del ’68 con cui Laura si misurò sempre da pari a pari, a casa e a scuola, andandoci insieme alle assemblee, e nelle piazze a prendere manganellate, ma anche scontrandosi a viso aperto, sull’uso della violenza o sul valore della cultura.
Come ha raccontato Giacomo Innocenti, allora uno dei leader dei maoisti all’Oriani, Noi lanciavamo slogan sull’antifascismo, sulla ‘Resistenza tradita’: lei ci proponeva Vittorini e Pavese, ‘Americana’ e Hemingway. Noi mugugnavamo sui Promessi Sposi, e lei ci parlava di Renzo come ‘proletariato emergente’, dell’evoluzione sociale attorno a cui si dipana la storia di Manzoni. Era così, che riusciva a farsi ascoltare da noi – l’unica, fra tutti i professori. Con gli altri, mettevamo i piedi sul banco, battevamo per terra, esibivamo il distintivo di Mao come un trofeo.
Ecco, è la seconda volta che cito I Promessi Sposi, e forse vi sembrerà un po’ buffo: ma il fatto è che per me, come per le mie sorelle, i Promessi Sposi non sono un libro di scuola: sono un ricordo d’infanzia. Sono una fiaba, che ogni sera rende appassionante la cena. Sono una fiction a puntate, avventurosa come tutte le storie che mamma ci regalava, in ogni momento della giornata: le novelle di Boccaccio, l’Orlando furioso, perfino la Divina Commedia. O come le storie di papà nascosto in una capanna in Calabria e assediato dai topi, o di Laura e Pietro fidanzati per finta, per giustificare gli incontri fra cospiratori, e poi innamorati per davvero.
Vedete, a me è capitato spesso, di sentirmi dire quanto sono stata fortunata ad avere avuto un grande padre e una grande madre, e non dico di no; ma di grande, per noi, c’è stata soprattutto la nostra grande casa incasinatissima, affollata di donne e di figli e di amici dei figli, e abitata dalla presenza tangibile di un grande amore. È stato imparare sin da piccoli che fra uomo e donna ci si può amare senza schiacciarsi, che nella coppia possono convivere la passione e la reciproca autonomia di pensiero.
Laura non è stata una femminista, anzi con il femminismo ha polemizzato spesso: ma è stata una donna libera, nel suo tempo e nella sua stagione, che fu la stagione dell’emancipazione e dell’UDI, della conquista del diritto di voto e dei primi diritti civili e sociali, e prima ancora, nell’Italia fascista senza diritti né voti, della rivolta contro un regime becero e maschilista, e contro ciò che quel regime rappresentò, non solo come privazione della libertà e razzismo, ma, disse mia madre parlando degli anni ’30, come invito alla boriosa presunzione dei peggiori.
Sono parole che fanno venire i brividi, in giorni in cui ci chiediamo se sia finalmente finito quest’altro ventennio, certo meno cruento, ma di nuovo dominato dall’invito alla boriosa presunzione dei peggiori.
Il ventennio tragico lo sappiamo tutti come finì: con il sangue e la guerra. Finì grazie alle truppe alleate, ma anche grazie a uomini e donne come mio padre e mia madre, o come Giovanna Marturano che ci ha lasciato pochi giorni fa a centouno anni, o Marisa Rodano di cui abbiamo festeggiato proprio qui un bellissimo novantesimo compleanno, o come la sarta, la studentessa, la professoressa e l’operaia, sedute nel 1943 “davanti a un caffè di inqualificabile aroma (cicoria? ghiande?)” di cui scrisse Laura per raccontare come si organizzava la resistenza fra le donne romane. Una resistenza eroica, non meno di quella delle montagne; ma disarmata, e intessuta di quotidianità: nascondere soldati fuggiaschi, fermare, alle Poste, le lettere di denuncia ai tedeschi, organizzare l’assalto ai forni delle donne affamate e il rifiuto degli insegnanti di firmare il giuramento repubblichino, o far funzionare quel comitato di assistenza alle vittime del fascismo che in piena occupazione tedesca già esercitava, ha scritto mia madre “una funzione di legalità reale contro l’illegalità imperante”, perché distribuiva con equità e onestà scrupolosissime gli stipendi agli ufficiali alla macchia, e i sussidi alle famiglie dei fucilati e dei carcerati.
Laura l’aveva vissuta in prima persona, la condizione di familiare di un carcerato. Nel dicembre del ’39, il gruppo di giovani antifascisti di cui faceva parte era stato colpito da un’ondata di arresti, e fra gli arrestati c’era suo fratello. Fu allora, raccontò molti anni dopo, che nella sua vita maturò una svolta. Nel momento dell’arresto di mio fratello prendiamo coscienza: passiamo dall’essere antifascisti di riflessione all’essere persone che il fascismo espelleva dal corpo sociale.
Fu una svolta drammatica, dalla riflessione all’azione; ma fu anche, per Laura come per molti altri, il momento in cui uscì per la prima volta dal suo mondo di intellettuali e insegnanti, per incontrare non solo le operaie e le sarte comuniste, ma un mondo più vasto, di persone espulse dal corpo sociale non solo per motivi politici.
Ecco, questo mio racconto a ritroso si ferma qui, a quel momento e a quell’incontro, che ora ascolterete raccontato dalle parole di mia madre, e dalla voce di mia sorella Celeste. È il ricordo di alcune ore vissute proprio a pochi passi da qui, a Vicolo della Penitenza: quando Laura per la prima volta alzò lo sguardo sugli invisibili, e decise di non abbassarlo mai più.
Chiara Ingrao
21 settembre 2013
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